In una sorta di lungo monologo, interrotto solo dalle necessarie cadenze dei pasti e del riposo notturno, un anziano reduce della Guerra Civile americana racconta uno spezzone della sua esperienza bellica. È stimolato da una giovane studentessa universitaria. Lo ha trovato dopo una lunga ricerca: vuole sapere, dalla viva voce di un testimone diretto, se è vero, o meno, che, durante una certa battaglia, l’esercito sudista si è reso colpevole di un orrendo crimine di guerra nei confronti di un ampio gruppo di persone di colore. Di quei negri, cioè, che hanno osato prendere le armi contro i propri padroni. Non è un’intervista facile. Da un lato, infatti, il vecchio Dick Stanton si perde in aneddoti e storie di vario genere, e fatica ad arrivare al punto, che alla fine si rivela comunque in tutta la sua durezza. Dall’altro, poi, l’intervistatrice, che pure proviene dal sud, si sente a disagio, perché capisce di avere radici intrise nella stessa cultura. A leggere i commenti che alcuni lettori hanno lasciato sulle principali piattaforme di vendita online, si resta un po’ spiazzati. Non sono pochi – anche tra coloro che si dichiarano affezionati fans del Barbero storico e saggista – a esprimere una qualche delusione. I motivi della critica, per lo più, sono questi: la trattazione dell’eccidio teoricamente posto al centro della trama arriva troppo tardi; il resoconto in prima persona è prolisso, perché affidato al flusso di coscienza dell’ex soldato; i grandi temi sottesi alla dinamica dello schiavismo e del conflitto socio-economico vengono disciolti nei ricordi rapsodici della voce narrante; etc. 

Ciò premesso, occorre affermare, invece, che Alabama è un testo assai riuscito. Chi, in Italia, volesse studiare la guerra di secessione in modo approfondito non potrebbe che prendersi l’ormai classico (ma equilibrato e assai completo) libro di Luraghi. Chi, viceversa, volesse immergersi in una prova letteraria sottilmente allusiva, ma non meno efficace – se si vuole anche a mera preparazione suggestiva di un successivo lavoro di scavo – dovrebbe sicuramente affidarsi a questo romanzo di Barbero. Che rievoca molto bene un contesto, una memoria, un’abitudine, un tessuto di credenze e di pratiche, facendolo, peraltro, con un andamento faulkneriano, in tutto e per tutto adatto al soggetto. Peraltro l’Autore non è mai indulgente, non segue – in altri termini – le posizioni (discusse, quanto argomentate) di Shelby Foote: in proposito, la lunga attesa dell’episodio centrale, disseminata da digressioni disorientanti, non è altro che un espediente per enfatizzare una climax, un crescente trascorrere all’evento per il tramite dello stratificarsi, via via più evidente e conseguente, suoi presupposti morali e materiali. Ma l’aspetto che più convince è il progredire del turbamento ambiguo della studentessa, con un’intenzione (propria dello scrittore) che vuole indirettamente spiegare anche a noi lettori, contemporanei, e come tali apparentemente lontani da quegli scenari, la genesi incrementale e apprenditiva dei sentimenti e delle azioni collettivi più oscuri e violenti. In definitiva, anche quando si cimenta con il genere del romanzo, Barbero non smette di raffigurare in modo convincente e performativo interi spaccati del passato. Dimostrando, in tal modo, che il suo segreto è una fortissima, e invidiabile, capacità di immedesimazione.

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La signora Janina vive sola in una piccola casa di un villaggio di montagna, non lontano da Kłodzko, al confine tra Polonia e Repubblica Ceca. Ha qualche acciacco, ma è comunque molto attiva. È appassionata di astrologia. D’inverno sorveglia e custodisce alcune abitazioni, utilizzate come seconde case. Insegna anche un po’ di inglese in una scuola vicina e di sera aiuta un suo vecchio alunno, Dyzio, a tradurre alcuni versi di William Blake. Lo scenario può sembrare quieto, e rasserenato, tanto più, dalla costante presenza della Natura. Tuttavia la storia comincia con un evento tragico: il rinvenimento di un cadavere, quello di un vicino di Janina, da lei chiamato Piede Grande. Di lì a poco tocca anche al Comandante della polizia locale, trovato morto in un pozzo. Per quanto Janina cerchi di convincere gli inquirenti che sono stati gli animali i veri autori dei delitti – si sarebbero vendicati delle violenze commesse dai deceduti – le indagini non riescono a condurre ad alcun risultato. Intanto, mentre le stagioni si accavallano, altre persone muoiono ancora, misteriosamente. E Janina – che nel frattempo vive pure un’inattesa avventura… – diventa la prima sospettata. Le vittime, infatti, erano tutte cacciatori, una categoria contro cui proprio la stessa protagonista, che a tutti pare sempre più eccentrica, comincia ad assumere clamorosi e pubblici atteggiamenti ostili. È il perfetto capro espiatorio di una comunità interamente corrotta? O c’è qualcosa di più complicato da scoprire?

Questo romanzo – uno di quelli più famosi della scrittrice vincitrice del Nobel 2018 – si presta a molteplici letture. Lo si può considerare, a suo modo, un manifesto delle concezioni animaliste, che pure, tuttavia, sono portate all’estremo. Tanto che si può immaginare che, almeno in parte, l’Autrice abbia voluto giocare su due piani, mettendo in scena una parabola simile a quella che potrebbe suggerire la nota vicenda di Unabomber. Anche se il finale è diverso, visto che (senza anticipare nulla…) c’è qualcuno che si prende carico, e positivamente, del destino personale della signora Janina. Perché è personaggio che non può non suscitare empatia (non la vedremmo male a prendere un tè con la portinaia de L’eleganza del riccio). In fondo è dura comprendere da che parte stia Tokarczuk. Tanto più che, a rovesciare ulteriormente la prospettiva, è il titolo stesso del libro. “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti”, infatti, è un verso di Blake. È dato senz’altro coerente con qualcosa di cui si racconta nel testo. Però è indubitabile che esso allude direttamente alla grande pericolosità delle determinazioni che si alimentano ai pensieri più profondi… e dunque alla vertigine che questi possono produrre quando diventano ossessioni. E ciò anche quando portano alla luce le contraddizioni e la povertà di molte istituzioni sociali. Il punto è che con i romanzi di questa abilissima narratrice ci si deve semplicemente liberare di ogni ricerca soggettiva di senso. L’Autrice ci conduce, parola per parola, nella sfida irriducibile della realtà e dell’esistenza, che possono insegnarci qualcosa soltanto se abbracciate in tutta la loro complessità.

Recensioni (di S. Ciavolella; di G. Maurovich; di M. Piccone)

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Il mago di Emanuele Trevi è suo padre Mario, famoso psicanalista. E la casa in questione, dunque, è la casa paterna: quella che allo scrittore è rimasta in eredità e che ospitava anche lo studio dove Mario riceveva i pazienti, al di qua di una poderosa scrivania di legno. Emanuele vi si trasferisce, quasi fosse alla ricerca dei segreti di Mario, tanto bonario e tranquillo quanto taciturno, enigmatico e pensieroso. Anche la madre, del resto, glielo diceva: “Lo sai come è fatto”. Giusto per alludere ad una personalità irriducibile. Ad ogni modo, nella casa, i talismani per sintonizzarsi a dovere con lo spirito del mago non mancano: una coperta bucata, quaderni e appunti, l’I King, alcune pietre levigate e, su tutti, una copia di Simboli della trasformazione di Jung, debitamente studiata e spietatamente annotata. L’Autore comincia a leggerla, immergendosi – assieme al padre e allo psicanalista svizzero – nell’osservazione dei prodromi schizofrenici di Miss Miller. Nel frattempo accadono molte cose, piccole eppure significative. Mentre una misteriosa Visitatrice notturna si aggira per le stanze della casa, lasciando segni visibili della sua presenza, la vita di Emanuele viene invasa dalle scorribande della colf peruviana, che gli presenta l’avvolgente Paradisa. La donna, alla fine della storia, lascerà Roma, e così anche la casa. Ma la relazione, per quanto breve e improbabile, consente allo scrittore – come se fosse guidato dall’ispirazione di una figura mitologica – di abbandonarsi e, al contempo, di ripercorrere la giovinezza di Mario, la fuga dalle Langhe, le avventure partigiane, la malattia creativa, l’insegnamento, l’iniziazione alla psicanalisi da parte di Ernst Bernhard. Le abilità narrative di Trevi sono sperimentate e note, specie per la capacità evocativa dello stile. Luoghi e oggetti si animano, stimolano suggestioni potenti e si fanno medium di ricordi, esperienze e cognizioni. Al romanziere riesce, per questa via, un’operazione molto difficile: farsi egli stesso cavia per una traduzione concreta del metodo psicanalitico e per la dimostrazione di quali siano le strade lungo le quali l’io si forma, si orienta e si ritrova.

Recensioni (di M. Belpoliti; di A. De Simone; di D. Matronola; di M. Oliva; di G. Silvano; di G. Simonetti)

Tre interviste a Emanuele Trevi: 1, 2 e 3

Antonio Gnoli intervista Mario Trevi

Luigi Zoja su Carl Gustav Jung

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Tutti conoscono Marcel Duchamp. Almeno per l’esposizione del famoso orinatoio del 1917, che viene sempre ricordato come qualcosa di assolutamente rivoluzionario. E lo è stato davvero. Ma siamo sicuri di averne compreso il senso fino in fondo? Il Duchamp politique di Pablo Echaurren – edito in versione bilingue, inglese e italiana, con un’originale postfazione di Marco Senaldi – offre una lettura incisiva e illuminante. Come può essere quella di un artista – pittore singolarissimo e maestro del graphic novel – che a Duchamp ha sempre guardato come a un punto di riferimento essenziale. Anzi, esistenziale, perché morale, oltre che politico. Un passaggio del libro riassume efficacemente questi caratteri: “In una società di finzione e rappresentazione, in cui le immagini si sono separate dalla vita e lo spettacolo domina ogni campo umano come ornamentazione, come produzione di oggetti-immagine, come insieme di merci che contemplano se stesse in un mondo da esse creato, in una simile società Duchamp adotta oggetti scarni, elementari, sfuggenti alle leggi dell’apparire, sottraendoli al mondo indistinto della merce. Oggetti che non si ergono sui loro produttori espropriati, che emergono in sordina dal paesaggio urbano, troppo urbano, che scoprono un inedito e imprevisto valore d’uso, che riacquistano dignità e si riqualificano nella scelta dell’artista” (p. 98). Questa, di per sé, non è una ricostruzione nuova. E se ne può comprendere bene anche l’attualità, se non la profezia su ciò che molta arte contemporanea sarebbe stata ed è. Basta leggere l’ultimo, aguzzo libro di Andrea Bellini. Tuttavia, a colpire nel segno è la maniera con cui la traiettoria duchampiana è presentata, perché ne evidenzia tutta la radicalità.

L’estrema ironia, la critica delle istituzioni museali, la pratica di uno stile di vita essenziale, il rigetto del denaro e delle sue infrastrutture sociali, la scelta della decostruzione apparentemente più casalinga e spiazzante, eppure ricercata, perché animata dalla volontà di restaurare la profondità intrinseca delle cose ben fatte: sono tutte coordinate di un manifesto umanista che da artistico si fa totalizzante, diremmo antropologico. L’avvio del ragionamento compiuto nel saggio – che induce a un parallelo ficcante tra l’universo duchampiano, l’arte medievale e una sorta di ascetismo filosofico – spiega i fondamenti teorici del ready-made e la sua valenza etica e metodologica. Che nulla ha a che fare con la distruzione dell’arte o dell’artista, bensì, all’opposto, si propone di rigenerarne le esperienze. Quasi in un percorso di liberazione da tutti i fattori che possono, viceversa, svolgere un ruolo condizionante o, addirittura, standardizzante. Si potrebbe scorgere, qui, un sorprendente punto di contatto con il pensiero heidegerriano, con le riflessioni ontologiche su che cosa sia “una cosa”. Chi l’avrebbe mai detto? Alla fine del saggio viene spontaneo tornare all’inizio, per constatare che Echaurren ha proprio ragione: Duchamp è “un palinsesto su cui scrivere e riscrivere all’infinito senza pregiudicarne la superficie, senza mai graffiarla, intaccarla, o anche solo scalfirla”. Perché “tutti giochiamo a scacchi con Marcel, ciascuno di noi portandosi appresso una propria scacchiera è un proprio schema variamente, diversamente, truccati”.

Recensione (di G. Toni)

Conversazione con Pablo Echaurren

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Francesco “Cesco” Magetti è un militare della Repubblica di Salò. Fa parte della guardia nazionale repubblicana ferroviaria, di stanza ad Asti. Il suo superiore gli ordina di trovare una carta ferroviaria del Messico. Nel pieno del freddo e malinconico  clima di disfacimento totale del febbraio 1944 la consegna suona in modo surreale. Dove mai si potrà trovare una mappa del genere? E Cesco, poi, ha anche un terribile mal di denti. Ad ogni modo la ricerca comincia, a partire dalla biblioteca comunale. Dove Cesco incontra l’enigmatica Tilde, viene a sapere che esiste una Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México e che questo fantomatico libro è in prestito. Da qui in avanti si avvia l’inseguimento di Cesco, la cui storia si accavalla con quella, al fine, tragica di Tilde; con quella, quasi fantastica, di Lito Zanon e del suo amico Mec, costruttori giramondo di reti ferroviarie; con quella di Ettore e Nicolao, strani frequentatori di un altrettanto misterioso night clandestino; con quella di un cartografo samoano trapiantato in Piemonte; con quella degli amici di Cesco, che si sono fatti disertori e partigiani; con quella della burocratica e surreale catena di comando che dal Führer è arrivata fino ad Asti, per disporre la caccia alla mappa ferroviaria; con quella di Steno, che si era promesso a Tilde e che si dà alla macchia; con quella di Gustavo Baez, l’autore del volume tanto agognato; con quella della povera Giustina, giovanissima prostituta, barbaramente condotta alla morte; con quella di don Tiberio, disperato parroco di Roccabianca… L’elenco, con i relativi intrecci, potrebbe continuare. Vi farebbe capolino anche Jorge Luis Borges. Fatto sta che nel vortice dell’Odissea in cui Cesco si ritrova immerso qualcosa scatta all’improvviso, conducendo il protagonista al drammatico, eppure liberatorio, epilogo.

Molto si è detto, e scritto, su questo romanzo (libro-mondo, romanzo totale…), tanto che, sia con il classico passaparola, sia per le molteplici segnalazioni online, è entrato anche nella dozzina dello Strega. È un dato che può sorprendere, perché si tratta di un libro-fiume: oltre 800 pagine, per di più articolate in capitoli dalla lunghezza irregolare, ciascuno dedicato a uno spezzone delle tante vicende che ne irrorano la trama. Non è un romanzo facile, quindi. E non è nemmeno il prodotto di un grande editore, suscettibile di essere spinto nelle case delle persone per la sola forza del marketing e delle reti distributive. Si aggiunga che nelle analisi dei lettori più forti Griffi viene variamente paragonato a Pynchon o a Bolaño: Autori mitici, capaci di conferire nel raffronto l’aura del capolavoro, ma non certo annoverabili tra quelli di più agevole frequentazione. Occorre pazienza e disciplina, virtù oggi rare. Infine c’è un altro fattore potenzialmente esiziale: il libro, spogliato del suo grande apparato narrativo e dell’effetto matrioska ingenerato dalle tante digressioni, racconta una vicenda oltremodo schematica. Un ragazzo trascinato per forza d’inerzia tra le fila della parte sbagliata si imbarca in un’avventura surreale e, proprio in quella corrente, pur commettendo un delitto (spoiler), fa giustizia, anche di se stesso. Il tutto in un itinerario che potrebbe banalmente dirsi di formazione. Insomma, il plot può non avvincere e a tratti le pagine (molte) possono farsi noiose. Qual è, dunque, il segreto del successo? 

Sicuramente gioca un qualche ruolo l’apparenza di libro un po’ underground, scelto da un nome cool (Giulio Mozzi) per la sua collana di nicchia. Anche la veste editoriale può avere le sue ragioni. Ferrovie del Messico, per indubbie motivazioni economiche, è un oggetto leggero, con un’impaginazione distesa, che dà l’illusione di sciogliere le complessità linguistiche e di percorrere il suo periodare ubriacante con una sorprendente velocità. Sicché navigare in questo romanzo, all’atto pratico, è meno complesso di quello che può apparire. Come se i modi del confezionamento cartaceo invogliassero a relativizzarne l’interna prospettiva, sofisticata e iperletteraria, rendendola, al contempo, godibile e meglio afferrabile. Qui si nasconde, già dal punto di vista meccanico, la chiave di volta del volume, ossia la commistione inestricabile tra tristezza e ironia, tra pesantezza assoluta e volatilità, tra orrori e speranze. C’è del Chaplin e dello Charlot, sotto la copertina. Perché a rigore è vero che il libro di Griffi, per argomenti e personaggi, se fosse paragonabile a qualcosa di precedente, andrebbe addirittura comparato a Horcynus Orca di D’Arrigo: opera potente e immaginifica, anch’essa viaggio iniziatico e durissimo, perché sovrastato dall’onnipotenza naturale di un destino cupo e avvolgente. Eppure, diversamente da quella prova, Ferrovie del Messico – anche in virtù dell’evidente e insistito flirt con le suggestioni della migliore tradizione sudamericana – è evasione e farmaco, prova tangibile che di fantasia e invenzione artistica si può dolorosamente guarire. Dunque affaticarsi in una lettura ipnotizzante può, alla fine, piacere? Diremmo di si, specie se comprendessimo che, in questo nostro tempo gelatinoso e giustificante, in cui tutto – ma proprio tutto – può accadere e diventare pure normale, Cesco Magetti è effettivamente uno di noi.

Recensioni (di P. Bianchi; di G. Cortassa; di S. Ditaranto; di A. Galetta; di F.M. Spinelli; di G. Tinelli; di C. Vescovi; di G. Vignanello)

Tre interviste all’Autore: qui, qui e qui.

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Per fortuna che d’estate si trova quasi sempre un Faulkner da leggere. Questa volta è l’ultimo romanzo, dato alle stampe nel 1962, l’anno della morte del grande scrittore. Lo ripropone La Nave di Teseo in una edizione leggibilissima (una rarità: caratteri ampi, spaziature altrettanto ariose, una pagina che scorre e si fa bere con gusto). Di questo romanzo si possono sapere facilmente molte cose: che tra tutti quelli del Premio Nobel di Oxford (Mississippi), è stato a lungo considerato come uno dei meno riusciti; che ha fornito la materia per un film del 1969, con Steve McQueen, a quanto pare anch’esso poco apprezzato; e che ripropone i consueti topics dell’universo faulkneriano (l’epos della contea di Yoknapatawpha, il rapporto tra “bianchi e neri”), in una trama avventurosa e in parte tragicomica, sulle orme dell’Huckleberry Finn di Twain. In effetti la prima impressione può essere proprio questa. Il protagonista è Lucius Priest, che racconta al nipote ciò che gli è accaduto quando aveva undici anni, nel 1905. Cioè quando, assieme a Boon Hogganbeck e a Ned (un meticcio di origine chickasaw e un lavorante di colore), sottrae al nonno (il Padrone) la sua nuova automobile, finendo prima a Memphis, in una casa di piacere, e poi a Parsham, nella fattoria del vecchio Zio Possum, all’insaputa di tutta la famiglia. E restando coinvolto in furti, sortite notturne, corse clandestine di cavalli, scommesse, improbabili storie d’amore: in altre parole, vivendo un’avventurosa e perturbante occasione per diventare adulto. L’apparenza, dunque, è quella di un classicissimo romanzo di formazione, calato nel mondo e nello stile lussureggianti e inconfondibili di un maestro della narrazione.

Fosse solo questo, il libro si distinguerebbe già dal canone cui potremmo ricondurlo. Perché è un plot che Faulkner restituisce in modo magistrale. La voce del ragazzo, i suoi pensieri, il suo percorso psicologico, l’ingenuo trasporto, il divertimento e il disorientamento… Tutto è reso nel modo migliore. C’è piena immedesimazione da parte dell’Autore, il lettore lo sente rapidamente e si immedesima a sua volta. Per chi volesse approfondire, poi, c’è un sofisticato sottotesto, che – come rivela anche la nota del traduttore, in chiusura del volume, rimandando ad un recente studio – coincide con il tema iniziatico delle Metamorfosi di Apuleio. Lucius è come il Lucio di quell’antica storia, ed anche qui è una figura femminile (Miss Corrie come la dea Iside) a farsi mediatrice del rito di passaggio (che è tale anche per Boon Hogganbeck, che di Corrie è innamorato). È senz’altro una prospettiva interessante, che forse spiega anche il mood sotteso alla scelta del titolo: the reivers, i saccheggiatori, i picari che se ne approfittano, ma cui per definizione è concesso superare il confine; non meri ladruncoli, dunque, come invece potrebbe apparire superficialmente, se ci soffermasse solo sulla sgangherata fisionomia dell’improbabile banda che lo scrittore mette sulla scena. Ma più che per simili raffinatezze, il racconto faulkneriano è impagabile per altri fattori, di immediata, istintiva percezione: la caratterizzazione perfetta dei personaggi (la saggezza sfrontata e lo slang di Ned non si dimenticano facilmente, come il temperamento di Miss Reba, la stoica tenutaria); l’umanità assoluta e nobile di alcune immagini (Zio Possum, l’anziano ex schiavo che al cospetto degli altri si staglia come giudice e patrizio); il tratto argutamente pedagogico di certe divagazioni (i passi sull’intelligenza degli animali, tra pag. 152 e pag. 155, sono iconici quanto quelli di un Fedro o di un La Fontaine); il dualismo implicito, quasi cavalleresco, tra eroi ed antieroi (Lucius vs. Otis; Boon vs. Butch). Insomma, con Faulkner si respirano letteratura e vita allo stato puro. È una bella boccata d’ossigeno.

Un breve sommario

Perché William Faulkner?

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Finita l’Università, Matteo è rimasto a Roma. Si mantiene con piccole collaborazioni editoriali ed è appassionato di cose arcane. Un giorno riceve un messaggio sul cellulare: viene convocato, non si sa da chi, in un luogo preciso, al tramonto, sulla terrazza sopra il Tabularium. Da lì assiste a una strana rappresentazione, che si svolge nel foro sottostante, svanendo all’improvviso. Non riesce a comprenderne il senso. Tuttavia in un successivo sopralluogo scopre che sul punto esatto in cui aveva intravisto la misteriosa cerimonia si trova una pietra, che reca scolpite le lettere F C S, iniziali per Fulgur Conditum Summanium. Capisce, allora, che lì era caduto anticamente un fulmine e che l’evento era stato segnato dalla rituale sepoltura del fulmine stesso, secondo una tradizione che i romani avevano mutuato dagli etruschi. Nel frattempo Matteo conosce Silvia, una ragazza che si occupa di beni culturali. Lo coinvolge in una relazione magnetica, capace di evocare strani, realistici fantasmi; ma anche di metterlo sulla strada giusta, perché è Silvia a stimolarne ulteriormente la curiosità. Tanto che Matteo decide di rivolgersi al Prof. Mulini, l’anziano e autorevole docente con cui si è laureato. L’avventura prende presto una piega sempre più enigmatica: a Matteo appare addirittura il suo doppio; poi parte una ricerca metodica delle tombe dei fulmini, per capire se la loro collocazione sia capace di rivelare un senso recondito; si avverte anche che Mulini nasconde più di qualche segreto, specie quando muore e lascia a sua casa e la sua enorme biblioteca (con la sapienza che essa occulta) proprio a Matteo… Altro non si può dire, per non togliere il piacere della lettura a chi voglia sperimentarla direttamente. I nodi verranno comunque al pettine e il protagonista saprà di esserlo stato, sin dall’inizio, anche nei pensieri di qualcun altro.

Il romanzo è del 2017, libro d’esordio dell’Autore e prima puntata di una trilogia (completata dal Libro del sole e dal Libro del sangue). Nel Matteo-personaggio c’è molto, evidentemente, del Matteo-scrittore, che pure si occupa di filosofia, esoterismo e magia in quel di Roma. È una formula che gli consente di scrivere di quello che sa, in un approccio, peraltro, che stimola facilmente immedesimazione. Lo fanno sempre i motivi centrati sull’iniziazione, e qui ve ne sono almeno due (quello del passaggio dalle Marche a Roma, in viaggio col padre; ma soprattutto quello della transizione a una maturità diversa e ad un grado superiore di coscienza). Poi – con la facile scorta della mappa che apre il volume – Trevisani spinge anche all’esplorazione dei tesori della città ipogea e di siti storici e archeologici non sempre al centro dell’attenzione turistica (come la Basilica dei Santi Quattro o la Domus Fulminata di Ostia Antica). Anche questo è qualcosa che suscita curiosità. Ma non c’è dubbio che gli spunti autobiografici e topografici sono solo la miccia per una sublimazione letteraria vera e propria, e ben riuscita. Lo si può dire non tanto per il senso della trama: il mistery è abbastanza schematico, anche dove rimette in gioco una suggestione simile a quella del famoso romanzo di Cazotte, Il diavolo innamorato, con il quale c’è più di un’assonanza (ed è un merito). Il punto di forza è la scrittura: precisa, elegante ed efficacemente evocativa di luoghi e sensazioni; densa, ma a suo modo delicata, non pesante, specie perché ripartita opportunamente in capitoli agili. A tratti si ha l’impressione che sia uno stile del tutto inadatto ad avvincere il lettore nel thrilling di un indagine da compiersi in segreti millenari. È così, in effetti, visto che Trevisani non insegue Dan Brown. Pertanto è giusto che le sue parole siano quelle di un viaggio interiore, di una meditazione che rivela la vera natura – classica in senso proprio – del racconto e dell’intenzione che lo percorre. Pierre Hadot avrebbe apprezzato.

Recensioni (di L. Alvino; di S. Bachechi; di O. Labbate; di M. Manon; di M. Nucci; di C. Taglietti)

L’Autore a Radio Radicale

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Nel quadro delle letture dell’anno, per quanto compiute finora, questa è stata la migliore. Una scoperta, si potrebbe dire, fatta sulla scorta dell’entusiasmo (ritrovato) per uno sport che sa dare grandissime soddisfazioni. Anche in quest’ultimo senso l’annata è stata più che mai proficua. E promette di continuare ad esserlo. Le NBA Finals hanno consacrato l’inarrestabile forza dei Denver Nuggets, vincitori dell’anello per la prima volta, e il ruolo di assoluto protagonista che da qualche tempo si è ritagliato Nikola Jokić (guardare per credere). I mondiali – che sono in corso tra Indonesia, Filippine e Giappone – forse non fanno presagire cose eccelse per la Nazionale italiana: ma il podcast allestito durante il ritiro da Gigi Datome e Niccolò Melli è assai divertente, ed è sempre bello soffrire partecipando agli alti e bassi del quintetto azzurro. Che per ora, comunque, ha saputo trasmettere emozioni inattese. Il fatto è – tornando al punto – che il libro di David Hollander non è necessariamente un testo per amanti della pallacanestro. È il laboratorio di una scuola di pensiero: un itinerario, scandito in 13 lezioni / principi, per sperimentare quanto la logica del playground possa fungere da stimolo per intuizioni e soluzioni utili ai fini del miglioramento della società. A suo modo, infatti, Come il basket può salvare il mondo è una proposta politica, ovvero, usando le parole assai esplicite dell’Introduzione, “una storia nuova, una nuova cornice in cui inquadrare il senso di quello che facciamo, un nuovo ismo”.

L’Autore gioca con alcune parole-chiave (collaborazione, equilibrio individuale e collettivo, equilibrio di forza e tecnica, non posizionalità, alchimia, inclusività, etc.) per scandire e illustrare una serie di insegnamenti. È il frutto che le origini, le evoluzioni, lo spirito, i protagonisti e alcune grandi culture del basket possono consegnare a chi volesse costruire, oggi, una leadership consapevole ed efficace. C’è un po’ di retorica, naturalmente, come è tipico di chi sia fortemente appassionato; e ci sono anche tutte le radicalità e ingenuità prospettiche – delle vere esagerazioni, talvolta – di una visione americana fino al midollo. Di un approccio che si esalta solo nell’essere larger than life. Ma non si può non restare catturati dal modo con cui Hollander dà corpo ai propri ragionamenti ricorrendo a episodi o vicende da assumere come metafore incisive ed ispiranti. In tanti casi chiama in causa le gesta, le qualità, il carattere e le imprese di eroi, vecchi o nuovi, della NBA (Wilt Chamberlain, Steve Nash, Larry Bird e Magic Johnson, Draymond Green…) o di alcune squadre (i Boston Celtics, i Philadelphia 76ers, I Golden State Warriors, gli Oklahoma City Thunder, i Toronto Raptors…). In altri casi, invece, trasla il succo, o il valore, che si può trarre da ogni singolo exemplum per provare l’universalità del linguaggio che va elaborando. Ad esempio, la parte dedicata all’alchimia umana (che si può riassumere con questa citazione: “Ogni persona e ogni istituzione deve impegnarsi a viso aperto con il mondo che cambia e mescolarsi coraggiosamente con esso, non per diventare migliori ma per diventare diversi”) funziona benissimo come una delle migliori introduzioni all’importanza dell’interdisciplinarità nella ricerca.

C’è un aspetto, però, più di tutti, che lega l’intero discorso di Hollander e che quasi al principio, in un paragrafo, è apertamente esplicitato. È il parallelo tra il passaggio critico dal XIX al XX Secolo e le lunghe e reiterate transizioni di cui è innervata la nostra epoca; tra una fase di intense trasformazioni economiche e di correlati conflitti sociali, con forte divaricazione di classe e di “ruoli”, e una fase in cui la combinazione di crisi ecologica e incombenti orizzonti di ulteriore rivoluzione tecnologica stanno generando dinamiche analoghe. In questo raffronto il basket, per Hollander, non può che rilanciarsi spontaneamente, perché inventato in un momento in cui vi era bisogno proprio di ciò che serve tuttora: un’occasione facilmente approcciabile per rieducarsi e avvicinarsi reciprocamente, e per scoprire uno scopo capace di stimolare empatia, idee nuove ed emancipazione. Non a caso, l’ultimo capitolo è intitolato alla trascendenza: perché “la fatica deve andare di pari passo con l’aspirazione”; e del resto “per segnare devi scendere lungo il campo ma poi devi anche salire!”. Ecco, Hollander, riannodandosi all’esperienza di James Naismith, il geniale creatore di questo sport, ci fa capire non tanto che alla base della rifondazione politica di cui il mondo ha bisogno ci dev’essere una radicale istanza etica, quanto che quest’ultima non può esistere se non per mezzo di infrastrutture concrete in cui metterla alla prova e assimilarla ex novo.

Recensioni (di M. Pettene; di U. Zapelloni)

Intervista all’Autore

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Joseph Ponthus, laureato in lettere che cerca di convivere con l’instabilità della sua condizione di insegnante precario, lascia Parigi per seguire la compagna in Normandia. Deve trovare una nuova occupazione e così si affida a un’agenzia di lavoro interinale, che lo fa debuttare nel mondo della fabbrica – alla linea di produzione – e nello specifico in quelli che si rivelano subito i gironi dell’industria agroalimentare. Comincia in uno stabilimento che lavora molluschi e pesce. Orari terribili, pause rarefatte, freddo pungente e odori altrettanto penetranti, con un incombente e costante rischio di infortunio. Stare alla linea, dunque, è come stare in trincea. Non a caso si apre con Apollinaire che scrive dal fronte (“È incredibile tutto quello che riusciamo a sopportare”). Ma che cosa si apre? La forma è quella della poesia. Può sembrare anzi quella di un poema, la saison en enfer del prototipo del lavoratore sfruttato, eppure consapevole, arrabbiato e triste allo stesso tempo. E tuttavia Alla linea si presenta al pubblico come un “romanzo”, un racconto in versi i cui capitoli sono iconiche raffigurazioni di situazioni tipiche: di stordimento, fatica, speranza, intimità e tenerezza familiare e, a tratti (si direbbe), orgoglio e coscienza di classe. Tutto scandito al ritmo delle canzoni di Brel e Trenet. La discesa di Ponthus, peraltro, non ha fine: approda al mattatoio, al lavaggio dei locali imbrattati di sangue e di scarti, al faticoso e pericoloso spostamento di carcasse congelate. 

Se la parola romanzo, a questo punto, ha un senso, ce l’ha per la facilissima e spontanea associazione alle ambientazioni più dure di Zola. Ma il fatto è che non ci troviamo nella seconda metà dell’Ottocento (e nemmeno sul fronte occidentale, sebbene, puntuale, arrivi sempre il solito Apollinaire: “Impossibile da descrivere. È inimmaginabile”). La tragedia individuale e collettiva del lavoro e delle sue estreme spremiture si svolge ai giorni nostri. E le settimane di Ponthus si susseguono eguali, spietate, ma anche disperate e coraggiose, quasi fossero dei tunnel senza soluzione di continuità; spesso all’interinale conviene lavorare anche il sabato, per arrotondare il già magro compenso. Non c’è posto per nulla di diverso. Nulla che non sia la pur difficile scrittura, un atto di resistenza morale e di salvezza interiore. Con la fabbrica come elemento totalizzante, luogo di pena, ma anche occasione di introspezione e di confronto con il proprio essere, mente e corpo. È evidente che questo è un testo per lettori determinati. Perché ci vuole forza vera per sostenere l’efficacia, la verità, la cultura e, in definitiva, la grandezza di una voce come questa. Specie sapendo, per di più, che è l’opera prima, e unica, di un Autore quarantenne che, di lì a poco, è morto per un tumore. Eppure ci troviamo di fronte ad un testo necessario: non solo per la denuncia e la dignità che manifesta; ma soprattutto perché capiamo che ad essere scomparso è un vero, indispensabile poeta, tanto tagliente quanto raffinato e innamorato: di sua moglie, di sua madre, dei suoi compagni, della vita.

Recensioni (di M. Aubry-Morici; di F. Camminati; di M. Moca; di D. Orecchio; di A. Prunetti; di E. Todaro)

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Quando un Pardini si affaccia in libreria, la lettura è d’obbligo. Perché ci si trova di fronte a un autentico, spontaneo narratore (per altre precedenti letture v. qui, qui e qui). Anche Il valico dei briganti non fa eccezione a questo standard. È la storia di Vlademaro Taddei, un fuorilegge che cresce selvaggio e si forma nei boschi e nei pascoli attorno a Bagni di Lucca e diviene bandito a tutti gli effetti in America, sulla costa del Pacifico, dove emigra per sfuggire alle inevitabili conseguenze di un delitto. Lì si arruola – assieme a Jodo Cartamigli, un conterraneo che pare avere pulsioni decisamente opposte alle sue – in una squadra di guardie armate. Ma le tradisce ben presto, per schierarsi volontariamente con un gruppo di spietati malviventi. Viene iniziato alla più dura vita da criminale ed è catturato da una tribù di nativi, ma superata la durezza di questo apprendistato riesce ad accumulare un ottimo bottino e rientra così in patria. Tra i suoi monti cerca di vivere in modo riservato e decide di fare famiglia, assieme ad Angiolina, dalla quale ha due figli. Eppure l’istinto predatorio non lo abbandona e lo spinge a diventare il leader di una banda di briganti, impegnati in furti e rapine di ogni genere. Riesce a farla franca a lungo. Tuttavia, quando i suoi vengono catturati, processati e condannarti alla ghigliottina, capisce che deve darsi alla macchia. Comincia in questo modo una vera caccia, una sfida di cui sarà co-protagonista Jodo Cartamigli, che da tempo lo stava inseguendo per catturarlo e ucciderlo. La lotta proseguirà senza tregua, sino alla fine.

Si può dire ancora molto di questo romanzo. Ad esempio, sottolineando che ricompare Jodo Cartamigli, eroe di altre avventure western. Che l’Ottocento rimane una delle cornici predilette dell’Autore. O che, nuovamente, come in tutti i lavori di Pardini, ci si trova di fronte a una scrittura che per la sua estrema naturalezza non può che definirsi sorgiva. Tanto da comporre una sorta di sceneggiatura, pronta per un film che soltanto un novello Sergio Leone saprebbe dirigere e che, comunque, interpretato in salsa diversa, appassionerebbe senz’altro anche Quentin Tarantino. A volersi spingere un po’ più in là, dovrebbe riconoscersi che Pardini è il degno erede di un filone glorioso, che è quello di Salgari, e che ha avuto tra i suoi protagonisti, sia pur a suo modo, e con spiccato eclettismo, un grande dimenticato, Gian Dauli. Con questi antenati, Pardini condivide un ingrediente segreto. Gusto per la trama e per la singola scena, per la descrizione della natura e degli stati d’animo, per l’equilibrata ricostruzione del profilo e dell’animo dei personaggi: è questo il propellente, tutto istintivo, che permette a Pardini di far calare il lettore nel bel mezzo delle vicende che racconta, in presa diretta; e di avvicinarsi, dunque, ai suoi importanti predecessori. Poi, certo, qualcuno potrà aggiungere che ne Il valico dei briganti si affrontano questioni che rendono il romanzo ancor più meritevole, visto che vi si intrecciano i grandi temi della povertà e dell’emigrazione, e delle strutturali prevaricazioni della giustizia dei potenti. Il fatto è che ciò che pare interessare veramente a questo scrittore – ciò per cui è doveroso essergli grati – è rappresentare, come in un quadro, la fisica invariabile dei sentimenti e delle singole traiettorie esistenziali che essi agitano, anche quando sono dominate da un destino dannato. Come a dire che il mondo degli uomini, a patto di guardarlo per come esso è, sa darci da solo le più efficaci lezioni.

Recensioni (di M. Baldrati; di D. Bregola; di O. Di Monopoli; di S. Gambacorta)

L’Autore presenta il suo libro

Un’intervista

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