In un mite pomeriggio autunnale del 1980 Nicoletta Segafredo, guida turistica e moglie dell’anziano avvocato Dal Bianco, viene uccisa alla Rotonda del Palladio, a Vicenza. Di lì a poco, non lontano da Schio, affiora in un canale il corpo di un architetto vicentino, Riccardo Molinari, funzionario della Soprintendenza. I due casi si intrecciano ben presto, tanto che il maresciallo Piconese di Schio e il commissario Bonturi di Vicenza cominciano a collaborare. La trama della storia si palesa complessa sin dal principio. La guida e l’architetto si conoscevano, e si vocifera pure di una possibile relazione clandestina. Li aveva incontrati anche Giulia Sigismondi, una giovane e istintiva storica dell’arte, che sbarca il lunario come guida part time e traduttrice. L’architetto, in particolare, pareva assai interessato agli studi di Giulia, specialmente alla sua tesi sui preziosi disegni teatrali di Palladio, scomparsi nell’ordito di complicati passaggi tra nobili collezionisti, mercanti e faccendieri di tutta Europa. È forse un caso che attorno a Giulia ronzi minacciosamente la strana figura di un antiquario padovano che lei stessa aveva intravisto a casa di Molinari? Come se non bastasse, all’improvviso viene ucciso anche il custode della Rotonda. E nel frattempo il maresciallo Piconese e i suoi carabinieri sono distratti da un misterioso furto, avvenuto in una locale fabbrica di impastatrici. La scena – che è animata anche da altri personaggi – si articola tra escursioni e inseguimenti montani, da una parte, e sopralluoghi nelle campagne e nelle bellissime ville della pedemontana veneta, dall’altra. Tuttavia, più che la caccia a qualche inestimabile tesoro rinascimentale, è la sapienza pratica di Piconese a salvare capra e cavoli, e a lasciar correre quindi il romanzo verso un piacevole e familiare lieto fine.

La facilità di scrittura e il senso dell’intrattenimento propri di questo Autore non sono nuovi, come non lo sono la passione per la cultura della sua terra (v. qui e qui) e l’invenzione del maresciallo Piconese, già all’opera in altre precedenti avventure (v. qui e qui). Questa volta al centro dell’attenzione non c’è più l’epopea della gente cimbra (che pure continua a emergere in più di qualche pagina e figura). Il fuoco è tutto su Andrea Palladio, sulle sue ville e sull’epoca che ne ha visto sorgere e diffondere la fama. Nonostante il racconto abbia una sua apprezzabile autonomia, il libro gravita tutto attorno al fascino che ancor oggi sprigionano le opere del grande architetto. Di ciò è testimone l’ampia appendice informativa che si trova al termine del volume e sprona, quasi fisiologicamente, a cercare e compulsare I quattro libri dell’architettura. Si ha l’impressione, dunque, che Giallo Palladio altro non sia se non un divertito pretesto per introdurre e stimolare i profani a una traiettoria artistica straordinaria, e anche a farne esperienza diretta nella riscoperta degli insegnamenti del famoso costruttore vicentino e nella frequentazione degli spazi, dei colori e dei volumi del paesaggio veneto. In questo senso quella di Matino – e del suo editore – è una proposta intelligente, da assumere come primo stadio di un percorso progressivo: da intraprendere, dapprima, con la lettura alternata di un altro bel testo, illustrato, che sempre Biblioteca dell’Immagine ha preparato sulle ville venete; e da proseguire, poi, con lo studio del classicissimo e tuttora magnetico tomo di Giuseppe Mazzotti e, magari, infine, con una visita alla Biblioteca Marciana di Venezia, per gustare le vedute di Fra’ Vincenzo Coronelli. Soprattutto, Giallo Palladio si può tenere sottobraccio, vagando all’ombra di qualche barchessa e cercando un riparato angolo di verde per gustarne la bonaria e accogliente (ma per nulla scontata) semplicità.

Andrea Palladio secondo Philippe Daverio

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Con tutta probabilità questo libro è la lettura più interessante dell’anno, almeno finora. Tra il 2014 e il 2018 un giornalista (Luca Fiori) ha intervistato a più riprese un noto artista (Giovanni Frangi). Dopodiché un critico (Giovanni Agosti, che ha seguito larga parte del percorso di Frangi, sul quale ha anche raccolto una serie di saggi) ha assemblato il testo, corredandolo di numerose immagini. Il risultato – edito alla fine del 2021 – è un volume assai originale: in parte autobiografia; in parte catalogo e “scrigno” iconografico; in parte flusso di coscienza sulla vita e sull’arte in generale. Quest’ultimo aspetto è quello più accessibile, più diretto. Discutendo di influenze, di ispirazioni, di tecniche e di opere (proprie come altrui), Frangi non manca di affrontare temi che definire classici sarebbe riduttivo. Lo fa in qualche passo sintomatico, quando si chiede, ad esempio, che cosa sia il suo mestiere: “l’arte ha un compito o è un’esigenza? Sono solo domande aperte, tutte le risposte sono buone. Come essere o non essere, credi in Dio o non ci credi, piove o non piove, m’ama o non m’ama… Io sono convinto che l’arte abbia una sua fisicità necessaria”. Ma lo fa anche quando si sofferma sul processo creativo: “Io prendo un’idea e la trasformo. Non è importante dove la prendi, dove la vai a cercare, ma dove la porti”. Non sono questi, però, i tratti più accattivanti del volume. Ciò che è meritevole di particolare attenzione – oltre ad alcune formidabili foto, fra cui una (splendida) di Sandro Penna e quella di “uno dei quadri più belli del mondo” (Frangi dixit) – è quanto il comune lettore non può pensare, trovare o immaginare per suo conto, e può, dunque, soltanto apprendere: sulla nascita e sull’evoluzione del percorso del pittore; sui temi prediletti (tangenziali, paesaggi, isole, giardini, ninfee, alberi); sull’importanza dell’atelier, come giusto luogo di lavoro; sul rapporto con galleristi e committenti, e con il critico di fiducia (che altri non è che il curatore del testo); sulle esperienze e sulle esposizioni più importanti (si racconta anche di quella, a suo modo piccola, presso il Mart di Rovereto, dove ho visto un Frangi per la prima volta); sulla relazione con lo zio famosissimo (Giovanni Testori) e sulle tante e notevoli conoscenze (Aldo Busi o Alda Merini, ad esempio); e poi sui quadri e sugli artisti preferiti; e ancora sulla luce e sul colore… Naturalmente tutto questo è avvincente per chi vuole avere esattamente queste notizie (com’è per coloro che sono fan di Frangi, quorum ego). Ma lo dovrebbe essere anche per altri. Perché è una prova di come qualsiasi itinerario di pensiero si nutra sempre di incontri, spazi, interferenze, intersezioni: di eventi in cui solo la forza dell’inatteso consente il passo ulteriore e motiva la buona riuscita dello studium, dell’applicazione costante e intelligente. L’intervista, inoltre, ha il pregio di nobilitare il genere che rappresenta: le testimonianze orali e il loro montaggio illuminano vie d’accesso altrimenti non praticabili. E anche questa, come sanno bene molti storici, è lezione di non poco conto. Detto sommessamente, al termine di questo breve pezzo: anche i giuristi potrebbero guadagnare qualcosa.

Recensioni (di D. Dall’Ombra; di M. Recalcati)

Un’intervista all’intervistatore (da artslife.com)

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Tra aprile e maggio di quest’anno sono stati pubblicati due piccoli libri, che potrebbero dirsi quasi gemelli: Nei luoghi ideali per la camporella di Davide Bregola, uscito per Avagliano; e Pane e noci di Lucio Montecchio, edito da Ronzani. In entrambi i casi ci si trova di fronte a raccolte di prose brevi. Ciascuna – a volte si tratta di un racconto, a volte di un’istantanea di situazioni o di luoghi presenti o passati – è un esercizio di rabdomanzia sentimentale, una chiave d’accesso per un mondo di ieri, che gli Autori rievocano oggi al fine di esprimerne e rilanciarne un senso complessivo, e di farne motivo ispiratore per riflessioni di più ampio respiro. Il mondo di Bregola è quello della Bassa par excellence, tra Emilia, Lombardia e Veneto, dove aggirarsi alla ricerca delle “potenze remote” che “facevano crescere”: ricordi di avventure di ragazzi, voci di testimoni che furono (contadini e operai), argini, strade, fossi, in cui “c’era tanta di quella roba da stare lì all’infinito”. Con Sermide (Leonessa del Po) a fungere da epicentro, fisico, storico e psicologico, convergenza geografica di più territori e dialetti, come di rivolgimenti sensazionali. Perché alla magia, e all’epica, del fiume e delle sue genti, e delle loro piccole, grandi storie, si è sostituita quella dell’hangar, della mecca selvaggia della produzione e della logistica, ammantata da una lunga e irrimediabile stagione di abbandoni.

Il mondo di Montecchio non è così diverso. Anche qui si parla di una “bassa”, quella padovana. E anche qui aleggia un tono che solo in apparenza potrebbe dirsi ambiguamente nostalgico, e che, come nell’altro volume però, non è ripiegamento, ma suggerimento di restituzione (parola che offre anche il titolo ad uno dei capitoli). Oltre a far riemergere luoghi, storie e usi di una civiltà paesana e biologica – che, a ben vedere, non è troppo lontana, visto che i nostri diretti progenitori le sono appartenuti – Pane e noci segna anche le tappe, individuali e collettive, della traiettoria straniante che, dagli anni del boom in poi, è stata impressa per effetto di un’industrializzazione onnivora. A legare i due testi, inoltre, non c’è soltanto una fenomenologia critica del presente. C’è pure molta qualità espressiva. Da questo punto di vista Bregola non stupisce. Chiunque abbia letto Fossili e storioni sa della grande abilità suggestiva, della malìa, di uno scrittore che padroneggia tutti i ferri del mestiere, e che sa analizzare ipnotizzando (come in Pozzo o Argini o Fossi) e commuovere raccontando (come in Acquaragia o in Cavie), e infine anche inveire (come in Hangar), a mo’ di tragica, ma necessaria, maschera teatrale. Montecchio – che tuttavia scrittore propriamente non è, pur essendo dotato di uno specifico canale di comunicazione cosmica, per nobile e tecnico mestiere – colpisce in alcune pagine narrative molto felici (nella spontanea e semplice invenzione di Gelso e Liana, ad esempio, o in El Beljo o, ancora, in Zia Luisa) ovvero in pezzi tanto brevi quanto vitali (come nei poeticissimi Un po’ (di buonsenso) e Orologio agreste, che paiono quasi filastrocche). Certamente Nei luoghi ideali per la camporella e Pane e noci si accreditano quali guide, affatto scontate, di ri-orientamento ecologico e morale. Ma il loro valore aggiunto – ciò che davvero non guasta – è che in quest’estate caldissima si rivelano come estratti rinfrescanti e rigeneranti di semplice e buona letteratura, da assumere lentamente, sotto un albero o ai bordi di un orto.

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Simon Sunderson è un forte e dedito bevitore, assomiglia moltissimo a Robert Duvall ed è un ex poliziotto del Michigan, fresco di pensione. Decide di dare la caccia ad un ambiguo santone, il Grande Capo, che si sposta di stato in stato e si fa chiamare in molti modi, anche Re Davide. Sunderson sospetta che questo personaggio approfitti della sua setta per abusare di ragazze adolescenti, ma gli mancano le prove decisive. Ne segue le tracce fino in Arizona, dove si reca per andare a trovare la madre ultra-ottantenne. Si fa aiutare da Mona, una giovane hacker che abita accanto a lui e che gli sollecita sensazioni contrastanti: da un lato, ne è irresistibilmente attratto; dall’altro, prova sentimenti paterni. Sunderson, infatti, dopo il divorzio da Diane, è rimasto solo, ed è costantemente in cerca di avventure e di relazioni umane più o meno solide. Le uniche cose che paiono dargli equilibrio sono la pesca al salmerino, le lunghe camminate nella natura più selvaggia e la compagnia dell’amico Marion, che fa il preside di una scuola ed è di origini indiane. La cultura e le tragiche vicissitudini dei nativi americani hanno sempre affascinato Sunderson, che ha un passato di brillante laureato in storia. Ora ritiene che queste conoscenze gli possano essere utili per il caso, e che – complici le suggestioni prodotte dallo studio di un fortunato saggio accademico: Sunderson acquista e legge molti libri – lo possano aiutare a capire il sincretismo religioso e la psicologia distorta di Re Davide e dei suoi accoliti. Proprio qui si manifesta il vero cuore del romanzo e della ricerca di Harrison. La detective story è solo un pretesto, destinato a sciogliersi tra vagabondaggi, piccole peripezie e qualche intermezzo erotico, con un epilogo tanto scontato quanto casuale e addirittura goffo. Quello che conta, invece, è il viaggio, il disorientamento, con la dinamica autoriflessiva generata nell’anziano protagonista e nella sua lotta con i fantasmi personali e con quelli della nazione bianca. Sunderson-Harrison fa i conti con la vecchiaia, con la sua biografia e con quella del Paese, e così facendo si immerge e si perde nel paesaggio e si spoglia del proprio io, cercando di mettersi in contatto con le radici dell’America per integrarsi in un ordine spontaneo e istintivo. La caccia all’uomo, quindi, diventa una caccia rituale, iniziatica, animata anche da simboliche opposizioni letterarie: tra una consolidata immagine posticcia (il mito suggestivo ma artefatto dei Classici americani di D.H. Lawrence) e un’esperienza di fiduciosa adesione alla natura primigenia e avvolgente delle cose (seguendo i passi di Gary Snyder). Questo Harrison è lo stesso di Ritorno sulla terra. Chi ha amato quelle atmosfere, amerà mettersi anche sulle orme del Grande Capo.

Recensione (di P. Dexter)

Un profilo dell’Autore

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“Io vivo di paesaggio, riconosco in esso la fonte del mio sangue”. Le parole di Giovanni Comisso, uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano, spiegano da sole la ragione dell’approfondimento che in questo libro è compiuto. Se Comisso è il suo paesaggio, allora è attraverso quel paesaggio – facendone esperienza diretta – che Comisso va letto e compreso. Nicola De Cilia, dunque, intraprende proprio quest’indagine, e lo fa in senso cronologico. Segue innanzitutto il trasloco della famiglia Comisso dalla periferia al centro di Treviso: cammina nei vicoli di oggi, alla ricerca di un’abitazione distrutta nella seconda guerra mondiale e di un’atmosfera che pur non esistono più, e del laboratorio che ha forgiato, come una camera oscura, le primitive proiezioni e la peculiare sensualità artistica e corporea dello sguardo del giovane futuro scrittore. Poi l’itinerario continua sul Piave, a Onigo, alla scoperta del paradiso terrestre di luci, di acque, piante e calde sabbie che hanno impresso al Comisso adolescente una insopprimibile vocazione panica ed erotica, fatta del desiderio continuo di amicizie complici e di ozi giocosi nell’abbraccio della natura. De Cilia, allora, ci conduce anche nelle retrovie della grande guerra, l’occasione imperdibile di un’avventura vera a tutto tondo. Comisso, però, almeno prima di Caporetto, la vive a lungo nell’incantamento delle retrovie, tra i colli e le terre coltivate del Veneto orientale e del Friuli, lungo i fiumi in cui rivivere trasognato le immagini e le sensazioni delle scorribande dell’infanzia. La rincorsa all’ebbrezza continua a Fiume e poi nell’Adriatico e a Chioggia, per addentare concretamente l’ideale di una vita completamente dedita al divenire costante e alla contemplazione delle stelle. L’Autore si aggira tra il Carso e la Slovenia, la Croazia e la laguna veneta, per sentire la scena che fu, per lasciarsene emozionare e ispirare. Così avviene, poi, anche nella campagna trevigiana, a Zero Branco, dove c’è ancora la casa che lo scrittore ha tanto amato, l’ombelico del mondo finalmente calmo e primigenio cui Comisso amava tornare sempre, nonostante i tanti viaggi. Il volume si chiude tra la descrizione delle ultime dimore cittadine dello scrittore e della sua tomba, da un lato, e una “chiusa” tutta critica, sul Comisso di Zanzotto e di Parise, e sul senso specifico – sulla inevitabilità metodologica – del “viaggio letterario” che l’Autore ha percorso.


“Senza la pianura trevigiana, con i fossi come vene, i monti che sfumano azzurri, il cielo tiepolesco che riflette la luce lagunare; senza il retroterra dialettale e la presenza dei contadini, con la loro ostinazione e devozione, Comisso non avrebbe dipanato, io credo, quel limpido e indeformabile canto poetico che ne contraddistingue la scrittura” (pp. 213-214). È una conclusione del tutto condivisibile. De Cilia – che sempre per i tipi di Ronzani ha anche compilato, poco tempo fa, una serie di ritratti carismatici di classici autori veneti – riesce a giustificarla molto bene, portando per mano il lettore in un’immersione sentimentale pienamente riuscita. E ciò proprio sottolineando e valorizzando il “privilegio d’ambiente” di cui parlava Zanzotto, perché – nonostante l’attuale “progresso scorsoio“, di cui scriveva sempre il grande poeta di Pieve di Soligo – c’è stato, e talvolta lo si intravede ancora, un Veneto perfetto: l’Arcadia della quale Comisso, il più ellenico dei maestri, ha forgiato il suo marchio inconfondibile. Il meglio del meglio, quindi, non è leggere De Cilia; è leggere direttamente Comisso, atto per il quale, tuttavia, questo libro rappresenta una guida imperdibile. La decisione è facile e rapida da prendere: si può cominciare da un titolo qualsiasi e non si sbaglia mai. Delle bellissime Satire italiane e dell’ispirato La mia casa di campagna si è già detto. Ma tra Longanesi e Neri Pozza – e l’ottimo Meridiano curato da Rolando Damiani e Nico Naldini – c’è solo l’imbarazzo della scelta: Giornale di guerra, Mio sodalizio con De Pisis, Il porto dell’amore… La Nave di Teseo, da ultimo, sta avviando la ripubblicazione di tutte le opere, a partire da Gioventù che muore. Che cos’è che fa grande Comisso? L’intuitiva sapienza del rapporto necessario tra micro e macro-cosmo; il che significa il presupposto esistenziale della piena coerenza tra il soggetto della scrittura e il suo oggetto, così come riflessa nella naturalezza e spontaneità dello stile. È per tale ragione che la lingua di Comisso è pulita e lineare: è uno standard, al quale – al di là delle pochissime concessioni a qualche vezzo un po’ snob – ci si può tuttora accostare, e accordare, senza timore.

Un estratto del libro

Un ritratto di Giovanni Comisso

Il Veneto felice di Comisso

Sui luoghi degli scrittori veneti

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Un nonno racconta alla nipotina aneddoti e storie della terra sulla quale ha vissuto per generazioni anche la sua famiglia. Sono dodici capitoli, concepiti come se fossero le altrettante stazioni di un itinerario ben preciso, da farsi in bicicletta. Il percorso segue dolcemente le curve di livello e la cartografia della zona: la lunga e ampia striscia di arenaria, mai più alta di 200 m (o poco più), che nelle Marche precede il Pesarese e culmina nel Monte San Bartolo. Per lo più si narrano vicende semplici, che si svolgono al di qua e al di là della impercettibile cresta che divide l’interno dal litorale e che, pure, solca il confine di due dimensioni reciprocamente altre, perché battute da venti, e anche da stagioni e destini, diversi. Affiorano così spezzoni, o ricordi, di epopee familiari, di piccoli e grandi eventi di una civiltà perduta, ma sedimentata, di contadini e di padroni, che per lungo tempo è parsa immutabile, salvo il procedere inesorabile delle acque marine, che si sono mangiate case, poderi, ville gentilizie e intere esistenze. Ma, paradossalmente, nell’erosione di uno scenario che continua a restare fascinoso si conserva e si rinnova comunque la memoria, talvolta anche terribile, di ciò che è stato.

Se fosse tutto qui, il libro sarebbe poca cosa. Per certi versi lo è realmente, ma nel senso diverso, opposto, di una cosa, cioè, tanto piccola quanto celata e preziosa. Il suo contenuto è paragonabile a quegli insetti preistorici che sono rimasti imprigionati, conservandosi miracolosamente intatti, in un guscio d’ambra; osservarli in controluce permette simultaneamente di accedere intuitivamente, quasi dolcemente, alla verità di epoche lontane, e di prendere coscienza, però, della loro persistente e invariabile presenza. In sostanza, e fuor di metafora, c’è un cosmo intero in questo libro, con un ritmo da eterno ritorno. Ciò si può affermare per due motivi: un certo, e sapiente, uso della lingua, che allude in modo elegiaco ad un tempo di cui provare nostalgia; un amaro fil rouge, la cui esistenza, al principio lieve, quasi edulcorata, diventa via viar incombente, fino ad un drammatico epilogo. Sul valore del ricorso studiato ad una terminologia dialettale ed arcaica, e confidenziale, funzionale anche alla trasmissione generazionale di un sapere di comunità, i critici si sono già parzialmente soffermati e ad essi si può facilmente rinviare con profitto (anche per moltepli esemplificazioni del vocabolario dell’Autore). Sul climax che percorre il racconto, non si può che lasciare al lettore la sottile inquietudine che è correlata alla sua conclusiva rivelazione e ad un orgoglioso colpo d’arma da fuoco. Qui è sufficiente osservare che – almeno a parere di chi scrive – lo sgretolarsi della materia cui è ispirato il titolo dell’opera sembra essere la pervasiva sanzione geologica di una condizione sociale naturalmente soccombente, fiera di riscatti soltanto episodici, rabbiosi e perdenti. E intanto il paesaggio ammalia e cattura sempre, nonostante tutto. Bene è stato scritto: “Il messaggio sotto o dietro le righe del testo, mentre si vaga e divaga in salita e in discesa, a caldese o vernìo, nei posti baciati dal sole o dall’ombra è: guardatevi attorno, è bellissimo, drammatico e bellissimo”. Arenaria è stato candidato allo Strega; avrebbe meritato la vittoria.

Recensioni (di Mario Barenghi; di Giulia Caminito)

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Libera è una bambina selvatica, cresciuta da sola nei boschi dell’Appennino, alle Terre Soprane, tra l’Emilia e la Toscana. È stata abbandonata? Forse non l’hanno voluta, a causa di una malformazione che l’ha privata di una mano sin dalla nascita. Non sa parlare, o meglio non lo sa fare allo stesso modo con cui lo fanno tutti gli altri uomini, quanto meno quelli che abitano nelle Terre Sottane, in pianura. Però sente e capisce soprattutto la lingua degli animali e interloquisce con loro. È così che riesce a comunicare con l’Uomo-Somaro, che le spiega che proprio lei ha una missione importantissima da compiere: ritrovare il “Mezzo” Patriarca dei Cinque Popoli, quello che è scomparso nel 1945, durante la guerra di Liberazione, rifugiandosi dove abitano gli uomini. Se Libera, che è nata proprio in quell’anno, non lo troverà, gli uomini e i Popoli si separeranno per sempre, a tutto vantaggio degli antichi Semidei dell’Appennino, che, a quanto pare, non hanno mai gradito quell’alleanza. E infatti fanno di tutto per ostacolarla. Ma il viaggio di Libera, lunghissimo e pericoloso, termina in un giardino di Modena, dove finalmente ritrova il “Mezzo” Patriarca che stava cercando e incontra anche l’Autore. Prima di tornare indietro, però, Libera deve tenere fede alla promessa che ha fatto a coloro che l’anno aiutata, agli strani e misteriosi nocchieri dell’aldilà che le hanno indicato la strada giusta. Anche questa missione ha successo e, nonostante i Semidei le tendano un agguato potenzialmente mortale, Libera riesce a ritrovare l’Uomo-Somaro, che la salva definitivamente. Non le resta che continuare a diffondere il messaggio che, in conclusione, funge da morale della favola: “Resistere. Lottare. Immaginare”.

Questo romanzo, per il suo contenuto apparentemente criptico e per la scrittura antica da cui è alimentato, è molto singolare; così singolare da correre il pericolo di attirare l’attenzione di pochi o di essere banalizzato. Tuttavia è una lettura che dà soddisfazione. La dà perché offre una proposta in cui il racconto non risponde ad alcuno degli standard più diffusi e, ciò facendo, stimola il gusto della scoperta, pagina dopo pagina. Si nutre, in particolare, di un tono da leggenda, quasi da fiaba, talvolta grave e talvolta leggero, eppure appropriato alla materia e ai luoghi d’ambientazione. La materia, infatti, non dev’essere rigorosamente e attentamente districata, dev’essere intuita: così si addice alla narrazione mitica, sempre, e tanto più in questo caso dove viene in gioco una simbologia che tende alla riconciliazione tra l’uomo e una parte ben precisa delle forze naturali, di quelle che ne hanno consentito, storicamente, un’emancipazione armonica. Che questa rappresentazione, poi, venga allestita nell’Appennino tosco-emiliano – e sul tracciato eroico della Via Vandelli – è il valore aggiunto che conferisce allo stile dell’Autore credibilità e verosimiglianza: non c’è niente di più denso e misterioso delle foreste degli itinerari canossiani. La selva, in effetti, è l’altro fattore forte del libro: per l’aperto riferimento dantesco, visto che anche Libera compie un viaggio nell’oltretomba, e lo fa in un momento cruciale della sua vita e della storia dell’umanità; ma anche perché Meschiari ha colto perfettamente che la selva ha molto a che fare con il nostro tempo, e ha scelto di assecondare, per le ragioni di riconciliazione di cui si è detto, il ritorno ad una certa selva (alleata e vitale) piuttosto che l’affermazione definitiva di un’altra selva (artificiale e disorientante). Meschiari è da leggere, quindi: come se si leggesse Il libro della giungla di Kipling, per certi versi, anche se il passo è quello nostrano e affidabile del miglior Pederiali e della più felice tradizione affabulatoria modenese.

Recensioni (di Monica Bedana; di Rossella Pretto)

L’Autore a Radio Radicale

I primi due capitoli

Arte cosmographica (di Matteo Meschiari)

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Un po’ scrittore, un po’ poeta, e un po’ anche etnografo, Davide Bregola segue l’alternarsi delle stagioni da una casa galleggiante ancorata in riva al Po nei pressi di Felonica, in provincia di Mantova. Perché proprio lì? Il fatto è che “[c]erti posti è come se dicessero: Ti diamo un punto di vista, prova a sollevare il tuo mondo”. Ma il diario di Bregola va oltre questo obiettivo. L’osservazione, pur intima e concentrata, registra trasformazioni di ampia portata e di lungo periodo, nella natura circostante, grande e piccola, e nel microcosmo socio-economico della zona. Sono le terre di Giovannino Guareschi, e quindi di Peppone e Don Camillo, anche se oggi l’epos del Fiume, e di un Paese in crescita e alla ricerca di un’identità, è sostituito dal resoconto di processi di rururbanizzazione e speciazione. πάντα ῥεῖ: è proprio il caso di dirlo, e di viverlo, perché lì “ci sono l’essenziale, la frugalità, l’insensato”. Proprio l’identità del passato, in generale, non pare rispecchiarsi in quella del presente, tanto più nella provincia dismessa e spopolata della Bassa, dove le gite in canoa e le ricorrenze colorate delle comunità Sikh si alternano alle incursioni notturne e clandestine dei pescatori dell’est. Allo stesso tempo, tuttavia, lo “spleen padano” consente di cogliere immagini e sensazioni di insperata e pacificante continuità. In questo trascorrere, dai segni così contraddittori, di eterna e disorientante decostruzione permanente, Bregola dispone di nocchieri qualificati: Hermes, il pescatore, che gli fa da scorta sul suo batèl; e Jenny, un’enigmatica presenza femminile, la cui voce sembra l’espressione più matura della sofferenza che deriva dal senso della perdita e, simultaneamente, della coscienza dell’immutabilità del paesaggio e delle sue radicate certezze. Le sembianze editoriali collocano il volume in uno spazio di programmatica, nobile marginalità. Ad essere sinceri, quello di Bregola è il libro dell’anno. È un travelogue originale, scritto con i piedi piantati in un unico luogo, con un linguaggio che concilia asciuttezza e raffinatezza, e con un’ispirazione che piacerebbe sia a Zanzotto, sia a Celati. Viene da pensare che, nel 2019, il viaggio in Italia non possa che essere questo.

Il trailer del libro

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Albecom è una ditta che si occupa di programmazione informatica e ha sede in prossimità di Venezia, a Marghera, nel parco scientifico tecnologico “Vega”. È stata fondata da Alberto Casagrande, oggi trentenne, che ne ha fatto un’azienda leader nel settore della costruzione di siti per la vendita online: il fatturato è in crescita e i giovani nerd che ci lavorano sono dinamici e infallibili. Poi c’è Luciano, amico dei tempi del liceo e complice originario di questa avventura: è timido, ipersensibile, ma è anche il geniale risolutore di ogni problema tecnico. GDL, invece, è lo smaliziato commerciale, vincente e sempre in viaggio. La vita dei nostri protagonisti, così apparentemente assestata, sembra trascorrere in naturale e irriducibile sinergia con l’anodina cornice post-industriale della terraferma veneziana. Tuttavia sta per succedere qualcosa. L’imprenditoria del web è molto liquida, si sa, e GDL ha progetti molto ambiziosi. Anche Alberto sta pensando in grande, a prestigiose commesse e a una nuova sede da allestire. Nel frattempo Luciano si invaghisce ingenuamente di Matilde, cameriera del bar Incrocio, sedotta e abbandonata da un altro dipendente di Albecom, fuggito al servizio di un’altra società. Tra fiere internazionali, tradimenti estemporanei e affari spericolati, mentre GDL porterà avanti risolutamente il suo disegno, la spiata accidiosa di un architetto di Trebaseleghe spingerà Alberto a vederci chiaro e a dare un senso più concreto e maturo a tutti i suoi sforzi. Quegli sforzi che Luciano deciderà di non fare più, per vivere anch’egli in modo più sereno.

Il romanzo che ha portato Targhetta nel grembo di una Major dell’editoria nazionale può sembrare riuscito soltanto a metà. Il canovaccio, infatti, è debole, perché la caratterizzazione dei protagonisti è così insistita che i loro destini sono segnati sin dal principio. Non ci sono grandi sorprese. Si assiste a un graduale risucchio in una normalità composta e reale, domestica e prevedibile, e forse anche auspicabile. A dimostrazione, probabilmente, che si può lavorare e cominciare a vivere, in modo del tutto scontato, anche a Nordest, ed anche nelle pieghe di quel paesaggio pre-lagunare in cui l’inorganico e l’abbandono hanno preso il sopravvento. Targhetta è fortissimo proprio nell’efficacia delle descrizioni di contesto. È qui che si nasconde il cuore del libro, come se, con quelle descrizioni, l’Autore volesse raggiungere l’obiettivo di far rivivere ai suoi lettori la stessa trasformazione emotiva dei suoi personaggi – diventare ciò che si è – ma non per il tramite di un processo di immedesimazione. Il medium è l’immersione in una suggestione malinconica, che impregna tutta l’atmosfera del racconto e che ben rappresenta lo stato che tipicamente avvolge chi, prestandovi attenzione, abbia l’occasione di sperimentare la surreale potenza sfibrante del backstage produttivo dell’odierna Serenissima. È lo stesso scenario – tutti luoghi reali, realissimi… – in cui si muovono con successo, da qualche anno, anche altri scrittori, come Francesco Maino e Romolo Bugaro. Targhetta, tuttavia, non lo fa con la disperata e passionale pervicacia del primo, né con l’affilata, fredda e drammatica denuncia del secondo. Attinge alla poesia e alle grandi possibilità archeologiche che le parole e le immagini giuste possono offrire a chiunque si proponga di esplorare davvero il proprio animo. Così facendo, ci prova che il Veneto smemorato e disintegrato della dismissione non è soltanto il teatro di uno sfacelo, e che il suo paesaggio, sintonico e proverbiale (guanto rovesciato di quello zanzottiano, ma pur sempre guanto…), può continuare a salvarci.

Recensioni (di Enzo Baranelli; di Eleonora Barbieri; di Raoul Bruni; di Sara D’Ascenzo; di Oriana Mascali; di Lara Marrama; di Nicolò Porcelluzzi)

I precedenti di Targhetta: Fiaschi e Perciò veniamo bene nelle fotografie

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Marco ha studiato Lettere a Padova e poi, sfiduciato dalle prospettive che avrebbe potuto coltivare nell’accademia italiana, ha scelto di conseguire un PhD a Chicago. La sua storia viene ricostruita e raccontata da un amico, un altro italiano che si trovava negli Stati Uniti nello stesso periodo e per la stessa ragione, e che ora lavora a Milano. In principio Marco è rapito dal modello universitario americano, così lontano dal declino intellettuale e morale del suo Paese, e così capace di dare il meglio a chi voglia formarsi e perfezionarsi nello studio e nella ricerca. Anzi, a Marco pare addirittura che, oggi, tutte le sorti dell’umanesimo non possano che essere giocate in quel sistema, a suo giudizio l’unico contesto idoneo a riprodurre, nell’organizzazione degli spazi fisici del sapere come nella definizione e nell’applicazione delle regole della comunità scientifica, quell’ideale di serietà, rigore e approfondimento che può assicurare anche alla società civile la conquista di una vera libertà. Tutto milita, dunque, affinché la corsa di Marco verso il dottorato sia coronata dal successo, in un itinerario di crescita che presto lo vede affiancato alla bella e brava Sajani, una brillante collega americana di origine asiatica. Ci sono, però, nel cuore di Marco, dei problemi irrisolti, che risvegliano il suo senso critico e lo portano a mettere in dubbio l’adeguatezza, se non la validità stessa, della carriera universitaria d’Oltreoceano. Durante una visita ad un museo, al cospetto di alcuni capolavori del Rinascimento, Marco, all’improvviso, quasi fosse colpito da una sindrome di Stendhal, comincia a maturare una serie di riflessioni che lo conducono a lasciare Sajani e a distaccarsi, passo dopo passo, dall’orizzonte umano e formativo che aveva ritenuto irrinunciabile. La sua vita, infatti, è destinata a compiersi altrove, tra i colli della Pedemontana veneta, sulle tracce del sorriso della mai dimenticata Chiara e sulla strada di un fare letteratura più autentico e anticonformista, perché immerso nella realtà della terra d’origine.

Questo è il secondo romanzo di Beppi Chiuppani, dopo Medio Occidente, che a sua volta potrebbe essere considerato come l’opera che Marco – alter ego dell’Autore – concepirà dopo aver imboccato la nuova strada letteraria intravista al termine della sua esperienza americana. La prima cosa interessante del libro sta tutta qui: si autodefinisce, sin dalla copertina, come romanzo-saggio, ma è una dichiarazione di poetica, ed è anche un altro bell’esempio del periodare riflessivo e dell’andatura meditativa – e avvolgente – di uno scrittore che si conferma come particolarmente originale anche dal punto di vista stilistico, e che qui vediamo nel suo primo scoprirsi, nella messa a nudo, cioè, della sua vocazione e nelle premesse quasi biografiche, se non intime, dei suoi convincimenti. La seconda cosa rilevante, poi, è naturalmente correlata al merito delle osservazioni che il protagonista matura sull’American Way agli studi umanistici (e alle Human Sciences in genere). Per Marco, la sperimentazione diretta della tipica rat race di ogni postgraduate d’eccellenza è come un’immersione in un lago sconfinato, che da potenziale fonte per un nuovo e salvifico battesimo si può trasformare gradualmente in una sorta di efficiente, ma limitante, campo di addestramento. In questa prospettiva, non c’è dubbio che Quando studiavamo in America è il precipitato di una serie concatenata di intuizioni reali (Chiuppani sa personalmente di che cosa scrive…) e del tutto comprensibili (quanto meno alla cerchia di molti giovani studiosi, non solo italiani). In poche parole, e usando la terminologia di Marco, l’informale (e perciò potentissima) formalità della meritocrazia accademica d’Oltreoceano mette in grave pericolo la grande civiltà europea della conversazione colta: velocità, disinvoltura e standardizzazione si oppongono all’otium, all’introspezione e alla continua rimeditazione delle fonti. Questa, in effetti, è una delle impressioni che buona parte degli addetti ai lavori, soprattutto in Italia, condivide da tempo; con il rischio, però, di coprire in tal modo gli innegabili vizi del sistema nazionale. Ecco: Chiuppani prova a pensare che la difesa del vecchio mondo possa anche significare qualcosa di diverso dallo sposare gli alibi di chi ha contribuito, e contribuisce tuttora, a condannare all’immobilismo le sedi più antiche del sapere occidentale. La soluzione, per il Nostro, sta nel riconoscere nuovamente quale debba essere l’orizzonte irrinunciabile di un intellettuale: cogliere e affrontare il presente e le sue contaminazioni complesse con coraggio e creatività, senza per questo rinunciare ad un canone e ad una tradizione: come riuscire? La risposta è affascinante: provare a vivere, e a crescere, con il proprio paesaggio, semplicemente, rinnovandone la storia proprio dall’interno; perché fare letteratura, come fare scienza, non è un esercizio fine a se stesso, né può dirsi in funzione di finalità troppo contingenti o troppo personali. Scrivere e pensare sono cose sempre radicali.

L’Autore presenta il suo libro

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