In un mite pomeriggio autunnale del 1980 Nicoletta Segafredo, guida turistica e moglie dell’anziano avvocato Dal Bianco, viene uccisa alla Rotonda del Palladio, a Vicenza. Di lì a poco, non lontano da Schio, affiora in un canale il corpo di un architetto vicentino, Riccardo Molinari, funzionario della Soprintendenza. I due casi si intrecciano ben presto, tanto che il maresciallo Piconese di Schio e il commissario Bonturi di Vicenza cominciano a collaborare. La trama della storia si palesa complessa sin dal principio. La guida e l’architetto si conoscevano, e si vocifera pure di una possibile relazione clandestina. Li aveva incontrati anche Giulia Sigismondi, una giovane e istintiva storica dell’arte, che sbarca il lunario come guida part time e traduttrice. L’architetto, in particolare, pareva assai interessato agli studi di Giulia, specialmente alla sua tesi sui preziosi disegni teatrali di Palladio, scomparsi nell’ordito di complicati passaggi tra nobili collezionisti, mercanti e faccendieri di tutta Europa. È forse un caso che attorno a Giulia ronzi minacciosamente la strana figura di un antiquario padovano che lei stessa aveva intravisto a casa di Molinari? Come se non bastasse, all’improvviso viene ucciso anche il custode della Rotonda. E nel frattempo il maresciallo Piconese e i suoi carabinieri sono distratti da un misterioso furto, avvenuto in una locale fabbrica di impastatrici. La scena – che è animata anche da altri personaggi – si articola tra escursioni e inseguimenti montani, da una parte, e sopralluoghi nelle campagne e nelle bellissime ville della pedemontana veneta, dall’altra. Tuttavia, più che la caccia a qualche inestimabile tesoro rinascimentale, è la sapienza pratica di Piconese a salvare capra e cavoli, e a lasciar correre quindi il romanzo verso un piacevole e familiare lieto fine.

La facilità di scrittura e il senso dell’intrattenimento propri di questo Autore non sono nuovi, come non lo sono la passione per la cultura della sua terra (v. qui e qui) e l’invenzione del maresciallo Piconese, già all’opera in altre precedenti avventure (v. qui e qui). Questa volta al centro dell’attenzione non c’è più l’epopea della gente cimbra (che pure continua a emergere in più di qualche pagina e figura). Il fuoco è tutto su Andrea Palladio, sulle sue ville e sull’epoca che ne ha visto sorgere e diffondere la fama. Nonostante il racconto abbia una sua apprezzabile autonomia, il libro gravita tutto attorno al fascino che ancor oggi sprigionano le opere del grande architetto. Di ciò è testimone l’ampia appendice informativa che si trova al termine del volume e sprona, quasi fisiologicamente, a cercare e compulsare I quattro libri dell’architettura. Si ha l’impressione, dunque, che Giallo Palladio altro non sia se non un divertito pretesto per introdurre e stimolare i profani a una traiettoria artistica straordinaria, e anche a farne esperienza diretta nella riscoperta degli insegnamenti del famoso costruttore vicentino e nella frequentazione degli spazi, dei colori e dei volumi del paesaggio veneto. In questo senso quella di Matino – e del suo editore – è una proposta intelligente, da assumere come primo stadio di un percorso progressivo: da intraprendere, dapprima, con la lettura alternata di un altro bel testo, illustrato, che sempre Biblioteca dell’Immagine ha preparato sulle ville venete; e da proseguire, poi, con lo studio del classicissimo e tuttora magnetico tomo di Giuseppe Mazzotti e, magari, infine, con una visita alla Biblioteca Marciana di Venezia, per gustare le vedute di Fra’ Vincenzo Coronelli. Soprattutto, Giallo Palladio si può tenere sottobraccio, vagando all’ombra di qualche barchessa e cercando un riparato angolo di verde per gustarne la bonaria e accogliente (ma per nulla scontata) semplicità.

Andrea Palladio secondo Philippe Daverio

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“La prospettiva che, in realtà, mi sembra molto interessante è quella di sottrarre l’architettura agli architetti per restituirla alla gente che la usa”: forse basterebbe questa sola affermazione per giustificare un rinnovato interesse ai ragionamenti di Giancarlo De Carlo, che risalgono all’inizio degli anni Settanta e che oggi vengono riproposti nei tre interventi di questo piccolo volume a cura di Sara Marini. Il primo – che offre il titolo al libro – è, apparentemente, un incrocio tra relazione convegnistica, lezione e manifesto di un possibile e nuovo modo di fare architettura. In verità è molto di più, poiché è sia un’analisi spietata dell’evoluzione storica dell’urbanistica, sia la formulazione di una proposta alternativa di sintesi tra l’ordine veicolato dal progetto e il disordine che attraversa e vitalizza la società civile. La critica si concentra sul nesso tra industrializzazione e governo del territorio, svelando le liaisons dangereuses che da sempre esistono tra istanze di specializzazione, da un lato, e definizioni gerarchizzanti e funzionali dello spazio, dall’altro. La pars construens, invece, si concentra sul ruolo necessario del progettista, che va al di là della padronanza e della spendita occasionale di competenze tecniche, e che si presenta come colui che “sceglie la parte” e che si rende così facilitatore di processi nei quali sono i cittadini a dare forma ai loro bisogni.   

Si potrà pensare che ripercorrere queste speculazioni costituisca un esercizio fuori tempo massimo, alla ricerca di note e arrugginite retoriche di resistenza intellettuale o di vecchia e militante azione anti-capitalista. Non è così. De Carlo va molto oltre, è un classico, e rileggerlo, come accade per tutti i classici, assume il senso di cogliere quell’orizzonte con maggiore precisione e di constatare, ad esempio, con piena coscienza, il motivo del fallimento (oggi conclamato) del “supermito secondo il quale alcuni ‘nodi’ di intensa qualità architettonica possono controbilanciare lo squallore di tessuti urbanizzati nei quali i nodi vengono collocati”. Siamo fin troppo abituati alla grande e irragionevole fiducia che le amministrazioni nutrono nei confronti del presunto potere catartico dei manufatti prodotti dalle tante archistar del pianeta. Il significato sempre vivo della lettura di De Carlo è fortissimo: l’architettura non può porsi come fatto esteticamente oggettivo, non deve contribuire a frammentare i gruppi sociali, non li deve estraniare “dai concreti problemi dello spazio fisico in cui vivono”, e ciò perché tali problemi sono questioni di libertà, di diritti e di interessi di molti, e non solo di quei pochi che finiscono per assumere le decisioni autoritative sullo sviluppo edilizio o per goderne dei frutti economici e finanziari più consistenti. Vero è che il limite dell’utopia era già ben presente allo stesso De Carlo, che negli altri due saggi del testo racconta le difficoltà di alcune sperimentazioni puntuali – a Rimini e a Terni – non completamente riuscite. Tuttavia queste letture ci ricordano ancora quanto quel limite sia comunque indispensabile.

De Carlo e l’ampia portata del progetto (spezzone di intervista)

Un’intervista alla curatrice del libro

Recensioni (di Lucia Tozzi, di Campomarzio)

Sulla progettazione partecipata (di Giancarlo De Carlo)

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