Essere giovani (da leparoleelecose.it)

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Ho scelto di leggere questo recentissimo libro di Moresco per tre ragioni: 1) L’incipit: “Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante”. È una tentazione che talvolta si fa strada anche nel mio animo; e anche il gruppo di case diroccate descritto nelle righe immediatamente successive corrisponde ad una suggestiva combinazione di due diversi luoghi cui penso spesso proprio come improbabili, e per questo perfette, sedi di rifugio. Perché non provare ad immergervisi sin d’ora? 2) La prosa di quest’Autore: ero rimasto ammaliato, ma anche travolto, da Canti del caos. Mi sono sempre chiesto come poter rivivere la stessa intensità, senza però correre il rischio di riuscirne completamente soverchiato. Ecco la soluzione: la dimensione molto più contenuta di quest’ultimo pezzo invita ad un’esperienza potenzialmente assai più proporzionata e non meno profonda. Perché, quindi, non dedicargli un pomeriggio? 3) Il titolo: nella sua semplicità ha evocato subito immagini familiari e riflessioni avvolgenti, ma anche un enigma da risolvere, un punto lontano da mettere a fuoco, un tema ricorrente e dominante che se ne sta sempre acceso e che richiama attenzione, silenzio e rispetto, ma anche un sorriso curioso; come quando ci si ritrova, da bambini e forse anche oggi, di fronte alle candele che stanno in chiesa di fronte ad un altare. Perché, allora, non capire come va a finire?

Pur sorretto da queste motivazioni – che per ogni comunissimo lettore appartengono al novero di quelle incrollabili – sono rimasto un po’ deluso. Il problema non è la linearità estrema della storia, che è tale soltanto per chi si accontenti di un’impressione totalmente superficiale: la storia, in sostanza, non è solo quella di un uomo che, nel buio di un luogo immerso nel bosco, vede una piccola luce all’orizzonte, cerca di capire quale ne sia fonte, scopre che si tratta di un misterioso bambino e si trova quasi affascinato dal contatto con il mistero della morte che gli si palesa allorché viene a sapere che quel bambino altro non è che un fantasma. La storia è tutta nel palco in cui si rappresenta, nell’abbraccio di una natura aggrovigliata e piena di vita e di domande che restano quasi sempre senza risposte; di una natura che, alla Lucrezio, solo l’immaginazione può sondare nel modo più corretto, così come è vero che anche l’esperienza umana vi è pienamente immersa e si nutre di nessi e di abissi razionalmente non spiegabili. L’ambiguità e il carattere allusivo, ma irrisolto, del finale proprio questo vogliono mettere in scena. Tutto ciò – l’effetto complessivo, intendo – è pienamente riuscito e degno, quindi, della più grande stima.

Eppure devo registrare che La lucina ha un grosso punto debole. Nonostante lo stile sia perfettamente adeguato alla materia e al senso che si vuole comunicare, ciò rischia di continuare ad ingenerare l’idea che Moresco sia solo “un grande maestro della scrittura”, come vuole ribadire anche la quarta di copertina (che peraltro si macchia anche del “crimine” di richiamare troppo facilmente Leopardi e il Piccolo principe: è vero che la tradizione letteraria, in Moresco, è il fondamento primo; ma l’uso pubblicitario di alcuni riferimenti, in questo caso, è troppo astuto ed ammiccante). Come si è detto, invece, c’è dell’altro in questo libro, e anche se al cospetto di una vicenda letteraria che non è più agli esordi e che si è ormai composta, anzi, di migliaia di pagine occorre riconoscere che l’Autore nutre ancora troppa fiducia nel potere seduttivo della parola. Il suo tema è molto più secco e cerebrale; non è il soggetto di un dipinto rinascimentale, è il frutto di un sofferto lavoro di incisione, con il quale il dialogo è sempre aperto, sempre immutato, sempre classico. Moresco è un autore antico: quando il verso seguirà il pensiero, potremo acclamarlo di tutto cuore.

Nota di lettura su La lucina (di Silvana Farina)

Una recensione (di Laurent Lombard)

L’Autore presenta la sua opera in libreria e a “Che tempo che fa”

Un’intervista radiofonica (di Rossana Maspero)

Antonio Moresco in dialogo con Walter Siti: parte 1, parte 2, parte 3 e parte 4

Un approfondimento su Moresco

Attualità di Moresco (di Luca Cristiano)

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After Orwell (da ft.com)

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In questi giorni riesce molto opportuna la rilettura di questo lungo racconto, scritto nel 1956, pubblicato per la prima volta nel 1957 e poi integralmente rivisto nel 1958, per confluire in un autonomo volumetto solo nel 1963, con un disegno di Picasso in copertina. Lo riprendo nel primo tomo dell’edizione Romanzi e racconti dei Meridiani Mondadori. A dieci anni dalla fine della seconda guerra mondiale, e dalle battaglie e sofferenze della Liberazione, Calvino rappresentava già il senso di una complessiva e quasi irrimediabile e inconsapevole rinuncia alle ragioni che avevano animato le migliori speranze di un’intera generazione e che erano diventate troppo facilmente estranee al sentire comune della società italiana. Tutto era già stato dimenticato? Oppure ci si era lasciati dolcemente avviluppare nello sciabordìo di maree tutte nostrane e tutte inevitabilmente avvolgenti e sempre ritornanti?

Quinto Anfossi è un giovane intellettuale di sinistra, che ha militato per la Resistenza e che, a conflitto esaurito, nel clima di una ricrescita economica che sta per approssimarsi, sente la necessità di promuovere un piccolo affare. Perché non valorizzare una piccola porzione della proprietà familiare – si domanda – e costruirvi appartamenti da affittare ai sempre più numerosi turisti della sua bella città natale? La borghesia più operosa dell’incantevole località rivierasca ci ha già pensato da tempo; perché, quindi, sottrarsi alla possibilità di mettere in moto la propria speculazione edilizia e dare, così, senso e concretezza ad un’esistenza che si nutre, ormai, di pensieri soltanto astratti? Quinto si scopre improvvisamente determinato e trascina la madre anziana e il fratello Ampelio, un giovane e scostante assistente universitario, in un’avventura fatta di progetti, di capitolati d’appalto, di atti notarili, di licenze edilizie. Ma sin dall’inizio si capisce che l’impresa non potrà che avere un esito infausto e che sarà, dunque, il Caisotti, il ruvido e astuto costruttore cui gli Anfossi si rivolgono, ad avere comunque la meglio. La beffa è definitiva allorché Quinto, dopo aver accettato la mediazione del notabile di turno, incontra un militante della sezione locale del partito e apprende con sorpresa che la vicenda avrebbe potuto seguire un altro corso.

La semplicità della trama, come si vede, è disarmante. La bellezza della storia è racchiusa soprattutto nelle riflessioni ingenue del protagonista, nella sua strutturale indecisione, nel suo dirsi pronto pur essendo dichiaratamente svogliato, disorientato e disarmato. Eppure Quinto non è privo di qualche importante, e sintomatico, momento di lucidità. La dinamica della controversia che ben presto comincia con il Caisotti – vecchio compagno di lotta – lo porta, infatti, ad una sconsolata rivelazione: “Bella cura aveva fatto la società italiana! Esclamava tra sé. Due partigiani, un paesano e uno studente, due che s’erano ribellati insieme con l’idea che l’Italia fosse tutta da rifare; e adesso eccoli lì, cosa sono diventati, due che accettano il mondo com’è, che tirano ai quattrini, e senza più nemmeno le virtù di una borghesia d’una volta, due pasticcioni dell’edilizia, e non per caso sono diventati soci d’affari, e naturalmente cercano di sopraffarsi a vicenda…” (pp. 862-863). Ma Quinto, da ciò, non riceve alcuno stimolo e, anche nel momento in cui la speculazione se ne sta andando dichiaratamente a rotoli, se ne sta sullo sdraio a leggere (non a caso…) il Felix Krull di Thomas Mann e a fantasticare sul modo con cui approfittare delle grazie della signora Hofer, la prima prosperosa affittuaria del nuovo immobile, colei che, in verità, si prenderà gioco dell’invincibile inettitudine del Nostro.

È un Calvino apparentemente insolito, molto lontano dalle invenzioni che lo hanno reso tanto celebre. È talmente vicino alla sua esperienza più prossima che dietro un’ambientazione spaziale volutamente anonima si distingue palesemente il comune di San Remo, la città delle sue origini familiari, e si delinea, impietosamente, il frammentario gioco delle parti cui sempre si arrende il qualunquismo atavico della società italiana. Ed è in questa società, del resto, che Calvino rappresenta la resa, e la critica disincantata e severa, di un ceto intellettuale e di una classe politica che sono incapaci di ritrovare e vivere nel presente le radici del loro impegno; che, lungi dal partecipare ad un pratico e condiviso sforzo di miglioramento, si improvvisano in ruoli e ambizioni scomposte che non gli dovrebbero appartenere e che non possono che travolgerli assieme alle idee e ai principi su cui tanto si sforzano di discutere.

Il Calvino realista del 1956

Un percorso su Calvino (da italica.rai.it)

Un sito dedicato a Calvino

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Primo Levi e l'”ossessione” di Sergio Luzzatto (da gadlerner.it)

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È stato finalista al Premio Calvino 2012, con il titolo Lo stile del giorno, e come tale ha guadagnato la menzione speciale della giuria. Ora Bert e il Mago ha una nuova veste ed è disponibile alla curiosità di tutti i lettori, per l’editore Nutrimenti. Si tratta di 518 pagine di grande intensità, nelle quali le vite parallele di Bertolt Brecht e Thomas Mann si dipanano e si dimostrano, per una ricostruzione romanzata che, forse, è più verosimile di ogni altra ricerca storica sulla crisi di un’epoca intera e su due diverse esperienze di resistenza intellettuale e morale. L’avversione per il nazismo le accomuna, ma gli itinerari e i riferimenti ultimi sono del tutto differenti. Per Brecht è questione di denunciare e combattere un modello di società, quella stessa cultura borghese che per Mann, viceversa, rappresenta la culla, veneranda ed insieme terribile, della grandezza tedesca, e che avrebbe potuto e dovuto ergersi a vero presidio nei confronti dell’arroganza, dell’ignoranza e della barbarie, anziché alimentarne gli impliciti e falsi presupposti di superiorità morale e sociale. Di qui le due opposte reazioni all’ascesa di Hitler; di qui l’iniziale attendismo dell’autore de I Buddenbrook; di qui la tragica consapevolezza, maturata da questo durante l’esilio americano, sull’impossibilità di salvare il proprio popolo, per lui integralmente colpevole, e per il drammaturgo, invece, vittima di una classe corrotta e scellerata.

I passaggi più importanti del volume, forse, sono tre (anche se è difficile isolarne parti minori): la resa e la spiegazione delle idee sottese al teatro epico di Brecht (disseminate, per vero, in molte pagine: v., ad esempio, l’efficacissima sintesi a p. 155); il capitolo che porta il titolo originario del libro intero (Lo stile del giorno, pp. 315 ss.), nel quale assistiamo, nell’esperienza dell’esule, alla rappresentazione del nucleo fondamentale delle convinzioni intellettuali di Mann; l’intensa conversazione che Pasanisi immagina essersi svolta tra Mann e Brecht in un giardino di una villa californiana (Il confronto, pp. 351 ss.). Occorre ricordare, comunque, che quello di Pasanisi non ha il tenore di un saggio. I protagonisti interagiscono e dialogano, con i loro amici, con i loro cari, con i loro colleghi (scrittori, musicisti, poeti…). E allo stesso tempo soffrono, si inorgogliscono, vivono storie d’amore e passioni, grandi delusioni e altrettanto grandi paure. È magistrale il modo con cui l’Autore rende il rapporto così difficile tra Thomas Mann e il fratello Heinrich, o i figli, in particolare Erika e Klaus, che morirà suicida. Ma è davvero ineguagliabile anche il ritratto della sembianza estremamente viva ed inafferrabile di Brecht, della sua indipendenza totale, della sua irrefrenabile libertà affettiva e sessuale.

All’umanità, peraltro, Pasanisi – che forse tradisce, a conti fatti, una maggiore predilezione per la figura di Thomas Mann – accosta sempre un’attentissima e convincente ricostruzione della cifra letteraria e della statura complessiva dei due grandi maestri: di un magnifico e certosino artigiano della bella scrittura, capace, però, di intuire meglio di chiunque altro la seduzione e gli abissi di una tradizione romantica che per essere veramente immortale esige dai suoi interpreti una fortezza quasi insostenibile; ma anche di uno straordinario poeta, integralmente votato a fare dell’arte uno strumento concretamente rivoluzionario e a rendersi così interprete di un universo di valori che può dirsi appagante solo se reso oggetto di un’aspirazione continua ed instancabile. Così frapposti, a pensarci meglio, Bert e il Mago non sembrano realmente inconciliabili: è questo ciò che l’Autore voleva suggerire? L’immagine della copertina è l’indizio decisivo: la migliore testimonianza intellettuale e civile di un certo Novecento è una fusione di energie e di intenzioni che quasi mai si sono incontrate, di mondi che, in quanto divisi, non sono stati in grado di evitare un terribile naufragio.

Recensioni, di Massimo Mario e di Daniele Abbiati

Un’intervista all’Autore e un’auto-presentazione del libro (perché Thomas Mann e Bertolt Brecht?)

Thomas Mann raccontato da Marino Freschi

Bertolt Brecht raccontato da Max Raabe (auf deutsch!)

Il Mago e Bert on line: ThomasMann.de e International Brecht Society

L’ultima casa di Bertolt Brecht (di Davide Orecchio)

La nuova edizione di un capolavoro di Mann (di Pietro Citati)

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… per mantenersi quella reputazione che non avevono meritata… (da nazioneindiana.com)

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Powerpoint! (da alphabeta2.it)

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Chi non conosce la storia di Guglielmo Tell? Per gli smemorati, è la famosa vicenda di quel cacciatore svizzero che è costretto ad impegnarsi nella folle sfida di colpire con la sua balestra la mela posta sul capo del figlio: che fare? Ritirarsi, e cedere così al sopruso del potente che lo ha provocato in tal modo; o difendere l’onore, proprio e della propria gente, aggrappandosi alle sue innate capacità di tiratore? Questa storia, connotata dai lineamenti incerti che si addicono alla leggenda, è anche al centro del mito fondativo della Svizzera e della conquista della sua autonomia e della sua neutralità: il potente che sfida Tell, infatti, non è altro che un rappresentante dell’autorità imperiale degli Asburgo, e la vittoria del valligiano, che si rifiuta di omaggiarne pubblicamente le insegne e che per questo è spinto alla celebre prova, fissa un confine che per quell’autorità non sarà mai più valicabile. Si tratta, quindi, di una cosa seria, che per ogni svizzero assume tuttora un significato particolare.

Tuttavia, ecco irrompere il simpatico libretto di Max Frisch, che presenta il suo Guglielmo Tell e si misura nel genere originalissimo, se non unico, del racconto glossato, di una sequenza semiseria di tanti brevi capitoli che, alternati ad un cospicuo e gustoso apparato di note, riescono in un effetto tra il comico e lo straniante. È comico, questo Tell, perché è buffo, pigro e per nulla imperioso il suo antagonista, che peraltro è il personaggio principale della trama disegnata da Frisch e che viene ritratto, per così dire, sin dai primordi della sua avventura: ha un nome sempre incerto; non desidera altro che andarsene via al più presto; cerca di interloquire ed integragire con gli autoctoni, ricevendone spesso l’indifferenza e l’ostilità; si sente a disagio ed è preso in giro anche dai bambini, che lo scambiano per uno spiritello malvagio; se si propone qualcosa, poi, lo fa soltanto per ripristinare un po’ di legalità, di buon gusto e di correttezza. Allo stesso tempo, il Tell di Frisch è straniante: perché nelle note si apprende che, stando alle poche fonti realmente attendibili, le possibili variazioni del tema leggendario sono molte e che, forse, alla base delle rivendicazioni locali, non ci sono solo atti di nobile resistenza, ma anche aspirazioni puramente egoistiche o, semplicemente, la pervicace consuetudine ad una vita appartata e ad orizzonti spaziali e mentali completamente rigidi ed autoreferenziali. Inoltre, proprio sul più bello – proprio nel momento in cui si cerca di capire che cosa avrebbe scatenato l’incidente diplomatico ed accelerato il corso degli eventi – lo smaliziato romanziere arriva quasi al punto di combinare la comicità e lo straniamento, avvalorando l’idea che a dominare la scena sia stato soltanto un equivoco e che il povero balivo si sia trovato, suo malgrado, a doverne pagare l’indebita conseguenza.

Frisch riesce nell’impresa di “smontare” una gloria nazionale senza, con ciò, travolgerne del tutto l’importanza storica e senza, soprattutto, sminuirne l’originalità. Si può dire, anzi, che il puntuale apparato critico, se da un lato enfatizza gli ironici strali che il grande scrittore rivolge nei confronti di ogni retorica, dall’altro facilita la contestualizzazione più seria e il confronto più critico, nella prospettiva di chi tiene al passato, ma (preferibilmente) a quello più autentico e sincero. È un’opera “per la scuola”, in effetti: perché l’operazione di memoria che Frisch compie ha un chiaro intento culturale e pedagogico, alla ricerca di un’identità che non sia il frutto di stereotipate e comode rappresentazioni. Ma Guglielmo Tell per la scuola è anche un manifesto letterario, l’ottimo esemplare dei canoni teorizzati in Quadrato nero, per i quali la realtà più vera può solo essere inventata e l’immaginazione presenta chiavi di lettura che la ragione, da sola, non permette di azionare completamente. In questo testo, alla fine, l’Autore dell’indimenticabile Homo Faber sembra davvero molto vicino a Dürrenmatt e ci offre, così, un’altra buona occasione per conoscere meglio e per comprendere appieno quella profonda capacità decostruttiva che lo ha reso famoso e che non sorge esclusivamente da un esercizio estremamente analitico, ma sa trionfare specialmente quando esplode, nelle pieghe di un sorriso, da una considerazione del tutto onesta delle naturali debolezze degli uomini.

Il Max Frisch Archive

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Sosta pre-pasquale in autogrill, sulla Orte-Ravenna; clima malinconico e quasi autunnale; solito sguardo panoramico, un po’ curioso e un po’ “sbadigliante”, in attesa di un caffè che sarà, come sempre, troppo caldo. Ma l’occhio, bontà sua, cade sull’espositore giusto… tanti piccoli libri della Newton Compton, a 0,99 €, in una coloratissima combinazione di veri classici (Shakespeare, Poe, Sun Tzu, Freud, Fitzgerald…) e di brevi e ammiccanti prove “di cassetta” (Lisa Jane Smith e la saga dei vampiri, Andrea Frediani e un’avventura ambientata nella Roma antica, Marcello Simoni e il suo ultimo ed agile thriller storico…). È la svolta del viaggio, che dalla strada, bagnata, un po’ dissestata e “faticosa”, passa fortunatamente alla memoria, ben più accomodante e rassicurante…

È un dato di fatto; è tutto vero. La nuova uscita di Newton Compton (LivƎ) rilancia la mitica collana “100 pagine 1000 lire”, sia pur sotto le spoglie delle conversioni cui l’unione monetaria ci ha abituato da tempo; non ci potevo credere… Era stato, molto tempo fa, il primo incontro libero e felice con i grandi della letteratura. Era stato l’inizio di un’esperienza che sarebbe durata a lungo e che ancora resiste pervicacemente, agevolata, in origine, proprio dal battesimo del Tascabile Economico per eccellenza. Il primo esemplare mi era “piovuto” addosso quasi per caso, nel tardo pomeriggio di una domenica, da un espositore di una libreria inaspettatamente aperta: era l’edizione compatta, in carta riciclata, ma con il testo a fronte, per di più autografo, delle Illuminazioni di Arthur Rimbaud. Da quel momento, tutto è stato più semplice, “come una frase musicale”; così scrive Rimbaud in un verso di Guerra, una poesia che, sempre, e proprio da quel momento, è rimasta scolpita nella mia mente.

Per questo, per quella fedeltà assoluta che occorre conservare ad ogni costo per alcune delle tante e svariate cose dell’adolescenza, ho deciso di afferrare al volo I sotterranei della cattedrale, certo di portare con me un talismano sicuro. È chiaro che questa storia conta poco: è un leggerissimo volume da ombrellone (Il mercante di libri maledetti, viceversa, è un po’ più convincente, e non a caso l’anno scorso ha vinto il Premio Bancarella; anche se dobbiamo riconoscere a Marcello Simoni che la figura del giovane protagonista, Vitale Federici, dottorando di filosofia nella Urbino di fine Settecento, che indaga “sherlockianamente” sulla misteriosa morte della sua guida accademica, l’erudito professor Lamberti, può piacere molto e promette di dare qualche soddisfazione ulteriore in future peripezie…). La storia impedibile è un’altra, è nell’oggetto: è la minuscola oasi che puoi trovare dove meno te l’aspetti e che mantiene il suo innegabile potere catartico, quella consueta forza antidotica che anche i vecchi “100 pagine 1000 lire” possedevano e che potrà ancora dare a qualcuno l’occasione per importanti e durature trasformazioni. Nessuna promozione, dunque; ma non si può negare che, effettivamente, anche le operazioni editoriali più semplici ed apparentemente “volgari” nascondono insospettabili virtù.

Il successo di “100 pagine mille lire”

L’indice della vecchia Collana

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