Sulla storia narrata in questo libro – la resistibile ascesa politica del Mussolini fascista, dal debutto sansepolcrista, nel 1919, alla fase definitiva del delitto Matteotti, nel 1924 – ci sarebbe da dire troppo, o forse troppo poco. Troppo, innanzitutto, visto che per apprezzarla fino in fondo occorrerebbe restituire in dettaglio i fatti e le suggestioni che attraversano niente meno che 827 pagine. Forse è semplicemente un libro da non commentare. Peraltro, come ha precisato il suo Autore, si tratta di un romanzo documentario, costruito direttamente con le parole dei protagonisti, e soprattutto del protagonista, con tutte le progressive metamorfosi che lo hanno caratterizzato: dall’essere il prototipo dello sbandato al diventare – riuscitissimo “uomo del dopo” – il più cinico e callido dominatore della scena politica italiana. D’altra parte, ciò che è narrato in M. non è frutto di fantasia. È una verità, questa, difficile da accettare. Metabolizzarla richiederebbe davvero un certo spazio, forse addirittura maggiore di quello che di per sé già occupa il ponderoso tomo. Allo stesso tempo, però, il racconto alluvionale fa emergere una realtà tanto vorticosa e prepotente da angosciare e quasi annichilire il lettore. Si rischia, dunque, di dire troppo poco. Anzi, si rischia un istintivo silenzio: quello cui si è di solito indotti quando ci si sente persuasi da un’apparente autoevidenza, in questo caso veicolata dalla forza del mix di eventi pressoché quotidiani, piccoli e grandi, di cui il volume rende analitica e drammatica testimonianza. Si tratterebbe, tuttavia, di un silenzio colpevole e (a pensarci bene) un po’ ignorante, perché la stupefazione che lo anima sarebbe quella di chi ritenesse di acquisire, finalmente, con un medium prevalentemente emotivo, una verità o una conoscenza razionalmente non attingibile. Eppure le cose non stanno così: sul piano storiografico, M. non aggiunge niente al consolidato e diffuso patrimonio di informazioni e conoscenze sul fascismo e sul suo Duce. Perché leggerlo?

Il fatto è che basterebbe riprendere le chiare e illuminanti (e poche…) pagine di un classico saggio di Giovanni De Luna (Benito Mussolini. Soggettività e pratica di una dittatura, Milano, 1978, 62-77) per assimilare con pari efficacia la lezione che Scurati avalla con così tanto apparato. Non è certo ignoto che la spregiudicatezza di M. – come il suo peculiare rapporto con la violenza e con i gerarchi più determinati – ha ricevuto assist decisivi da un contesto politico e istituzionale particolarmente frammentato, fragile, confuso e opportunista; né costituisce una scoperta l’ambiguo e ammiccante contegno di tanti (e illustri…) moderati, oltre che del re; né (ancora) può veramente sorprendere la constatazione sulla sostanziale e radicale vuotezza di un’ideologia che non è mai stata veramente tale, perché costruitasi per via di fortuite e occasionali addizioni progressive, che potevano esserci o meno, a seconda del vantaggio, anche soltanto retorico, che al momento parevano garantire. Circa la marcia su Roma, poi, nulla è meglio della caustica e incalzante ricostruzione di Lussu; e anche sulla fine di Matteotti non si svelano profili inediti. Eppure, proprio a quest’ultimo riguardo, proprio considerando, cioè, le modalità con cui Scurati si approccia, gradualmente, alla figura del deputato socialista – sulla cui intima, umana, debolezza il racconto si sofferma più volte – si può cogliere l’unico spunto che offre un senso, e un’utilità, al fotoromanzo del regime e del dittatore nascenti: virtù positive, si badi, che niente hanno a che fare con la possibilità di evocare, oggi, episodi o passaggi più o meno educativi – e più o memo calzanti… – sulla fisiologia disarmante di uno scivolamento socio-politico. È il contrasto con il campo di Matteotti a rendere plasticamente evidente la durezza e l’inevitabilità del campo di Mussolini, dominato, sempre e sin dal principio, dal vitalismo animale e irrefrenabile, e talvolta pavido delle sue stesse potenziali conseguenze, che alimenta tipicamente ogni sete di potere. Non poteva che vincere, questa orribile forza, specie a fronte di chi, senza avvertirne l’urgenza, non ne aveva capito l’essenza e non è stato in grado di fronteggiarla e di domarla.

Recensioni (di Roberto Antolini; di Ambrogio Arienti; di Mario Barenghi; di Davide Brullo; di Ivan Carozzi; di Antonio D’Orrico; di Ernesto Galli della Loggia; di Daniele Giglioli; di Lorenzo Pavolini)

L’Autore a Fahrenheit

Un’intervista a Scurati

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Romanzo e Parlamento (da leparoleelecose.it)

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Nabokov in cattedra (da nazioneindiana.com)

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Pazzi per il paesaggio: Hokusai, Hiroshige (e quel giapponese mancato di Van Gogh) (da circolocubounibo.it)

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Il libro è una felice raccolta di estratti di colta e preziosa critica letteraria. È diviso in due parti, precedute da un “Viatico” e seguite da un’Appendice. Fanno da cornice due gallerie, con un apparato iconografico variamente collegato alle riflessioni svolte dall’Autore. L’oggetto – nulla di strano per Nigro, che ne è un vero esperto – è Alessandro Manzoni, e precisamente la singolare e profonda, e tormentata, tensione pedagogica che percorre I promessi sposi, qui analizzati sulla base dell’edizione illustrata del 1840-1842, quella accompagnata dalla Storia della colonna infame. Nel “Viatico”, infatti, Nigro chiarisce di volersi inserire all’interno del filone interpretativo che valorizza la Storia come la lente ideale per comprendere il significato del romanzo. Non a caso, la prima parte del volume, che ne costituisce il cuore, si mette sulle tracce di “quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato degli altri”: espressione che è stata usata dal Manzoni nel capitolo XIII del romanzo, dove si narra dell’assalto popolare alla residenza del vicario durante la rivolta del pane. A lungo Leonardo Sciascia aveva interrogato la frase in parola. Era alla ricerca di una chiave esplicita per dimostrare il rimorso segreto del grande scrittore, se non il tentativo tardivo di una qualche inquieta giustificazione, di fronte alla freddezza che lo stesso aveva tenuto nei confronti del linciaggio, compiuto proprio davanti alla sua casa, di Giuseppe Prina, ministro delle finanze dell’ultimo governo napoleonico di Milano. Perché – e questo è il fulcro della seconda parte del libro, che confronta gli itinerari manzoniani di Sciascia con quelli di Mario Pomilio e di Natalia Ginzburg – l’opera di Manzoni non può essere mai eccessivamente monumentalizzata, né confinata in un tranquillizzante messaggio pastorale di redenzione o in un intreccio di ragioni sentimentali o personali: il turbamento la pervade sempre, al punto da farla sembrare in ogni caso spiazzante, per i laici come per i cattolici, e comunque per gli italiani. L’Appendice, animandosi delle immagini contenute nella seconda galleria, coltiva nuovamente le suggestioni del tema iconografico, divagando elegantemente tra i tratti di Renato Guttuso e quelli di Mimmo Paladino.

Capire se sia o meno verosimile che proprio la lenta metabolizzazione della disgraziata vicenda del Prina avrebbe fornito al patriota Manzoni l’ispirazione per gli approfondimenti morali e civili sottesi al racconto del seicentesco tumulto di S. Martino – come alla ricostruzione filologica della sventura dei presunti untori della Colonna infame – non è la cosa più importante di questo libro. Mi preme esprimere un’urgenza diversa, in parte personale, in parte più oggettiva; ma legata comunque alla Colonna infame. La ricordo ancora nell’esperienza della prima lettura, dopo la scoperta del volumetto sugli scaffali della libreria di casa. Stava accanto ad altri volumetti di una stessa collana, formata da alcune edizioni speciali ed economiche di Bompiani, vendute con L’Espresso e acquistate da mio padre, che allora era abbonato al settimanale. Riportava un’introduzione di Sciascia. Il libro di Nigro – che è esplicitamente ispirato alle pagine dell’autore siciliano – risveglia la gioia di quell’originario contatto, e del confronto, forse per la prima volta, con una riflessione difficile, obliqua, eppure appagante. Richiama anche il piacere – pure quello provato, forse, per la prima volta – di voler continuare la scoperta, leggendo gli altri titoli di quella stessa collana (su tutti, Tifone di Conrad e Candido di Voltaire), con pari soddisfazione. Poi c’è, naturalmente, al di là del ricordo di un momento molto formativo, anche il profilo sostanziale, di merito. Riguarda l’importanza di un messaggio che invita a guardare al grande romanzo italiano per eccellenza come ad una cosa spessa, complessa e al contempo forte ed efficace nella persuasione che può produrre anche soltanto nella lettura più immediata e appassionata. È uno sprone, dunque, a non avere paura di questo genere di complessità, perché è fattore di grande consapevolezza. Ma è anche una sollecitazione a riconsiderare Manzoni un vero maestro della “moralistica” europea, a intenderlo, cioè, innanzitutto, nel suo lato francese, non solo in quello lombardo. Non è male rammentarsi di poter collocare don Lisander ben al di là delle glosse e delle parafrasi anguste che gli sono di solito riservate dai nostalgici della più stanca tradizione scolastica.

Recensione (di Raffaele Manica; di Adriano Napoli)

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Marx l’incompiuto (da carmillaonline.com)

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E ogni problema è un labirinto fantastico (Litfiba)

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