Il sottotitolo di questo saggio – il cui titolo proviene da un’espressione di Rossana Rossanda, utilizzata in un carteggio con l’Autore – è “Una storia delle Brigate rosse”. Tuttavia, a differenza di quanto la specificazione possa far presagire, Luzzatto non si occupa delle vicende, in generale, della nota formazione terroristica. Si concentra, invece, su nascita, evoluzione e parabola della sola colonna genovese. Allo scopo, però, di tracciare un metodo di indagine utilizzabile anche per altri contesti locali e di trarre – comunque – alcune riflessioni di sostanza, ipoteticamente valide a rivelare qualcosa di nuovo sul complessivo retroterra socio-culturale del fenomeno brigatista. O, più precisamente, sulla valenza non secondaria che specifici fermenti di esperienza, come di pensiero, avrebbero avuto nel lento apprendistato e nel radicamento delle convinzioni più profonde dei brigatisti, regolari e non. Per raggiungere questo obiettivo, l’Autore privilegia sin dall’inizio due scelte. Da un lato, si dedica soprattutto alla figura di Riccardo Dura – l’uccisore di Guido Rossa (cui Luzzatto ha da poco dedicato un altro volume) – qui definito come terrorista perfetto, perché rimasto sconosciuto ai più fino al drammatico scontro a fuoco di via Fracchia, dove ha perso la vita. Dall’altro, Luzzatto parte da lontano, ricostruendo l’interazione, in particolare, tra certe sensibilità della sinistra extraparlamentare e del mondo cattolico post-conciliare e l’esistenza di sacche di marginalità via via emergenti nelle compagini dei lavoratori emigrati dal Mezzogiorno e delle loro famiglie. Dopodiché si susseguono – o si inseguono – tante storie individuali e familiari, collettive e politiche: tutte rigorosamente mappate sulle strade, nei vicoli e sulle piazze del capoluogo ligure. Come in altre precedenti ricerche, lo storico genovese, oggi in forza alla University of Connecticut, si distingue per originalità di approccio, integrazione di fonti (quelle orali svolgono un ruolo significativo), capacità narrativa e attitudine a far discutere.

Non c’è dubbio che, nel suo itinerario, Luzzatto lascia fuori l’operaismo in senso stretto o le teorie sulle interferenze dei servizi di intelligence. E, al contempo, enfatizza il modus operandi e le traiettorie degli intellettuali di provenienza accademica (nel caso genovese, Enrico Fenzi e Gianfranco Faina), ma anche i cambiamenti di contesto e di sensibilità, e di critica alle vecchie istituzioni di discriminazione e segregazione sociale (carceri, manicomi, istituti di rieducazione). Su alcuni recensori la prospettiva seguita da Luzzatto ha sortito impressioni diametralmente opposte, eppure critiche: c’è chi considera la ricerca come la combinazione di lacune inescusabili e fuorvianti, avvinte da un percorso di pura immaginazione; altri, invece, lamentano un processo di sostanziale nobilitazione delle figure dei brigatisti e delle loro ragioni. Al lettore meno esperto questi giudizi non sono del tutto decifrabili. Ma è un po’ forzato attribuire all’Autore intenzioni cui egli manifestamente non è accostabile. È vero, ad esempio, che Luzzatto dà peso ai fermenti socio-culturali che animano gli anni Sessanta e Settanta, ma è altrettanto vero che non ne fornisce un quadro denigratorio, né segue (anzi, lo critica expressis verbis) il famoso teorema Calogero sul ruolo “direttivo” dei cc.dd. “cattivi maestri”. Pur ritenendo, simultaneamente, che alcune intuizioni delle indagini avviate dagli uomini del generale Dalla Chiesa fossero corrette. Ciò che, dopo tutto, è interessante, di Dolore e furore, è il tentativo – come è stato ben detto – di fornire un’antropologia del brigatismo; e di farlo – si può aggiungere – a partire da un’attenta ricognizione di luoghi, documenti e testimonianze, per ricavarne piste e metodi di approfondimento qualitativi capaci di attraversare trasversalmente, e così di testare, le interpretazioni finora più diffuse. È senza dubbio un libro su cui meditare a lungo.

Recensioni (di S. Calamandrei; di P. Persichetti)

Un’intervista all’Autore

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Luce è un’intraprendente architetta che vive e lavora a Parigi, dove ha conosciuto Gerard, collega e compagno. La morte della nonna – con cui ha vissuto da bambina, assieme alla sorella – la riporta in Italia, dove apprende di essere destinataria di una missione, che proprio la nonna sembra averle lasciato: mettere un fiore sulla tomba del bisnonno Antonio, caduto durante la prima guerra mondiale attorno a Cima Bocche. Il fatto è che la tomba è ignota. Luce cerca anche negli archivi militari, ma scopre che il fascicolo personale del bisnonno è vuoto. Ha tuttavia l’intuizione di consultare il fascicolo dell’ufficiale che aveva scritto alla nonna, per comunicarle la morte del marito. È così che, sulle orme di quell’ufficiale, il tenente Giardina, Luce conosce Marco, il nipote del tenente, con cui si lancia in una ricerca comune, che per entrambi comporta un viaggio nel passato personale e delle rispettive famiglie. E in alcune delle esperienze più drammatiche e ingiuste della storia dell’esercito italiano. Il racconto di Giovanni Grasso alterna le pagine sul rapporto, via via più intenso, tra Luce e Marco alle pagine del diario segreto del tenente Giardina, che il più classico degli espedienti letterari vuole ritrovate sul fondo di un vecchio baule. I fuochi del romanzo sono due: quello che denuncia nuovamente la crudeltà e l’ignominia delle fucilazioni sommarie, con un percorso analogo a quello compiuto qualche anno fa da Paolo Malaguti in Prima dell’alba (dove si rievoca un episodio che è citato anche in questo libro); e quello che, in un gioco dialettico tra cancellazione della verità e tutela morale, spiega quanto, e come, sia possibile fare giustizia anche con la memoria. Non sono temi nuovi, ma la scrittura è agilissima e l’Autore sa bene come prendere per mano i lettori, con un approccio che è delicato ed empatico allo stesso tempo. Rispetto ai “precedenti” più recenti sulla Grande Guerra, il valore aggiunto di questo libro si nasconde nelle pieghe di un tono pacato e nell’intuizione che ha saputo guardare all’immenso patrimonio delle tante, piccole/grandi storie di cui le famiglie italiane sono ricchissime.

L’Autore a Radio Radicale

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Il protagonista di questo romanzo è Marcello Gori, trentenne viareggino che, largamente fuoricorso, si laurea in lettere all’Università di Pisa. Presto, del tutto inaspettatamente, vince una borsa per il dottorato di ricerca. Non può avere occasione migliore: non tanto per imboccare finalmente una possibile strada professionale, quanto per starne ancora lontano e fuggire dalle responsabilità cui il padre lo richiama da tempo. Il mondo accademico, però, si propone subito in maniera grottesca, con tutti i modi, i riti e le storture che gli attribuiscono i più noti e accreditati stereotipi. È naturale che, pur orientato dai consigli di Carlo, un assegnista preparatissimo che pare essergli amico, Marcello si senta un pesce fuor d’acqua. La sua guida poi – il Chiarissimo Prof. Sacrosanti, mentore dello stesso Carlo e di Pier Paolo, un dottorando ben più a suo agio di Marcello – lo mette sulle tracce dell’opera letteraria di Tito Sella, membro negli anni Settanta di uno sgangherato gruppo pararivoluzionario di provincia, e condannato all’ergastolo per alcuni gravi reati commessi dalla sua banda. Sembra proprio un’esperienza priva di particolare respiro. Tanto più che i primi approcci critici di Marcello quasi annegano nel corso dei dibattiti puntuti di un grande congresso di italianistica comparata. Nonostante ciò, il destino spinge il protagonista fino a Parigi, a consultare gli archivi di Tito Sella e a vivere pro tempore l’esperienza del tipico giovane studioso italiano all’estero. In quel contesto, a dispetto dei consigli di Sacrosanti, Marcello si immerge, e si confonde, nella traiettoria esistenziale del suo personaggio, immaginandone nei dettagli il romanzo autobiografico. Lo straniamento lo porta ad un senso di improvvisa liberazione, con incontri e abbandoni sorprendenti. Fino al forzato ritorno a casa, dove apprende di un evento tragico che lo scuote profondamente e lo porta, come in un giallo, a rivedere la pista seguita fino a quel momento, a fare una scoperta potenzialmente sensazionale e a compiere, per la prima volta nella sua vita, una scelta davvero consapevole.

La ricreazione è finita possiede tutte le stimmate del potenziale successo editoriale. In primo luogo, solletica con arguzia i palati di chi ama dissacrare il mondo universitario e i suoi principali attori. Ferrari, infatti, offre un vero e proprio repertorio del più assurdo e ipocrita galateo accademico: dal modo con cui si preparano le note di un saggio scientifico alle corse a ostacoli che si devono compiere per organizzare una conferenza e sistemare a dovere i diversi relatori. Di più: il romanzo è popolato di macchiette perfette, di figure (la dottoranda bionda, il Professor Morelli, Sacrosanti) che incarnano i classici tipi umani e le leggende personali di cui l’università è invariabilmente popolata, con le connesse povertà umane e intellettuali. Già questo, dunque, funziona benissimo. Oltre a ciò, si tratta di un romanzo di formazione, che per il solo fatto di riguardare il prototipo del vitellone degli anni Duemila non può che suscitare empatia. È il racconto di una specie di ravvedimento, di una presa di coscienza (anche questo è un fattore che i lettori di solito gradiscono) che si costruisce per opposizione all’artificiosità e all’ambiguità (che alla fine si rivelano estreme) dell’ambiente ipoteticamente colto, illuminato e impegnato in cui essa matura. Forse il terminale ultimo della storia, il punto di caduta del protagonista e delle sue decisioni finali, è disegnato in modo eccessivamente rapido, quasi sommario, come un fulmine a ciel sereno. E forse la scrittura è talvolta discontinua, alternando spezzoni di osservazione profonda o concentrazione comica, e a tratti sarcastica, a lunghi brani (talvolta superflui e) meramente narrativi. Ma occorre ripeterlo: gli ammiccamenti sopra descritti possono coprire qualsiasi maniera, ogni difetto. Sicché, nel complesso, il romanzo gira, eccome.

Il fatto è che – al di là di quanto può verosimilmente piacere – l’originalità di questo libro – il cui titolo fa ironicamente il verso sia ad una famosa frase di De Gaulle, sia a un discusso saggio di Roger Abravanel – si scopre meglio nella sua parte apparentemente più ingenua, ossia nel modo con cui rappresenta la dialettica tra vita e letteratura, tra ragioni del cuore e ragioni della testa. È profilo che si può apprezzare su due livelli, quello che più riguarda il protagonista, e quindi l’io narrante e alter ego dell’Autore, e quello che coincide con il soggetto-oggetto della finzione, Tito Sella, raffigurato e comparato con gli eroi delle sue opere. Il primo livello si spiega semplicemente. Se da un lato la somma superficialità di Marcello è il vizio che ne caratterizza meglio la personalità, è indubbio che è proprio questa virtù – un approccio spontaneo alle cose, diremmo – ad averlo protetto dall’eccesso dell’intelletto: ad averlo, cioè, tenuto “a distanza dal baratro in cui scivola chi si concede integralmente, senza remore e senza protezioni, con il rischio di essere risucchiato dall’abisso senza nemmeno rendersene conto” (p. 431). Il secondo livello, invece, è più complesso. Così come Marcello si scopre vittorioso nel farsi del suo formale fallimento, anche Sella viene riscoperto e riabilitato a modello di dignitosa coerenza proprio allorché se ne rivelano le umane paure, gli emotivi dietrofront e i successivi, umanissimi rimorsi. Solo i maestri – come Sacrosanti – sono dogmatici e perfetti, sanno come comportarsi e come, e dove, riuscire ad affermarsi, con il trasformismo e il perbenismo più assoluti, e abdicando a ogni innocenza. Che viceversa può darsi meglio nella dignitosa sconfitta di una bruciante rinuncia.

Recensioni (di D. Cacopardo; V. Calzolaio; S. Mariani; L. Martini)

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Ci sono piccoli volumi che dischiudono ampie possibilità di scoperta e approfondimento. Come questa pubblicazione, edita da il Mulino nel 2014. Raccoglie la trascrizione, riordinata, delle “puntate” che più di vent’anni fa un importante studioso di storia romana aveva dedicato ad Annibale per la trasmissione radiofonica Alle Otto della Sera. Erano state già riproposte, anche in forma scritta per le edizioni della RAI, e oggi sono rimaste disponibili online. Sono una piacevole lettura. D’altra parte, il comandante cartaginese, il protagonista della seconda guerra punica che ha sbaragliato le legioni romane alla Trebbia, al Trasimeno e a Canne, è una figura quasi mitica. Non può non affascinare. Inoltre Annibale è uno dei personaggi storici di cui ci si rammenta sempre qualcosa. Così è anche per me, se non altro per le nozioni acquisite in alcune ore passate, a suo tempo, in compagnia dell’abile e avvincente narrazione di Gianni Granzotto (per sincera curiosità, ma anche per compensare il polpettoso e romanzato peplum di riferimento, quello del 1959, con un baldanzoso Victor Mature nei panni del condottiero). Il fatto è che il valore del saggio proposto da il Mulino va al di là delle affezioni per gli eroi di gioventù. Giovanni Brizzi, certo, fa quello che ci si aspetta da un’agile, ma precisa, introduzione divulgativa: di Annibale ricostruisce le origini, il contesto familiare, l’educazione, i progetti, le tattiche e le strategie, e anche la sconfitta nella piana di Zama, ad opera di Publio Cornelio Scipione, con successivi caduta, esilio e morte. Non manca, ovviamente, di dare anche alcune coordinate, sintetiche ma nitide, sulla storia, e sul momento specifico, delle due potenze allora in conflitto, Cartagine e Roma. Ma l’Autore riesce pure a introdurre i non addetti ai lavori a un aspetto di fondamentale importanza. Riguarda le articolate chiavi interpretative che sono offerte dalla storia militare. Può sembrare scontato, nel caso di Annibale. Perché decrittare i segreti e le astuzie che hanno favorito la prevalenza, in battaglia, di uno schieramento anziché di un altro è molto interessante. Viene voglia di partire subito alla volta del lago Trasimeno, per camminare sulla scena delle operazioni di quel famoso scontro. Tuttavia ciò che offre la storia militare è una prospettiva che, in questo caso, aiuta a capire in maniera efficace il confronto tra l’approccio latino originario e il lascito maturo della cultura ellenistica, con un risultato finale, quasi un salto evolutivo, che, in un’esperienza drammatica, distruttiva e del tutto spiazzante, e grazie al tirocinio svolto da Scipione (che dell’avversario si rivela quasi un apprendista), ha fatto crescere e reso egemone lo stato romano. Analogamente, la stessa prospettiva consente di avvicinarsi ai più classici problemi delle total wars, dei conflitti, cioè, che, non solo nell’antichità, sono stati talmente intensi e decisivi dal determinare trasformazioni permanenti sui luoghi, sulle istituzioni e sulle civiltà che vi sono restati coinvolti. Così è accaduto, rispetto alla campagna militare di Annibale, per gli effetti a lungo termine che essa ha determinato sul meridione d’Italia, sulla politica interna e internazionale di Roma, e sugli equilibri socio-economici del Mediterraneo. Si può proprio dire che, di fronte ad Annibale, ci sono stati un prima e un dopo, e che questo è più che un buon incentivo a navigare nei due grossi tomi della ricerca che vi aveva dedicato Toynbee, uno degli storici più intelligenti del Novecento (e del quale attualmente, in tempi di concitato interesse geopolitico, andrebbe letto tutto, o quantomeno l’illuminante Il mondo e l’Occidente). Ecco, le pagine di Brizzi sono come scatole cinesi, per questo meritano di essere frequentate.

Annibale secondo Alessandro Barbero

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In questo libro si racconta la vita irregolare e sfortunata di Dino Campana, l’autore dei Canti Orfici, nato nel 1885 a Marradi, sull’Appennino tosco-romagnolo, e morto nel 1932 a Scandicci, nell’ospedale psichiatrico di Villa di Castelpulci. Vassalli ha dedicato tantissimo tempo alla storia del poeta: è stato più volte nei suoi luoghi; ha cercato e studiato per anni, e meticolosamente, le pochissime carte che lo riguardano (soprattutto le “module” e i provvedimenti giurisdizionali con cui è stato spedito a più riprese in manicomio); ha scandagliato l’ambiente familiare e le relazioni difficilissime con la madre Fanny; ha letto, contestualizzato e confutato le testimonianze e i pregiudizi dei biografi, di chi lo aveva conosciuto, dei benpensanti di Marradi e dei compagni dell’università; ha ricostruito i tanti viaggi all’estero, i soggiorni fiorentini, i vagabondaggi, le poche amicizie, i rapporti conflittuali con i letterati e gli artisti emergenti (Papini, Soffici, Carrà); e naturalmente ha scavato nel rapporto passionale e totalizzante che Dino ha avuto con Rina Faccio (la famosa Sibilla Aleramo, femme fatale celeberrima per i suoi contemporanei). Questa frequentazione, per Vassalli, è stata costante. Ha funzionato come fonte di ispirazione, spingendolo a raccogliere e pubblicare, di Campana, poesie, lettere e prose

La notte della cometa, peraltro, è testo che, sin dalla prima apparizione nel 1984, ha suscitato molte reazioni, spesso positive, talvolta negative. Lo rievoca lo stesso scrittore in Natale a Marradi, il pezzo pubblicato autonomamente nel 2008 e posto in appendice all’edizione einaudiana del 2017. Quale può essere stata, per i più critici, la colpa di Vassalli? Non certo quella di aver dato alla luce un ottimo libro, che con i suoi piccoli capitoli quasi si legge come un diario e tenta l’immedesimazione più puntuale con il percorso esistenziale del poeta e, direttamente, con le sue parole e con la loro intrinseca forza evocativa. Vassalli è davvero riuscito a isolare le tappe della ricerca di Campana, nella sua irresistibile tensione all’immersione nel paesaggio, e nelle emozioni e immagini più forti della vita; ne ha colto l’istintiva e pervicace volontà di rifondazione, personale come umana, nel senso più universale del termine. Dunque, secondo l’Autore – che è rimasto assai colpito dagli interventi talvolta pretestuosi dei detrattori – il suo approfondimento narrativo porterebbe una sola responsabilità, quella di aver cercato di sottrarre Campana alle leggende che lo hanno sempre voluto soprattutto e irrimediabilmente pazzo. 

Oggi si può sicuramente affermare che quest’ultimo è il merito più grande del volume. Perché Vassalli, in effetti, ha seguito un’altra traccia: ha evidenziato l’ostilità costante della madre di Dino, la diversità avversata e ridicolizzata dai paesani, l’ambiguità dei riscontri clinici e la probabilissima morte per sifilide. Quello de La notte della cometa, dunque, non è il ritratto di un malato mentale: è la tragica parabola di un grande incompreso, di un uomo fondamentalmente solo, e discriminato pure da chi gli era più vicino, in un tempo in cui la stranezza veniva trattata sistematicamente come un problema di sicurezza pubblica e di onorabilità, e come la premessa della patologia più profonda e paurosa. Vassalli ci ha rammentato, ascoltando da vicino il grido espresso di Campana, che esiste un’enorme differenza tra chi è grande poeta, celebrato ufficialmente dagli allori, e chi, invece, non vive tutto intero nel suo presente, ma è “ombra di eternità”, “fuori del tempo e dei suoi traffici”. Più di ogni cosa, però, Vassalli ha dato voce pulsante all’Italia del primo Novecento, alla sua strutturale arretratezza, alla tortuosità che un talento eccentrico e autodidatta doveva fronteggiare anche solo per potersi palesare. La notte della cometa, in fondo, è uno straordinario pezzo di storia sociale. E pure per questa ragione è libro da leggere, meditare e rileggere ancora.

Due documentari Rai su Dino Campana: qui e qui

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In questo romanzo la vicenda immaginata da Andrea Tarabbia lo vede diretto protagonista, nella parte di uno scrittore che sta affrontando un periodo un po’ disorientante della sua vita. Si sente seguito ogni tanto da un serpente nero e guizzante, e decide di rivolgersi a uno psicanalista, il dottor P. Quest’ultimo lo riceve a casa, in uno studio attiguo alle sue stanze private. È così che ne conosce la moglie, la bellissima Silvia, e scopre la peculiare situazione della coppia. Lei frequenta il giovane Marcello, ragazzo bellissimo, ma violento, e affiliato a una pericolosa organizzazione di estrema destra. Il dottore, invece. ha una relazione con una donna del Nordest, e ogni tanto si allontana per passarvi del tempo. Entrambi sanno perfettamente quali sono le esperienze vissute dal proprio partner. Tarabbia, che ben presto viene in contatto con Marcello e diventa anche confidente del dottor P., comincia a frequentare il manipolo di attivisti di cui Marcello è il leader. Ne è in qualche modo attratto, ne conosce i membri, viene coinvolto in qualche azione e in altrettante riunioni, che si tengono al Babij Jar, un covo dal nome sinistro, pieno di animali e rettili imbalsamati, di cimeli fascisti e neo-fascisti, e di un archivio che tiene traccia, se così si può dire, degli “eroi di riferimento”. La storia dello scrittore inquieto – che, pure, ha dei trascorsi con una ragazza moldava di nome Anna – si intreccia con il percorso di una relazione aggressiva e morbosa, alla quale Silvia si sottomette sempre di più, fino all’esito pressoché inevitabile e, forse, previsto sin dal principio.

Si può prendere un libro famoso, a suo modo misterioso, e trarne ispirazione, oggi, per una specie di libro gemello? Il continente bianco realizza quest’operazione, scopertamente, muovendo da L’odore del sangue – l’ultimo e particolarissimo romanzo, postumo, di Goffredo Parise – e riscrivendolo, con alcune variazioni e con prospettive che, naturalmente, sono nuove, eppure invitano alla rilettura più attenta dell’originale. Quello di Parise è romanzo segnato da una maggiore insistenza individuale e psicologica, di scavo su desideri, pulsioni erotiche, aspettative e fragilità personali, quasi fossero orizzonti irredimibili. Anche il libro di Tarabbia è attraversato da una pluralità di destini, di esistenze cacciate e ricacciate nelle proprie strade da una qualche forza di gravità. Ma talvolta si ha l’impressione che nella penna di questo Autore si nasconda anche un interesse maggiormente “collettivo”. L’odore del sangue che evoca è parzialmente altro rispetto a quello di Parise. O meglio: è lo stesso, ma Tarabbia vuol farci capire che “tutti” lo possiamo avvertire; e che, al di là delle notazioni che Cesare Garboli aveva dedicato all’incombenza della morte dell’Autore stesso, come motore del romanzo parisiano, ci troviamo di fronte a un’esperienza molto più “diffusa” e “prossima” di quanto si possa immaginare. L’immersione di Tarabbia, così, diventa un po’ anche la nostra. È questa la cifra de Il continente bianco, che è un medium per comprendere più a fondo, ed esplodere, la grandezza de L’odore del sangue. Ne è anche un’ottima sceneggiatura: un plot già pronto per una trasposizione cinematografica che potrebbe funzionare assai bene.

Recensioni (di L. Illetterati; di S. Mariani; di G. Raccis; di D. Valentini)

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È un’opera postuma di Vitaliano Trevisan, scomparso all’inizio di quest’anno. Ed è sicuramente un Trevisan a tutti gli effetti, con tutto il suo consueto carico di ispirata, disperata e disorientante radicalità, e con il denso repertorio di suggestioni e rimostranze interiori e sociali che è tipico di questo Autore. Bene ha fatto, dunque, l’editore a pubblicare Black Tulips, possa o meno considerarsi formalmente compiuto. Sostanzialmente, lo è a pieno titolo. Come sempre, in Trevisan, la trama è formata dal racconto di concrete esperienze personali, tappe vere e proprie di un articolatissimo percorso esistenziale e dei suoi periodici crolli. Questa volta lo scrittore vicentino rievoca il suo viaggio nella prostituzione. Da frequentatore abituale, per così dire. Anche se poi si è trattato pure di una spedizione vera e proprio, in Nigeria, perché – come gli diceva Ade, una delle prostitute nigeriane da lui conosciute e poi espulsa dal nostro paese – u must c with your own eyes. Pertanto Trevisan – che si carica risolutamente sulle spalle anche lo stigma che la prostituzione porta con sé – è partito per Lagos, per immergersi e vedere, scortato da Ade e da Amen e Mudia, amici e accompagnatori della ragazza, ma anche potenziali soci d’affari in un’improbabile commercio di pezzi di ricambio per auto usate. Black Tulips è il taccuino che Trevisan non ha tenuto allora, e che, tuttavia, si ricostituisce ora tra frammenti, avvertenze e note a piè di pagina, in cui si rinvia anche a lavori inediti o comunque non pubblicati. Ne risulta una sorta di diario extra vagante e a tratti stordito, che, attorno ai ricordi dei diversi incontri notturni in quel di Vicenza e alla colonna portante del viaggio (quasi conradiano), sviluppa una pioggia di osservazioni: di carattere psicologico, storico, sociologico, etico. Alla Nigeria, Trevisan oyibo, l’uomo bianco che andando a prostitute ha anche imparato un po’ di pidgin english, si consegna: si fa guidare per mano tra venditori ambulanti e poliziotti spietati, si lascia avviluppare dal caldo, dalle lunghe attese e dallo sfiancante go-slow del traffico di Benin City e Lagos, rischia di suscitare una rissa paradossale di fronte a una chiesa costruita da imprese italiane, sfida platealmente un fondamentalista islamico, sfiora un terribile e inquinatissimo insediamento di palafitte, osserva cadaveri abbandonati per giorni lungo le strade. Naturalmente il racconto è ricco di informazioni: sulle ragioni, sulle origini e sui modi della prostituzione nigeriana; sulla storia della Nigeria, sul suo assetto cleptocratico e sulla vocazione costantemente estrattiva della sua classe dirigente e dei governi occidentali; sui pregiudizi e sugli ipocriti moralismi che alimentano le più comuni idee sulla prostituzione tour court. Ciò che più convince, però, e in parte quasi stupisce, è che, al di là delle varie critiche, rampogne o invettive – che ci restituiscono ancora una volta il timbro inconfondibile di questa scrittura, dall’inclinazione costantemente abrasiva – Trevisan rievoca momenti personalissimi di autentica e disarmata autenticità. È una condizione che potrebbe dirsi anche felice. Cosi, ad esempio, si riscopre egli stesso quando commenta le foto sorridenti di uno sgangherato beach party africano; oppure quando il rapporto sessuale con una prostituta si trasforma in un gesto reciproco di compassione e di inaspettato e insospettabile abbandono. Sicché Trevisan, nel suo viaggio, anziché perdersi in un heart of darkness, si è guadagnato attimi di forte umanità e consapevole naturalezza. È quello che ha sempre cercato. E non c’è dubbio che questo è il modo migliore di ricordarlo.

Recensioni (di D. Brullo; di L. Vicenzi)

Vitaliano Trevisan: due ricordi (qui e qui)

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A Comisso torno con frequenza, quasi in ogni stagione. Un gatto attraversa la strada offre l’ennesima occasione per riconfermare le ragioni di una passione. Si tratta di una raccolta di racconti, vincitrice del Premio Strega nel 1955. È stata ripubblicata quest’anno da La Nave di Teseo, cui si deve il merito di aver intrapreso una sistematica riedizione delle opere dello scrittore trevigiano. Qui lo possiamo gustare al massimo delle sue abilità di narratore breve. Su queste capacità – vi si soffermano anche Guido Piovene (nel bel testo collocato come postfazione, prima della nota bibliografica di Nico Naldini) e Paolo Di Paolo (nella breve prefazione) – si è detto molto: che a Comisso basta un oggetto, una figura, un animale, un albero, uno sprazzo di mondo per imbastire subito una storia; che le sue storie sono dei proto-sillabari di un’Italia ancora “antica”, schizzi di persone e sentimenti semplici e spontanei, e modelli di certo e nobile riferimento per la scrittura futura dell’amico-allievo Goffredo Parise; e anche che il suo stile, a volte lineare e facilissimo, a volte più espressivo, e a volte ancora sorprendente (specie nelle apparenti anomalie, anche grammaticali, che qua e là si palesano) sembra corrispondere appieno – in un gioco di perfetta armonia tra forma e sostanza – al vitalismo inesauribile, e inesausto, che lo contraddistingue. E si potrebbe continuare. Ciò che più colpisce è la tecnica pittorica. Comisso, che di grandi artisti è stato amico, scrive come se dipingesse, utilizzando parole, frasi e ritmo come se fossero pennellate, istintive, uniche e immodificabili, aliene dalla consuetudine del ritocco ammiccante o ricercato. Quelli dei racconti sono schizzi naturalissimi. Talvolta assumono sembianze allegoriche, perché sintetizzano in modo paradigmatico la fisiologia, o l’esiziale patologia, di pulsioni elementari (come in Occhiali da sole o ne Il sospetto o ne L’ostessa maligna). Talaltra hanno un’implicita intenzione edificante, a suggello di messaggi profondi, ma anche a ritratto di un Paese che oggi non c’è più (esemplari La nuova padrona, Due soldati di regioni lontane, La prova d’amore). Non a caso, in qualche momento, lasciano anche trasparire nostalgia e solitudine, le vere coordinate emotive di questo bellissimo libro (evidenti in Un ingrato destino, L’ozio di Marco, La mano del controllore, Al mare). A tratti, invece, sanno essere ironici e quasi comici, perché ridicolizzano la vanità cui si appigliano certe piccole speranze, specie quando si fondano sul senso della propria, controllata autosufficienza (La disdetta di un timido; L’alpino solitario). Infine (e sono così gli ultimi otto pezzi) si rivelano allegramente libertini, se non licenziosi, in una specie di crescendo istintivo, cui l’Autore stesso non sa resistere. La chiave di volta di questo intreccio è scoperta più che mai: infatti, il racconto che dà il titolo alla raccolta è pienamente rappresentativo del mood dello scrittore. Comisso gioca con la più nota delle superstizioni per mettere nero su bianco, in modo apparentemente divertito, la reiterata frustrazione sensoriale cui è condannato. Meglio (o peggio…): cui non può che essere – o sentirsi sempre – condannato, perché la realtà che lo circonda e le esperienze che essa gli può dare, purtroppo, non sono più quelle di un tempo, né quelle che vorrebbe. È il Paese, certo, che, pur recando ancora tracce visibili di una realtà che fu, sta inesorabilmente cambiando. Soprattutto, però, è la giovinezza, con tutte le sue illusioni, ad essersene andata.

Recensione (di R. Carnero)

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Sono quattro i testi che compongono questo libro. Nel primo l’Autore gioca con i ricordi e con la tormentata vita sentimentale del giovane Stendhal. Ne ripercorre il tragitto durante la campagna d’Italia, al seguito di Napoleone. Si sofferma sul senso immediato di scoperta e su quello successivo, di endemico smarrimento, che lo scrittore prova, sia visitando il campo della battaglia di Marengo, sia di fronte alla reiterate insoddisfazioni amorose. Di questo racconto assume un valore centrale la rievocazione, quasi onirica, di un breve voyage, che Stendhal intraprende fino a Riva del Garda, al seguito di una delle sue numerose amanti. Nel secondo pezzo, invece, Sebald ricostruisce due peregrinazioni autunnali, da lui stesso compiute nel 1980 e nel 1987. In un caso narra del percorso che da Vienna, dopo una passeggiata in un borgo vicino con il poeta Ernst Herbeck, lo ha portato dapprima a Venezia, guidato sulle orme di Casanova da un misterioso veneziano di nome Malachio, e poi a Verona, dalla quale tuttavia è presto fuggito in treno verso il Brennero, assalito dall’inquietudine che alcune coincidenze sembrano avergli comunicato. Nel viaggio successivo, Sebald torna sui propri passi, ma svolge anche alcune digressioni: a Padova, a vistare la cappella degli Scrovegni; sulle tracce di Kafka, da Desenzano e lungo la costa orientale del Lago di Garda, fino a Limone, dove è ospite di una magnetica albergatrice e smarrisce il passaporto; e a Milano, dove si reca al consolato tedesco per ottenere nuovi documenti. A Verona soggiorna felicemente alla Colomba d’Oro, rivede i luoghi che lo avevano spaventato e si intrattiene a lungo con un cronista locale, alla ricerca della ragione delle sue originarie paure, per poi concludere con il ricordo del libro di Franz Werfel su Verdi, donato dallo stesso scrittore ad un Kafka oramai morente. Il terzo testo del volume è tutto su Kafka, in particolare su di un suo misterioso ed erratico itinerario, che nel 1913 lo ha visto partire da Vienna per Trieste, e poi risiedere per un qualche tempo a Venezia, ripartendo infine per Desenzano e Riva del Garda. Sebald si sofferma sul soggiorno di Kafka in una clinica sul lago e alla raffigurazione di un fatto tragico accaduto proprio allora sovrappone una storia inventata dallo stesso Kafka, dalla quale estrapola tutto lo struggimento dello scrittore per la sua esiziale incapacità di trovare l’amore. L’ultimo brano di Vertigini è intitolato Ritorno in patria ed è il prodotto di una reverie, che vede l’Autore raggiungere il suo paese natale, in Baviera, ai confini con l’Austria, e fermarsi nella medesima locanda in cui la sua famiglia ha vissuto per diversi anni. L’occasione gli offre la possibilità di scolpire biografie e disavventure di tanti e diversi personaggi del borgo, e di ricordare alcuni momenti salienti della sua formazione infantile. Il finale rientro in Inghilterra, a Londra, è motivo di nuove, portentose visioni e di una conclusiva conflagrazione, in cui esistenza individuale e universalità si confondono definitivamente.

Di Sebald, forse, tutti conoscono Austerlitz, il romanzo più rappresentativo. Molti avranno sentito parlare anche de Gli anelli di Saturno. O di Storia naturale della distruzione. Sono grandi libri, che hanno dato al loro Autore visibilità e riconoscimento internazionali. Vertigini non è da meno. Anzi, le prose che vi sono raccolte si possono dire esemplari del particolare metodo Sebald. Da un lato, è un metodo che per lo scrittore funziona un po’ come il metodo Stanislavskij per un attore. Sebald fiuta una via, un’occasione di redenzione, e la percorre con certosina pazienza e abbandono, come se fosse un copione, fidandosi degli indizi che gli possono dare le vite e le storie altrui. Il punto è che Sebald non si limita alla rappresentazione: si cala in quegli indizi, se ne lascia attraversare, si immedesima fino alla vertigine (per l’appunto), che è la porta per la comprensione di un grado di verità altrimenti non verbalizzabile, né (probabilmente) pensabile. Da un altro punto di vista, ma coerentemente con questa tendenza all’immersione esistenziale, il metodo Sebald è anche un metodo panletterario. Lo scavo della lettura e della scrittura impone lo scavo nello sguardo, sicché ogni soggetto letterario, potenzialmente, diventa medium dell’invenzione e della correlata esperienza redentrice. E ciò perché nel soggetto è possibile immaginare di ripercorrerre i tratti e di ricostruire la memoria della realtà, e dunque, così facendo, così fantasticando, di maturare le competenze necessarie a ricomporre la propria. L’esperienza diventa tanto più vertiginosa quando i livelli di lettura si sovrappongono, alludono l’uno all’altro, strizzano l’occhio all’osservatore e lo attraggono – in un gioco di allusioni e di richiami reciprocamente magnetici – nell’occhio di un ciclone. Che, da letterario, diventa concretissimo, perché è la concretezza delle emozioni ad averlo alimentato. In Vertigini i rimandi sono evidenti, molteplici e ammalianti: Stendhal e l’amore, in Italia e a Riva del Garda; Kakfa e la malattia, in Italia e a Riva del Garda; Sebald che viaggia come Stendhal e Kafka, e si stordisce di digressioni, di dettagli, di immagini, di oggetti (che, nel metodo Sebald, sono tipicamente riprodotti nel testo); Sebald nuovamente, che ripete il suo viaggio, perché, a quel punto, vuole “controllare meglio” i “fugaci ricordi” e “riuscire magari a mettere per iscritto qualcosa al riguardo”; e poi il ritorno a casa, quella delle origini lontane e in parte dolorose, e, nelle ultime pagine, quella che lo ha accolto, straniero a se stesso, alla sua stirpe e alla sua nazione. Ecco, leggere un libro di Sebald dà la sensazione che ci si possa conoscere e salvare ubriacandosi di letteratura. Sensazione bellissima.

Il culto di W.G. Sebald (di L. Coppo)

Sebald, l’ultimo romantico (di M. Freschi)

“Il ricordo ci dà le vertigini” (di V. Punzi)

“L’improvvisa incursione dell’irrealtà” (di C. Angier)

Un documentario su Sebald

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Per rappresentare il gesto dell’umiliazione più profonda, per ammettere i propri errori e ottenere la comprensione dell’avversario, andare – o venire – a Canossa è un’espressione diventata proverbiale. Sono in tanti, di solito, a ricordare che la sua origine è un famoso episodio di storia medievale, un momento notissimo della lotta per le investiture: l’atto di sottomissione e pentimento dell’imperatore di fronte al pontefice. Enrico IV, infatti, era rimasto esposto al freddo del rigido inverno del 1077, fuori dal castello di Canossa, in attesa del perdono di papa Gregorio VII, ospite della contessa Matilde. Ebbene, di quest’ultima ed enigmatica figura – di cui tuttora vi sono tracce visibili in chiese, monasteri e castelli disseminati tra l’Appennino modenese, la Garfagnana e la Lucchesia – sono in pochi a conoscere qualcosa. Con l’eccezione di Paolo Golinelli, che in Matilde e i Canossa – un testo di successo e più volte riedito – ricostruisce la genealogia, le politiche e il declino di una casata autorevole e forte, e capace di estendere la propria influenza su di un territorio assai ampio, dalla Toscana a Ferrara, da Modena, Parma e Mantova a Brescia e Verona.

Le fonti sono scarse (il riferimento, per lo più, è la Vita Mathildis del monaco Donizone, che è senz’altro “di parte”), ma l’Autore riesce a contestualizzarle, interpretandole con puntiglio e restituendoci scorci e letture affascinanti. Sul celebre avvenimento, ad esempio: per Golinelli, il vero vincitore, a Canossa, fu Enrico IV, che con la forza del suo esercito mise il pontefice sotto pressione e “strappò” un perdono che gli consentì di avviare un conflitto ancor più forte e decisivo. Ma le pagine più interessanti del saggio sono quelle che si riferiscono a fatti meno conosciuti, ai prodromi, per così dire, dell’epoca matildica: in particolare, all’origine quasi leggendaria della fortuna dei Canossa, con l’emergere nel X secolo di Adalberto Atto, allora vassallo del vescovo di Reggio, Adelardo, e ritrovatosi protettore di Adelaide regina d’Italia; poi alla graduale strategia – con Goffredo e Tedaldo – di alleanza sempre più stretta con la Chiesa e di espansione lungo il Po, con una fitta trama di operazioni immobiliari e fondazioni di nuovi monasteri (su tutti, quello di San Benedetto Po); e infine alla decisiva e ulteriore crescita, con Bonifacio, che si impone sul fratello Corrado e sposta il baricentro del dominio (ormai piccolo “Stato”) a Mantova, diventando anche signore della marca di Toscana, stringendo un’alleanza con l’imperatore Corrado II e sposando in seconde nozze Beatrice di Lorena. Da un certo punto di vista, è questo l’apice della grande stagione dei Canossa, che comincia ad entrare in crisi già con il misterioso assassinio di Bonifacio – che è il padre di Matilde – per qualcuno diventato troppo potente. 

Il saggio segue con spiccato piglio narrativo anche le vicende successive: il secondo matrimonio di Beatrice, con Goffredo il Barbuto, e la stretta alleanza con papa Leone IX; il conflitto con l’imperatore Enrico III, che rende prigioniere sia Beatrice, sia Matilde; il ritorno in Italia al seguito di papa Vittore II e l’inizio, nel corso delle successive elezioni papali, dell’escalation molto dura della contesa sulle relative prerogative imperiali. È in questo ambito che i Canossa, titolari del diritto all’accompagnamento dei pontefici, si conquistano un nuovo spazio di protagonisti, accanto ai più fieri portavoce della riforma ecclesiastica e, così, a fianco anche di Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII. Ed è sempre in questo contesto che Matilde emerge giovanissima, dovendo tuttavia affrontare ben presto la guerra con Enrico IV, l’erosione progressiva del dominio territoriale, la necessità di vendere gran parte dei suoi beni e di “donarli” alla Chiesa per salvarne l’integrità dinanzi ai rischi delle appropriazioni imperiali, la riconquista di feudi e città e la finale conciliazione con l’imperatore Enrico V. 

Il libro è ricco di tanti altri episodi e di passaggi curiosi: pittoresco quello sulle modalità della morte, insolita e atroce, di Goffredo il Gobbo, marito di Matilde; correttamente cauto quello sui discussi, “chiacchierati” rapporti tra quest’ultima e papa Gregorio VII; equilibrato quello sulla fatidica battaglia che Matilde avrebbe vinto vicino al Po contro l’esercito di Enrico IV. Non mancano, infine, alcune importanti digressioni: sul vero significato geopolitico della riforma ecclesiastica, ad esempio, e sull’intreccio tipicamente medievale tra sacro e profano; o sul rapporto tra il declino della grande feudalità e il risveglio delle città e delle comunità che le animano. Matilde e i Canossa, in definitiva, si può leggere in tanti modi: quasi come un romanzo, per le tante vicende di cui ripercorre i tratti salienti; come un saggio storico a tutti gli effetti, per apprezzarne il lavoro d’archivio e la capacità collegare il singolo tema con note di piccolo e grande contesto al contempo; ma anche come una specie di guida, per scoprire un Appennino ricco di tesori e tuttora parlante.

Un portale online interamente dedicato a Matilde di Canossa

Enrico IV a Canossa, secondo Alessandro Barbero

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