In un mite pomeriggio autunnale del 1980 Nicoletta Segafredo, guida turistica e moglie dell’anziano avvocato Dal Bianco, viene uccisa alla Rotonda del Palladio, a Vicenza. Di lì a poco, non lontano da Schio, affiora in un canale il corpo di un architetto vicentino, Riccardo Molinari, funzionario della Soprintendenza. I due casi si intrecciano ben presto, tanto che il maresciallo Piconese di Schio e il commissario Bonturi di Vicenza cominciano a collaborare. La trama della storia si palesa complessa sin dal principio. La guida e l’architetto si conoscevano, e si vocifera pure di una possibile relazione clandestina. Li aveva incontrati anche Giulia Sigismondi, una giovane e istintiva storica dell’arte, che sbarca il lunario come guida part time e traduttrice. L’architetto, in particolare, pareva assai interessato agli studi di Giulia, specialmente alla sua tesi sui preziosi disegni teatrali di Palladio, scomparsi nell’ordito di complicati passaggi tra nobili collezionisti, mercanti e faccendieri di tutta Europa. È forse un caso che attorno a Giulia ronzi minacciosamente la strana figura di un antiquario padovano che lei stessa aveva intravisto a casa di Molinari? Come se non bastasse, all’improvviso viene ucciso anche il custode della Rotonda. E nel frattempo il maresciallo Piconese e i suoi carabinieri sono distratti da un misterioso furto, avvenuto in una locale fabbrica di impastatrici. La scena – che è animata anche da altri personaggi – si articola tra escursioni e inseguimenti montani, da una parte, e sopralluoghi nelle campagne e nelle bellissime ville della pedemontana veneta, dall’altra. Tuttavia, più che la caccia a qualche inestimabile tesoro rinascimentale, è la sapienza pratica di Piconese a salvare capra e cavoli, e a lasciar correre quindi il romanzo verso un piacevole e familiare lieto fine.

La facilità di scrittura e il senso dell’intrattenimento propri di questo Autore non sono nuovi, come non lo sono la passione per la cultura della sua terra (v. qui e qui) e l’invenzione del maresciallo Piconese, già all’opera in altre precedenti avventure (v. qui e qui). Questa volta al centro dell’attenzione non c’è più l’epopea della gente cimbra (che pure continua a emergere in più di qualche pagina e figura). Il fuoco è tutto su Andrea Palladio, sulle sue ville e sull’epoca che ne ha visto sorgere e diffondere la fama. Nonostante il racconto abbia una sua apprezzabile autonomia, il libro gravita tutto attorno al fascino che ancor oggi sprigionano le opere del grande architetto. Di ciò è testimone l’ampia appendice informativa che si trova al termine del volume e sprona, quasi fisiologicamente, a cercare e compulsare I quattro libri dell’architettura. Si ha l’impressione, dunque, che Giallo Palladio altro non sia se non un divertito pretesto per introdurre e stimolare i profani a una traiettoria artistica straordinaria, e anche a farne esperienza diretta nella riscoperta degli insegnamenti del famoso costruttore vicentino e nella frequentazione degli spazi, dei colori e dei volumi del paesaggio veneto. In questo senso quella di Matino – e del suo editore – è una proposta intelligente, da assumere come primo stadio di un percorso progressivo: da intraprendere, dapprima, con la lettura alternata di un altro bel testo, illustrato, che sempre Biblioteca dell’Immagine ha preparato sulle ville venete; e da proseguire, poi, con lo studio del classicissimo e tuttora magnetico tomo di Giuseppe Mazzotti e, magari, infine, con una visita alla Biblioteca Marciana di Venezia, per gustare le vedute di Fra’ Vincenzo Coronelli. Soprattutto, Giallo Palladio si può tenere sottobraccio, vagando all’ombra di qualche barchessa e cercando un riparato angolo di verde per gustarne la bonaria e accogliente (ma per nulla scontata) semplicità.

Andrea Palladio secondo Philippe Daverio

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Negli anni Cinquanta Egidio Meneghetti pubblica alcune poesie, che vengono in seguito raccolte per i tipi di Neri Pozza, con il titolo di Cante in piazza, e infine riproposte per una collana delle Edizioni Avanti! in questo minuscolo, eppure densissimo, libretto, illustrato da Tono Zancanaro. Mi è stato donato, nell’approssimarsi del Giorno della Memoria, da un avvocato esperto, colto e sensibile, che non posso che ringraziare per il raffinato pensiero. Per chi non lo ricordasse, nel 1943 Meneghetti – autorevole farmacologo e antifascista – fonda con Concetto Marchesi e Silvio Trentin il Comitato di Liberazione Nazionale regionale veneto. Nello stesso anno perde la moglie e la figlia nel primo bombardamento di Padova. Il suo impegno nella Resistenza è fattivo e determinante. All’inizio del 1945 viene catturato e torturato, quindi imprigionato a Verona e poi spedito nel Lager di Bolzano, dove è liberato alla fine della guerra. Subito dopo verrà eletto Rettore dell’Ateneo patavino. Contribuirà a fondare l’Istituto Veneto per la storia della resistenza, presiederà il primo Centro nazionale per lo studio della chemioterapia, farà parte del Movimento federalista europeo, sarà membro del Partito d’Azione e poi socialista, continuando a fare politica. Diventerà anche accademico dei Lincei. Nel frattempo, però, rivelerà doti di poeta. Di grande poeta. La partigiana nuda e altre Cante racchiude quelli che non è azzardato definire come i suoi capolavori. Che potremmo definire consapevoli, visto che “soprattutto per mantenere aderenza con la più schietta anima popolare – che è stata anche l’anima della Resistenza veneta – si è usato il dialetto: il quale, per tale scopo, è davvero insostituibile”. È affermazione che si può sottoscrivere senza riserve.

I primi due pezzi (La partigiana nuda e Lager e l’ebreeta) sono potenti, strazianti. Nell’uno si raffigura, quasi in presa diretta, l’umiliazione di una donna partigiana, costretta a svestirsi davanti agli sgherri della banda Carità, insediata nelle stanze di palazzo Giusti, nel pieno centro di Padova. Le fonti d’ispirazione di Meneghetti sono reali e le sue parole, quasi in una pièce tragica, riescono ad opporre alla stolida violenza dei torturatori la fermezza semplice e autentica della torturata, che finisce per farsi sacra, nel senso più antico del termine. Nel secondo componimento – anch’esso radicato nell’esperienza diretta dell’Autore – si racconta di una giovane ebrea, oggetto delle attenzioni violente di Misha e Otto, i due aguzzini del campo di concentramento di Bolzano. La ragazza si lascia morire di fame, con un gesto di ricercato annichilimento, come unico modo per difendere ed esaltare uno spazio di dignità, piccola e al contempo immensa, che non può che essere tutta interiore. In questi primi due testi Meneghetti raggiunge apici che non è azzardato assimilare a quelli toccati da Louis Aragon o da Vercors. In La Rita more – che si pone al centro del trittico A mila a mila – riemerge l’omaggio intenso alla resistenza femminile e alle sue protagoniste. Ma qui funziona da perno per l’esplicita fondazione di una generale poetica della memoria (La vose ciama), in cui rimbomba, in un crescendo di allitterazioni ed espressioni onomatopeiche, anche la voce della fabbrica e del suo popolo (La fresa raspa). Successivamente, in Nele Basse veronese e La morte e la speransa, il tema popolare scorre verso una dimensione più autenticamente contadina. Da una parte (specie in Matina, ma anche in Note) questa traiettoria sembra precorrere le immagini fredde, umide e cineree che saranno della campagna di Ermanno Olmi. Dall’altra non fa che disegnare i contorni tipici di una irrefutabile cornice originaria, il limitare di un’esperienza storica e antropologica, che pur essendo segnata (come in Sera) da tante speranze tradite, personali e collettive, può sempre alimentare un riscatto, ché “fogo sprissa fora anca dal sasso / e se mantièn la brasa soto ‘l giasso”. Chissà se nelle pieghe del paesaggio e dell’anima veneti – tanto diversi, ormai, da quelli cantati da Meneghetti – brucia ancora questa fiamma.

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A Comisso torno con frequenza, quasi in ogni stagione. Un gatto attraversa la strada offre l’ennesima occasione per riconfermare le ragioni di una passione. Si tratta di una raccolta di racconti, vincitrice del Premio Strega nel 1955. È stata ripubblicata quest’anno da La Nave di Teseo, cui si deve il merito di aver intrapreso una sistematica riedizione delle opere dello scrittore trevigiano. Qui lo possiamo gustare al massimo delle sue abilità di narratore breve. Su queste capacità – vi si soffermano anche Guido Piovene (nel bel testo collocato come postfazione, prima della nota bibliografica di Nico Naldini) e Paolo Di Paolo (nella breve prefazione) – si è detto molto: che a Comisso basta un oggetto, una figura, un animale, un albero, uno sprazzo di mondo per imbastire subito una storia; che le sue storie sono dei proto-sillabari di un’Italia ancora “antica”, schizzi di persone e sentimenti semplici e spontanei, e modelli di certo e nobile riferimento per la scrittura futura dell’amico-allievo Goffredo Parise; e anche che il suo stile, a volte lineare e facilissimo, a volte più espressivo, e a volte ancora sorprendente (specie nelle apparenti anomalie, anche grammaticali, che qua e là si palesano) sembra corrispondere appieno – in un gioco di perfetta armonia tra forma e sostanza – al vitalismo inesauribile, e inesausto, che lo contraddistingue. E si potrebbe continuare. Ciò che più colpisce è la tecnica pittorica. Comisso, che di grandi artisti è stato amico, scrive come se dipingesse, utilizzando parole, frasi e ritmo come se fossero pennellate, istintive, uniche e immodificabili, aliene dalla consuetudine del ritocco ammiccante o ricercato. Quelli dei racconti sono schizzi naturalissimi. Talvolta assumono sembianze allegoriche, perché sintetizzano in modo paradigmatico la fisiologia, o l’esiziale patologia, di pulsioni elementari (come in Occhiali da sole o ne Il sospetto o ne L’ostessa maligna). Talaltra hanno un’implicita intenzione edificante, a suggello di messaggi profondi, ma anche a ritratto di un Paese che oggi non c’è più (esemplari La nuova padrona, Due soldati di regioni lontane, La prova d’amore). Non a caso, in qualche momento, lasciano anche trasparire nostalgia e solitudine, le vere coordinate emotive di questo bellissimo libro (evidenti in Un ingrato destino, L’ozio di Marco, La mano del controllore, Al mare). A tratti, invece, sanno essere ironici e quasi comici, perché ridicolizzano la vanità cui si appigliano certe piccole speranze, specie quando si fondano sul senso della propria, controllata autosufficienza (La disdetta di un timido; L’alpino solitario). Infine (e sono così gli ultimi otto pezzi) si rivelano allegramente libertini, se non licenziosi, in una specie di crescendo istintivo, cui l’Autore stesso non sa resistere. La chiave di volta di questo intreccio è scoperta più che mai: infatti, il racconto che dà il titolo alla raccolta è pienamente rappresentativo del mood dello scrittore. Comisso gioca con la più nota delle superstizioni per mettere nero su bianco, in modo apparentemente divertito, la reiterata frustrazione sensoriale cui è condannato. Meglio (o peggio…): cui non può che essere – o sentirsi sempre – condannato, perché la realtà che lo circonda e le esperienze che essa gli può dare, purtroppo, non sono più quelle di un tempo, né quelle che vorrebbe. È il Paese, certo, che, pur recando ancora tracce visibili di una realtà che fu, sta inesorabilmente cambiando. Soprattutto, però, è la giovinezza, con tutte le sue illusioni, ad essersene andata.

Recensione (di R. Carnero)

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Il protagonista di questo romanzo è l’ultimo rampollo dei Cimamonte, un’antica casata nobiliare. È un giovane adulto che ancora non sa che cosa fare veramente della sua vita. Decide di vendere il palazzo avito e lasciare la città di Berua. Si trasferisce a Vallorgana, la vicina località montana da cui la gloriosa storia di famiglia ha preso le mosse nel XIII secolo e in cui si trova ancora una grande villa. La gente del paese lo chiama Duca, anche se a rigore il suo titolo sarebbe quello di Conte. Per quanto cerchi un dialogo diretto e ispirante, e liberatorio, con la natura che lo circonda, il Duca è inquieto, attratto com’è, in modo irresistibile, dalle vicende della sua stirpe. Da un lato questo sentimento è risvegliato dalla lettura assidua di vecchie carte che sono stipate in un misterioso studiolo e di una suggestiva Chronica, che ripercorre alcuni secoli di avventure, soprusi e disgrazie dei Cimamonte. Ma, oltre a ciò, nel Duca la tensione, quasi violenta, a riscoprirsi degno e risoluto discendente di una stirpe mai domita è risvegliata anche dalle temibili manovre di Mario Fastreda, un allevatore particolarmente influente. A nulla vale la presenza saggia di Nelso Tabiona, fido e abilissimo boscaiolo. Né pare determinante, almeno in prima battuta, l’apparizione della bella e intelligente Maria, che pure stimola, nel Duca, sensazioni insperate. Fastreda, del resto, condiziona e controlla tutto il paese, e ha occupato proditoriamente una parte dei boschi dello stesso Duca. È così che si scatena rapidamente una vera e propria faida, in un crescendo di emozioni ed eventi, di macchinazioni e accuse, di scoperte e colpi di scena, fino a quella che si potrebbe definire l’illuminazione conclusiva: che dà ragione di un antagonismo apparentemente inspiegabile e apre la via, per il Duca, ad un futuro che è tanto segnato quanto definitivamente scelto.

Matteo Melchiorre è, da tempo, un autentico aedo dei luoghi, della loro energia pedagogica. Sa quanto siano importanti, se non – addirittura – esistenzialmente decisivi. Il suo percorso di scrittore – da La banda dell’autostrada Fenadora-Anzù a La via di Schenèr fino a Storie di alberi e della loro terra (il testo più bello) – lo prova appieno e Il Duca ne è una conferma ulteriore, forgiata, questa volta, in una forma letteraria forse più riconoscibile e meglio spendibile. Occorre chiarire subito che, a rigore, proprio la forma letteraria in questione penalizza un po’ il valore del libro. Ha la tipica progressione lineare che induce il lettore ad attendersi evoluzioni e sorprese, che però sono, rispettivamente, lente e talvolta prevedibili (come lo è quella che porta il Duca a capire chi è veramente Fastreda: già prima della metà del libro, il sospetto emerge di forza propria). Nonostante ciò Il Duca è romanzo che si distingue per tre virtù. La prima è la lingua. Non vi sono invenzioni particolarmente eclatanti, ma l’incrocio tra la costanza di un tono assai compassato e stilisticamente nobile e la diffusa contaminazione con espressioni italianizzate della tipica parlata della Valbelluna (il luogo dell’Autore) esalta il tempo magico del racconto. La seconda virtù è il modo con cui si propongono il bosco, la montagna, gli elementi (come la tempesta Vaia, ad esempio). Non sono idealizzati, sono rappresentati nella loro normale ambivalenza: se diventano riferimenti, per così dire, morali, ciò accade per via delle interazioni – positive o negative – cui uomini e donne possono dare sostanza. La terza virtù de Il Duca è che la sua pubblicazione conclama di per sé il consolidamento, nel salotto buono dei bestseller, di una famiglia di solidi scrittori veneti di terra (come Matteo Righetto, Paolo Malaguti e, per l’appunto, Matteo Melchiorre), che sul motivo delle radici sanno costruire i più vari percorsi narrativi, senza mai allontanarsi dallo spirito che li muove.

Recensioni (di R. Barilli; di L. Oliveto)

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Il romanzo segue, a capitoli quasi alternati, le vicende di Giulio Drigo e Marco Sberga, due giovani artisti trevigiani dietro i quali si nascondono personaggi reali (da un lato, Comisso stesso, suo cugino Nino Springolo e lo scultore Arturo Martini, come fusi in un unico individuo; dall’altro, il pittore Gino Rossi). Prima dello scoppio della Grande Guerra, i due, pur essendo alfieri di approcci differenti, ambiscono ad essere protagonisti di un’arte completamente rinnovata, in polemica con le esposizioni biennali di Venezia. Entrambi si innamorano e si sposano con grande entusiasmo, ma il conflitto interrompe il loro confronto ideale, li separa dalle consorti e li porta al fronte: l’uno diventa ufficiale, viene ferito, ma si salva; l’altro combatte da semplice fante ed è fatto prigioniero. Drigo avvia apparentemente una nuova vita con la giovane moglie, con cui si trasferisce in campagna, speranzoso di tornare a dipingere, e di farlo con una piena e autentica adesione alla verità della traboccante natura che lo circonda. Presto, però, è costretto a tornare in città e ad adattarsi a conciliare la sua arte con le più semplici istanze della vita quotidiana. Viceversa, Sberga, già consumato dalle privazioni, apprende che la moglie lo ha abbandonato ed è costretto a vivere con la madre, in una condizione umiliante, nella quale, pur continuando a immaginare nuovi itinerari artistici, finisce per alienarsi del tutto. Verrà ricoverato in un locale manicomio, dove Drigo, sorpreso, lo incontrerà per l’ultima volta.

Concepito e scritto nel 1934, I due compagni non è stato incluso nel Meridiano che quasi vent’anni fa Mondadori ha confezionato con la curatela di Rolando Damiani e Nico Naldini. Si è trattato di una bocciatura? Quella, per espressa determinazione dei curatori, è stata una ponderata scelta programmatica: voleva offrire un itinerario che potesse dare l’idea del canone comissiano; e per rappresentare un canone (qualsiasi esso sia) occorre sempre selezionare, per definizione. È anche vero che I due compagni è sicuramente classificabile come un lavoro minore. Ma leggerlo, specie dopo le opere più note e acclamate, consente di valorizzarne una particolare caratteristica, a suo modo pre-canonica: rappresenta, infatti, l’anticamera del Comisso più maturo. Naturalmente ci sono molti altri motivi per evidenziare l’importanza del romanzo. Il primo: diversamente da Giorni di guerra, ed in modo pertanto inedito per Comisso, ne I due compagni il conflitto appare nel suo lato più drammatico, spaesante e doloroso; ragione che spiega i tagli, selettivi, ma significativi, voluti dalla censura fascista, dei quali Isabella Panfido dà puntuale testimonianza nella preziosa postfazione. Poi c’è un altro fattore di interesse: la rievocazione di due figure rilevanti (Gino Rossi e Arturo Martini) e la messa in scena di un confronto tra due opposte concezioni dell’arte e del rapporto tra arte e realtà. Tuttavia un’impressione si fa irresistibile: che ne I due compagni Comisso – che istintivamente parteggia per Sberga, ma teme di abbandonarsi alla necessità di essere anche Drigo – sceglie di descrivere un conflitto tutto interno alla sua formazione, e di affrontare il disincanto e la solitudine immergendosi nell’unica empatia che non lo ha mai tradito, quella dell’esplosivo e vibrante paesaggio pedemontano, il vero e onnipresente protagonista del libro. È in questa prospettiva che I due compagni costituisce il piccolo abbozzo, quasi in forma di sceneggiatura, di un percorso estetico che ne La mia casa di campagna sarà destinato a farsi anche scelta di vita.

Commiato a Gino Rossi (di Giovanni Comisso)

Nella casa di Arturo Martini (di Giovanni Comisso)

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Il 29 gennaio 1996 il Teatro La Fenice di Venezia è stato devastato da un rogo di matrice dolosa: un incendio appiccato da due giovani cugini, Enrico Carella e Massimiliano Marchetti, rispettivamente il titolare e un dipendente di una delle ditte che avevano in subappalto parte dei lavori di manutenzione del prezioso complesso. La ditta era in ritardo nell’ultimazione di ciò che avrebbe dovuto realizzare e pertanto si sarebbe trovata costretta a pagare una penale molto onerosa; troppo, per un imprenditore del tutto inesperto, viziato e inguaribilmente e costantemente pieno di debiti. E così il fuoco è sembrato l’unica soluzione, la fonte di una liberazione, come lo è anche per il protagonista del Padiglione d’oro di Mishima. Il parallelo rivela che con questo libro Giorgio Falco non si limita a raccontare la storia di un delitto. Ne studia e analizza – con intento autoptico – gli antefatti, le motivazioni, la progettazione e il contesto. Ma fa anche di più. Scava nella profondità del tipo antropologico e del modello socio-economico che hanno prodotto il drammatico evento. Una volta ricostruita, la genealogia della distruzione di un patrimonio tanto grande non è altro che il simbolo perfetto di una crisi e di una mutazione terribile, conclamata e apparentemente inarrestabile. Questo è anche il senso del titolo, perché tecnicamente, nel linguaggio dei pompieri, il flashover non è altro che la fase dell’incendio generalizzato, che segue all’ignizione e alla propagazione; è lo stadio in cui “tutti gli elementi bruciano all’unisono, il fuoco raggiunge la totalità delle superficie disponibili, ogni cosa non si rivela per come appariva pochi minuti prima, ma in quanto fuoco”. Quale sia la benzina di questa irresistibile transizione infuocata non è un mistero. La si afferma e metabolizza ripetutamente nelle riflessioni o divagazioni, molteplici, che fanno da intermezzo alla ricostruzione dei fatti, e nell’affondo conclusivo, dove si rivela anche il motivo del corredo fotografico di Sabrina Ragucci, che punteggia il volume sin dalle sue prime pagine. È la forza del capitale, della sua intrinseca vocazione profondamente sociale e culturale, della sua capacità di alimentare i desideri e di appagare le voglie di una borghesia che non è più confinabile in una classe definita, ma diventa paradigma condiviso di ricerca e consumazione assuefatte di un benessere illusorio e patogeno. È una corrente capace di plasmare le anime, di fornire loro qualsiasi alibi e ogni possibile strumento di autoconsunzione, di omologare e mascherare ogni individuo, e di nutrirsi delle sue macerie e di quelle che essa stessa produce. Il messaggio di Falco – pur scritto benissimo – non è certo nuovo e rischia di riuscire retorico, se non banale, e di suonare venato da un po’ di ressentiment. Certo, ha il coraggio di guardare dritto nel fuoco e nelle sue ceneri. Prova a dimostrare – come in un caso di scuola – che col capitale, definitivamente incarnato, o meglio combusto, non ci sono alternative facili; e mette in scena i movimenti di un’infezione psicologica collettiva, che ha molto a che fare con l’autobiografia del Paese, anche se risponde a logiche globali. Se c’è un punto, però, in cui quest’analisi risulta in difetto è nel fatto che in essa manca la sottolineatura specifica della grande e diffusa ignoranza che alimenta il fuoco. Non c’è dubbio, comunque, che Flashover, assieme ai romanzi di Bugaro e Maino, aggiunge un altro tassello alla composizione del quadro veneto contemporaneo, che nel passaggio tra i due secoli, purtroppo, assume veramente, e drammaticamente, il ruolo di guardia avanzata della nazione.

Recensioni (di S. Colangelo; di A. Cortellessa; di G. Galofaro; di N. Porcelluzzi; di G. Raccis; di D. Ronzoni)

L’Autore a Fahrenheit

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In un’isola vive un vecchio pescatore. Ma non è una favola per bambini. È il contesto di un’oscura, tragica rappresentazione, nella quale la voce narrante si rivolge direttamente al protagonista del racconto, per rendergli del tutto cosciente il suo inevitabile e irredimibile destino di dannato. Il vecchio, infatti, non è un personaggio positivo. Dopo la scomparsa della moglie, maltrattata e picchiata per tutta la vita, e infine morta per una grave malattia, segue pervicacemente una routine che lo ha portato a un abbrutimento definitivo. Pesca in astiosa solitudine nelle acque che ha contribuito a inquinare; beve e bestemmia nella bettola in cui si riuniscono i relitti umani dell’isola, ormai svuotata della sua originaria comunità; odia, ricambiato, tutti i suoi vicini, il parroco e il sindaco, e naturalmente anche i turisti, che irrompono sgraditi e chiassosi nel fine settimana; disprezza anche gli unici parenti che gli sono rimasti e che, non a caso, vivono sulla terraferma. L’Autore – la voce narrante – lo aiuta a capire il perché della sua condizione: lo guida, cioè, in un processo di riflessione, che ripercorre, in crescendo, episodi salienti del suo passato e gli rivela in questo modo, passo dopo passo, la sua violenza e il suo egoismo, le grandi colpe di cui si è macchiato e la ragione assoluta – di giustizia quasi divina – dell’esperienza di costante consunzione in cui la vecchiaia lo costringe a sopravvivere.

Un primo modo di leggere questo libro è immaginare che la voce narrante non sia quella dello scrittore, ma quella di Dio, che chiede a Caino dov’è suo fratello. Di quale delitto si è macchiato il vecchio? Perché è condannato a vagare disperatamente per l’isola, reietto tra i reietti, allo stesso modo di come Caino è stato condannato a vagare errabondo sulla terra? Va osservato che l’isola, per Frizziero, è innanzitutto l’Isola; un’entità maiuscola, che ha una dimensione universale, a significare il confine compiuto del mondo nel quale il vecchio / l’uomo è costretto e su cui può colpevolmente consumarsi nel suo odio. Da questo punto di vista, nel romanzo c’è un che di infernale, nel senso dantesco. Si può anche intravedere un altro modo di leggere la storia dell’Isola, dietro i cui pochi, riconoscibili lineamenti pare di scorgere un’isola vera e propria, quella di Pellestrina, nella laguna veneta. L’isola, quindi, riflette anche un’altra immagine, tutta reale: di un arcipelago in stato di graduale abbandono e spopolamento; un luogo di occasioni e di esperienze perdute, la cui umanità, lasciata a se stessa, non può che tradurre, nei pensieri nostalgici, nelle aspirazioni retrospettive e nei gesti ripetuti di ogni giorno, un radicale svuotamento morale. Sensazioni che nulla hanno a che fare con quelle che dall’insularità aveva ricavato Paolo Barbaro, in racconti carichi di suggestione. In questo scenario, poi, a guardar bene, il soggetto negativo non è soltanto il vecchio. Anche gli altri attori non si distinguono, incarnando le stereotipiche deformazioni di un paesone triste, in disarmo sociale ed economico, rispetto alle quali persino il vecchio manifesta un qualche senso critico. Tempo fa, con stile e tono molto diversi, Francesco Maino ci ha raccontato lo sgretolamento di un pezzo di Veneto, altrettanto afferrabile; oggi Sandro Frizziero – che con questo lavoro corre giustamente per il Campiello – ci offre un’altra istantanea del comune decadimento, sempre amara e non meno disperante.

Recensioni (di G. De Rinaldis; di G. Mecca; di F. Ottaviani)

La presentazione del libro, firmata da Tiziano Scarpa

Con l’Autore, sui luoghi del romanzo

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“Io vivo di paesaggio, riconosco in esso la fonte del mio sangue”. Le parole di Giovanni Comisso, uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano, spiegano da sole la ragione dell’approfondimento che in questo libro è compiuto. Se Comisso è il suo paesaggio, allora è attraverso quel paesaggio – facendone esperienza diretta – che Comisso va letto e compreso. Nicola De Cilia, dunque, intraprende proprio quest’indagine, e lo fa in senso cronologico. Segue innanzitutto il trasloco della famiglia Comisso dalla periferia al centro di Treviso: cammina nei vicoli di oggi, alla ricerca di un’abitazione distrutta nella seconda guerra mondiale e di un’atmosfera che pur non esistono più, e del laboratorio che ha forgiato, come una camera oscura, le primitive proiezioni e la peculiare sensualità artistica e corporea dello sguardo del giovane futuro scrittore. Poi l’itinerario continua sul Piave, a Onigo, alla scoperta del paradiso terrestre di luci, di acque, piante e calde sabbie che hanno impresso al Comisso adolescente una insopprimibile vocazione panica ed erotica, fatta del desiderio continuo di amicizie complici e di ozi giocosi nell’abbraccio della natura. De Cilia, allora, ci conduce anche nelle retrovie della grande guerra, l’occasione imperdibile di un’avventura vera a tutto tondo. Comisso, però, almeno prima di Caporetto, la vive a lungo nell’incantamento delle retrovie, tra i colli e le terre coltivate del Veneto orientale e del Friuli, lungo i fiumi in cui rivivere trasognato le immagini e le sensazioni delle scorribande dell’infanzia. La rincorsa all’ebbrezza continua a Fiume e poi nell’Adriatico e a Chioggia, per addentare concretamente l’ideale di una vita completamente dedita al divenire costante e alla contemplazione delle stelle. L’Autore si aggira tra il Carso e la Slovenia, la Croazia e la laguna veneta, per sentire la scena che fu, per lasciarsene emozionare e ispirare. Così avviene, poi, anche nella campagna trevigiana, a Zero Branco, dove c’è ancora la casa che lo scrittore ha tanto amato, l’ombelico del mondo finalmente calmo e primigenio cui Comisso amava tornare sempre, nonostante i tanti viaggi. Il volume si chiude tra la descrizione delle ultime dimore cittadine dello scrittore e della sua tomba, da un lato, e una “chiusa” tutta critica, sul Comisso di Zanzotto e di Parise, e sul senso specifico – sulla inevitabilità metodologica – del “viaggio letterario” che l’Autore ha percorso.


“Senza la pianura trevigiana, con i fossi come vene, i monti che sfumano azzurri, il cielo tiepolesco che riflette la luce lagunare; senza il retroterra dialettale e la presenza dei contadini, con la loro ostinazione e devozione, Comisso non avrebbe dipanato, io credo, quel limpido e indeformabile canto poetico che ne contraddistingue la scrittura” (pp. 213-214). È una conclusione del tutto condivisibile. De Cilia – che sempre per i tipi di Ronzani ha anche compilato, poco tempo fa, una serie di ritratti carismatici di classici autori veneti – riesce a giustificarla molto bene, portando per mano il lettore in un’immersione sentimentale pienamente riuscita. E ciò proprio sottolineando e valorizzando il “privilegio d’ambiente” di cui parlava Zanzotto, perché – nonostante l’attuale “progresso scorsoio“, di cui scriveva sempre il grande poeta di Pieve di Soligo – c’è stato, e talvolta lo si intravede ancora, un Veneto perfetto: l’Arcadia della quale Comisso, il più ellenico dei maestri, ha forgiato il suo marchio inconfondibile. Il meglio del meglio, quindi, non è leggere De Cilia; è leggere direttamente Comisso, atto per il quale, tuttavia, questo libro rappresenta una guida imperdibile. La decisione è facile e rapida da prendere: si può cominciare da un titolo qualsiasi e non si sbaglia mai. Delle bellissime Satire italiane e dell’ispirato La mia casa di campagna si è già detto. Ma tra Longanesi e Neri Pozza – e l’ottimo Meridiano curato da Rolando Damiani e Nico Naldini – c’è solo l’imbarazzo della scelta: Giornale di guerra, Mio sodalizio con De Pisis, Il porto dell’amore… La Nave di Teseo, da ultimo, sta avviando la ripubblicazione di tutte le opere, a partire da Gioventù che muore. Che cos’è che fa grande Comisso? L’intuitiva sapienza del rapporto necessario tra micro e macro-cosmo; il che significa il presupposto esistenziale della piena coerenza tra il soggetto della scrittura e il suo oggetto, così come riflessa nella naturalezza e spontaneità dello stile. È per tale ragione che la lingua di Comisso è pulita e lineare: è uno standard, al quale – al di là delle pochissime concessioni a qualche vezzo un po’ snob – ci si può tuttora accostare, e accordare, senza timore.

Un estratto del libro

Un ritratto di Giovanni Comisso

Il Veneto felice di Comisso

Sui luoghi degli scrittori veneti

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Albecom è una ditta che si occupa di programmazione informatica e ha sede in prossimità di Venezia, a Marghera, nel parco scientifico tecnologico “Vega”. È stata fondata da Alberto Casagrande, oggi trentenne, che ne ha fatto un’azienda leader nel settore della costruzione di siti per la vendita online: il fatturato è in crescita e i giovani nerd che ci lavorano sono dinamici e infallibili. Poi c’è Luciano, amico dei tempi del liceo e complice originario di questa avventura: è timido, ipersensibile, ma è anche il geniale risolutore di ogni problema tecnico. GDL, invece, è lo smaliziato commerciale, vincente e sempre in viaggio. La vita dei nostri protagonisti, così apparentemente assestata, sembra trascorrere in naturale e irriducibile sinergia con l’anodina cornice post-industriale della terraferma veneziana. Tuttavia sta per succedere qualcosa. L’imprenditoria del web è molto liquida, si sa, e GDL ha progetti molto ambiziosi. Anche Alberto sta pensando in grande, a prestigiose commesse e a una nuova sede da allestire. Nel frattempo Luciano si invaghisce ingenuamente di Matilde, cameriera del bar Incrocio, sedotta e abbandonata da un altro dipendente di Albecom, fuggito al servizio di un’altra società. Tra fiere internazionali, tradimenti estemporanei e affari spericolati, mentre GDL porterà avanti risolutamente il suo disegno, la spiata accidiosa di un architetto di Trebaseleghe spingerà Alberto a vederci chiaro e a dare un senso più concreto e maturo a tutti i suoi sforzi. Quegli sforzi che Luciano deciderà di non fare più, per vivere anch’egli in modo più sereno.

Il romanzo che ha portato Targhetta nel grembo di una Major dell’editoria nazionale può sembrare riuscito soltanto a metà. Il canovaccio, infatti, è debole, perché la caratterizzazione dei protagonisti è così insistita che i loro destini sono segnati sin dal principio. Non ci sono grandi sorprese. Si assiste a un graduale risucchio in una normalità composta e reale, domestica e prevedibile, e forse anche auspicabile. A dimostrazione, probabilmente, che si può lavorare e cominciare a vivere, in modo del tutto scontato, anche a Nordest, ed anche nelle pieghe di quel paesaggio pre-lagunare in cui l’inorganico e l’abbandono hanno preso il sopravvento. Targhetta è fortissimo proprio nell’efficacia delle descrizioni di contesto. È qui che si nasconde il cuore del libro, come se, con quelle descrizioni, l’Autore volesse raggiungere l’obiettivo di far rivivere ai suoi lettori la stessa trasformazione emotiva dei suoi personaggi – diventare ciò che si è – ma non per il tramite di un processo di immedesimazione. Il medium è l’immersione in una suggestione malinconica, che impregna tutta l’atmosfera del racconto e che ben rappresenta lo stato che tipicamente avvolge chi, prestandovi attenzione, abbia l’occasione di sperimentare la surreale potenza sfibrante del backstage produttivo dell’odierna Serenissima. È lo stesso scenario – tutti luoghi reali, realissimi… – in cui si muovono con successo, da qualche anno, anche altri scrittori, come Francesco Maino e Romolo Bugaro. Targhetta, tuttavia, non lo fa con la disperata e passionale pervicacia del primo, né con l’affilata, fredda e drammatica denuncia del secondo. Attinge alla poesia e alle grandi possibilità archeologiche che le parole e le immagini giuste possono offrire a chiunque si proponga di esplorare davvero il proprio animo. Così facendo, ci prova che il Veneto smemorato e disintegrato della dismissione non è soltanto il teatro di uno sfacelo, e che il suo paesaggio, sintonico e proverbiale (guanto rovesciato di quello zanzottiano, ma pur sempre guanto…), può continuare a salvarci.

Recensioni (di Enzo Baranelli; di Eleonora Barbieri; di Raoul Bruni; di Sara D’Ascenzo; di Oriana Mascali; di Lara Marrama; di Nicolò Porcelluzzi)

I precedenti di Targhetta: Fiaschi e Perciò veniamo bene nelle fotografie

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Il vecchio è accompagnato da una ragazza e da un cane. Ha una meta precisa, vuole raggiungere Scano Boa, l’ultima isola sabbiosa tra la foce del Po e il mare. Lì potrà darsi alla pesca dello storione, per guadagnare al più presto i soldi che servono a pagare la multa che trattiene il figlio in prigione. È per questo che si è portato dietro la nipote, Flavia; per conservare ciò che gli resta di una famiglia che sembra sfuggirgli. Il guardiano del faro gli dà una mano, per cominciare. La sua determinazione è rabbiosa, e la fatica, le privazioni e l’ostilità degli altri pescatori non sembrano poterlo ostacolare. Trova un aiutante, il mulatto, e alcune catture vanno anche a buon fine. Lo domina, però, un’ossessione integrale, che finisce per allontanargli definitivamente anche Flavia e il giovane aiutante. In tanti non lo capiscono, perché sanno che la sua è un’ostinazione senza speranza e autodistruttiva. Il vecchio sa bene di che cosa si tratta: “non è che noi siamo cattivi, ma sono piuttosto le cose a renderci crudeli”. È una sfida con il fato che la vita gli ha riservato, una lotta con la fortuna e con la violenza degli elementi, la scarsità dei mezzi e la debolezza dell’età, una missione che si illude di poter compiere solo su quel terreno, di naufragio in naufragio, di umiliazione in umiliazione, fino ad una resa tragica e quasi scenografica. Con un riposo che pare essergli negato anche dopo la morte.

Cibotto se n’è andato l’estate scorsa, mentre ero preso da un trasloco. Ho cercato Scano Boa subito, per risentirne a caldo la voce, la corrente, e per lasciarmi commuovere. Ma tra gli scatoloni non l’ho più ritrovato. L’ho ricomprato usato qualche settimana fa, in questa piccola edizione tascabile, e l’ho apprezzato ancor più di quanto non avessi fatto alla prima lettura. Un Grande Veneto, Cibotto; innamorato della sua terra come lo sono stati Comisso, Parise e Zanzotto. Ma anche un grande talento epico, che tra Melville, Faulkner e Caldwell non sfigura. Il suo vecchio pescatore è come il capitano Achab; il Delta del Po è l’orizzonte di una lussureggiante e fagocitante Yoknapatawpha di acqua, di limo e di vento, proiettata verso il mare; e gli altri personaggi, tutti, sono le comparse di un ecosistema che le vuole costantemente nel loro destino, eterno e per ciò vincente, di povertà, di cinismo, di lotta e di inevitabile sconfitta. Poi, però, c’è il valore aggiunto della poesia, del senso plastico dell’immagine, di quel tanto di lucreziano istinto, passionale, che nell’anima di ogni scrittore padano è sorprendentemente innato, e che sa sempre promuovere un racconto a sceneggiatura toccante e suggestiva del valore morale della Natura, della sua impetuosa indifferenza e delle gesta disperate di chi la vive fino in fondo. Del resto, da Scano Boa – che come luogo, selvaggio ed evocativo, esiste veramente, come il faro di Pila – sono stati tratti due film, uno nel 1961 e uno nel 1996, anche se solo Lattuada (o il De Santis di Riso amaro) avrebbe potuto trarne spunto per un vero capolavoro neorealista. A pensarci bene, questo romanzo di Cibotto è più forte de Il vecchio e il mare di Hemingway, perché davvero non arretra mai, neanche al suo epilogo, ed è proprio bello immaginare che, forse, anche il grande Nobel nordamericano ne avrebbe amato l’estrema sincerità.

Una recensione

Un ricordo di Cibotto

La voce di Cibotto nel suo mondo

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