L’Autrice di questo piccolo saggio è una nota e autorevole studiosa dei diritti dell’antichità. Che ha deciso di affrontare senza molte cerimonie un argomento potenzialmente scomodo, ossia la relativizzazione, o contestualizzazione storica, dell’Antigone di Sofocle. D’altra parte, nei secoli, il personaggio Antigone è diventato un mito a tutti gli effetti: un modello di resistenza all’abuso del potere; un’icona delle garanzie dei diritti fondamentali e, come tali, irrinunciabili; un’eroina univocamente simbolica e indiscutibile. Lo aveva ricostruito bene, da par suo, George Steiner, in un volume che funge da base forte anche per Eva Cantarella. Quindi non è cosa facile restituire la famosissima tragedia alla sua primigenia complessità; a un livello di lettura, cioè, nel quale le parti risultano più equivoche di quanto siamo stati abituati a pensare. In quest’ultimo senso, però, la tesi dell’Autrice non fa sconti: “Antigone era un’individualista, per la quale la polis non contava, non esisteva; per Creonte, dunque, era la personificazione dell’inconcepibile, dell’intollerabile, un pericolo inaccettabile” (p. 82). E ancora: “L’Antigone del mito non è una lettura ‘diversa’, è il travisamento del personaggio di Sofocle, è la sua trasformazione in un personaggio altro, operato in chiave antilluminista dal romanticismo letterario e filosofico” (p. 102). Per giungere a queste affermazioni, Eva Cantarella compie diverse operazioni: ricostruisce la collocazione dell’Antigone nella trilogia (tebana) cui appartiene; contrappone la figura dell’eroina ai lineamenti di altri personaggi, come la sorella Ismene o il marito Emone (figlio di Creonte); spiega il senso dell’ideologia e della prassi funerarie nella Grecia antica, con precisi commenti ad alcune famose pagine dell’Iliade; e infine illustra le perduranti inclinazioni sociali alla vendetta nell’Atene del V secolo, evidenziando proprio in questo frangente la prospettiva da cui interpretare correttamente l’opera sofoclea. Che non assume per principio una parte rispetto ad un’altra e che, viceversa, ammonisce sugli eccessi che possono mettere a rischio la città e le sue leggi, presidio di ogni possibile convivenza. Non c’è che dire: di questi tempi, non si tratta soltanto di un (condivisibile) invito all’intelligenza intrinseca dello studio più accuratoè un richiamo alla phronesis e alle sue (attualissime) declinazioni civili.

Recensioni (di A. Ambrosio; di P. Buttafuoco; di D. Fusaro)

Interviste all’Autrice: qui e qui.

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Francesco “Cesco” Magetti è un militare della Repubblica di Salò. Fa parte della guardia nazionale repubblicana ferroviaria, di stanza ad Asti. Il suo superiore gli ordina di trovare una carta ferroviaria del Messico. Nel pieno del freddo e malinconico  clima di disfacimento totale del febbraio 1944 la consegna suona in modo surreale. Dove mai si potrà trovare una mappa del genere? E Cesco, poi, ha anche un terribile mal di denti. Ad ogni modo la ricerca comincia, a partire dalla biblioteca comunale. Dove Cesco incontra l’enigmatica Tilde, viene a sapere che esiste una Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México e che questo fantomatico libro è in prestito. Da qui in avanti si avvia l’inseguimento di Cesco, la cui storia si accavalla con quella, al fine, tragica di Tilde; con quella, quasi fantastica, di Lito Zanon e del suo amico Mec, costruttori giramondo di reti ferroviarie; con quella di Ettore e Nicolao, strani frequentatori di un altrettanto misterioso night clandestino; con quella di un cartografo samoano trapiantato in Piemonte; con quella degli amici di Cesco, che si sono fatti disertori e partigiani; con quella della burocratica e surreale catena di comando che dal Führer è arrivata fino ad Asti, per disporre la caccia alla mappa ferroviaria; con quella di Steno, che si era promesso a Tilde e che si dà alla macchia; con quella di Gustavo Baez, l’autore del volume tanto agognato; con quella della povera Giustina, giovanissima prostituta, barbaramente condotta alla morte; con quella di don Tiberio, disperato parroco di Roccabianca… L’elenco, con i relativi intrecci, potrebbe continuare. Vi farebbe capolino anche Jorge Luis Borges. Fatto sta che nel vortice dell’Odissea in cui Cesco si ritrova immerso qualcosa scatta all’improvviso, conducendo il protagonista al drammatico, eppure liberatorio, epilogo.

Molto si è detto, e scritto, su questo romanzo (libro-mondo, romanzo totale…), tanto che, sia con il classico passaparola, sia per le molteplici segnalazioni online, è entrato anche nella dozzina dello Strega. È un dato che può sorprendere, perché si tratta di un libro-fiume: oltre 800 pagine, per di più articolate in capitoli dalla lunghezza irregolare, ciascuno dedicato a uno spezzone delle tante vicende che ne irrorano la trama. Non è un romanzo facile, quindi. E non è nemmeno il prodotto di un grande editore, suscettibile di essere spinto nelle case delle persone per la sola forza del marketing e delle reti distributive. Si aggiunga che nelle analisi dei lettori più forti Griffi viene variamente paragonato a Pynchon o a Bolaño: Autori mitici, capaci di conferire nel raffronto l’aura del capolavoro, ma non certo annoverabili tra quelli di più agevole frequentazione. Occorre pazienza e disciplina, virtù oggi rare. Infine c’è un altro fattore potenzialmente esiziale: il libro, spogliato del suo grande apparato narrativo e dell’effetto matrioska ingenerato dalle tante digressioni, racconta una vicenda oltremodo schematica. Un ragazzo trascinato per forza d’inerzia tra le fila della parte sbagliata si imbarca in un’avventura surreale e, proprio in quella corrente, pur commettendo un delitto (spoiler), fa giustizia, anche di se stesso. Il tutto in un itinerario che potrebbe banalmente dirsi di formazione. Insomma, il plot può non avvincere e a tratti le pagine (molte) possono farsi noiose. Qual è, dunque, il segreto del successo? 

Sicuramente gioca un qualche ruolo l’apparenza di libro un po’ underground, scelto da un nome cool (Giulio Mozzi) per la sua collana di nicchia. Anche la veste editoriale può avere le sue ragioni. Ferrovie del Messico, per indubbie motivazioni economiche, è un oggetto leggero, con un’impaginazione distesa, che dà l’illusione di sciogliere le complessità linguistiche e di percorrere il suo periodare ubriacante con una sorprendente velocità. Sicché navigare in questo romanzo, all’atto pratico, è meno complesso di quello che può apparire. Come se i modi del confezionamento cartaceo invogliassero a relativizzarne l’interna prospettiva, sofisticata e iperletteraria, rendendola, al contempo, godibile e meglio afferrabile. Qui si nasconde, già dal punto di vista meccanico, la chiave di volta del volume, ossia la commistione inestricabile tra tristezza e ironia, tra pesantezza assoluta e volatilità, tra orrori e speranze. C’è del Chaplin e dello Charlot, sotto la copertina. Perché a rigore è vero che il libro di Griffi, per argomenti e personaggi, se fosse paragonabile a qualcosa di precedente, andrebbe addirittura comparato a Horcynus Orca di D’Arrigo: opera potente e immaginifica, anch’essa viaggio iniziatico e durissimo, perché sovrastato dall’onnipotenza naturale di un destino cupo e avvolgente. Eppure, diversamente da quella prova, Ferrovie del Messico – anche in virtù dell’evidente e insistito flirt con le suggestioni della migliore tradizione sudamericana – è evasione e farmaco, prova tangibile che di fantasia e invenzione artistica si può dolorosamente guarire. Dunque affaticarsi in una lettura ipnotizzante può, alla fine, piacere? Diremmo di si, specie se comprendessimo che, in questo nostro tempo gelatinoso e giustificante, in cui tutto – ma proprio tutto – può accadere e diventare pure normale, Cesco Magetti è effettivamente uno di noi.

Recensioni (di P. Bianchi; di G. Cortassa; di S. Ditaranto; di A. Galetta; di F.M. Spinelli; di G. Tinelli; di C. Vescovi; di G. Vignanello)

Tre interviste all’Autore: qui, qui e qui.

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Per fortuna che d’estate si trova quasi sempre un Faulkner da leggere. Questa volta è l’ultimo romanzo, dato alle stampe nel 1962, l’anno della morte del grande scrittore. Lo ripropone La Nave di Teseo in una edizione leggibilissima (una rarità: caratteri ampi, spaziature altrettanto ariose, una pagina che scorre e si fa bere con gusto). Di questo romanzo si possono sapere facilmente molte cose: che tra tutti quelli del Premio Nobel di Oxford (Mississippi), è stato a lungo considerato come uno dei meno riusciti; che ha fornito la materia per un film del 1969, con Steve McQueen, a quanto pare anch’esso poco apprezzato; e che ripropone i consueti topics dell’universo faulkneriano (l’epos della contea di Yoknapatawpha, il rapporto tra “bianchi e neri”), in una trama avventurosa e in parte tragicomica, sulle orme dell’Huckleberry Finn di Twain. In effetti la prima impressione può essere proprio questa. Il protagonista è Lucius Priest, che racconta al nipote ciò che gli è accaduto quando aveva undici anni, nel 1905. Cioè quando, assieme a Boon Hogganbeck e a Ned (un meticcio di origine chickasaw e un lavorante di colore), sottrae al nonno (il Padrone) la sua nuova automobile, finendo prima a Memphis, in una casa di piacere, e poi a Parsham, nella fattoria del vecchio Zio Possum, all’insaputa di tutta la famiglia. E restando coinvolto in furti, sortite notturne, corse clandestine di cavalli, scommesse, improbabili storie d’amore: in altre parole, vivendo un’avventurosa e perturbante occasione per diventare adulto. L’apparenza, dunque, è quella di un classicissimo romanzo di formazione, calato nel mondo e nello stile lussureggianti e inconfondibili di un maestro della narrazione.

Fosse solo questo, il libro si distinguerebbe già dal canone cui potremmo ricondurlo. Perché è un plot che Faulkner restituisce in modo magistrale. La voce del ragazzo, i suoi pensieri, il suo percorso psicologico, l’ingenuo trasporto, il divertimento e il disorientamento… Tutto è reso nel modo migliore. C’è piena immedesimazione da parte dell’Autore, il lettore lo sente rapidamente e si immedesima a sua volta. Per chi volesse approfondire, poi, c’è un sofisticato sottotesto, che – come rivela anche la nota del traduttore, in chiusura del volume, rimandando ad un recente studio – coincide con il tema iniziatico delle Metamorfosi di Apuleio. Lucius è come il Lucio di quell’antica storia, ed anche qui è una figura femminile (Miss Corrie come la dea Iside) a farsi mediatrice del rito di passaggio (che è tale anche per Boon Hogganbeck, che di Corrie è innamorato). È senz’altro una prospettiva interessante, che forse spiega anche il mood sotteso alla scelta del titolo: the reivers, i saccheggiatori, i picari che se ne approfittano, ma cui per definizione è concesso superare il confine; non meri ladruncoli, dunque, come invece potrebbe apparire superficialmente, se ci soffermasse solo sulla sgangherata fisionomia dell’improbabile banda che lo scrittore mette sulla scena. Ma più che per simili raffinatezze, il racconto faulkneriano è impagabile per altri fattori, di immediata, istintiva percezione: la caratterizzazione perfetta dei personaggi (la saggezza sfrontata e lo slang di Ned non si dimenticano facilmente, come il temperamento di Miss Reba, la stoica tenutaria); l’umanità assoluta e nobile di alcune immagini (Zio Possum, l’anziano ex schiavo che al cospetto degli altri si staglia come giudice e patrizio); il tratto argutamente pedagogico di certe divagazioni (i passi sull’intelligenza degli animali, tra pag. 152 e pag. 155, sono iconici quanto quelli di un Fedro o di un La Fontaine); il dualismo implicito, quasi cavalleresco, tra eroi ed antieroi (Lucius vs. Otis; Boon vs. Butch). Insomma, con Faulkner si respirano letteratura e vita allo stato puro. È una bella boccata d’ossigeno.

Un breve sommario

Perché William Faulkner?

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Joseph Ponthus, laureato in lettere che cerca di convivere con l’instabilità della sua condizione di insegnante precario, lascia Parigi per seguire la compagna in Normandia. Deve trovare una nuova occupazione e così si affida a un’agenzia di lavoro interinale, che lo fa debuttare nel mondo della fabbrica – alla linea di produzione – e nello specifico in quelli che si rivelano subito i gironi dell’industria agroalimentare. Comincia in uno stabilimento che lavora molluschi e pesce. Orari terribili, pause rarefatte, freddo pungente e odori altrettanto penetranti, con un incombente e costante rischio di infortunio. Stare alla linea, dunque, è come stare in trincea. Non a caso si apre con Apollinaire che scrive dal fronte (“È incredibile tutto quello che riusciamo a sopportare”). Ma che cosa si apre? La forma è quella della poesia. Può sembrare anzi quella di un poema, la saison en enfer del prototipo del lavoratore sfruttato, eppure consapevole, arrabbiato e triste allo stesso tempo. E tuttavia Alla linea si presenta al pubblico come un “romanzo”, un racconto in versi i cui capitoli sono iconiche raffigurazioni di situazioni tipiche: di stordimento, fatica, speranza, intimità e tenerezza familiare e, a tratti (si direbbe), orgoglio e coscienza di classe. Tutto scandito al ritmo delle canzoni di Brel e Trenet. La discesa di Ponthus, peraltro, non ha fine: approda al mattatoio, al lavaggio dei locali imbrattati di sangue e di scarti, al faticoso e pericoloso spostamento di carcasse congelate. 

Se la parola romanzo, a questo punto, ha un senso, ce l’ha per la facilissima e spontanea associazione alle ambientazioni più dure di Zola. Ma il fatto è che non ci troviamo nella seconda metà dell’Ottocento (e nemmeno sul fronte occidentale, sebbene, puntuale, arrivi sempre il solito Apollinaire: “Impossibile da descrivere. È inimmaginabile”). La tragedia individuale e collettiva del lavoro e delle sue estreme spremiture si svolge ai giorni nostri. E le settimane di Ponthus si susseguono eguali, spietate, ma anche disperate e coraggiose, quasi fossero dei tunnel senza soluzione di continuità; spesso all’interinale conviene lavorare anche il sabato, per arrotondare il già magro compenso. Non c’è posto per nulla di diverso. Nulla che non sia la pur difficile scrittura, un atto di resistenza morale e di salvezza interiore. Con la fabbrica come elemento totalizzante, luogo di pena, ma anche occasione di introspezione e di confronto con il proprio essere, mente e corpo. È evidente che questo è un testo per lettori determinati. Perché ci vuole forza vera per sostenere l’efficacia, la verità, la cultura e, in definitiva, la grandezza di una voce come questa. Specie sapendo, per di più, che è l’opera prima, e unica, di un Autore quarantenne che, di lì a poco, è morto per un tumore. Eppure ci troviamo di fronte ad un testo necessario: non solo per la denuncia e la dignità che manifesta; ma soprattutto perché capiamo che ad essere scomparso è un vero, indispensabile poeta, tanto tagliente quanto raffinato e innamorato: di sua moglie, di sua madre, dei suoi compagni, della vita.

Recensioni (di M. Aubry-Morici; di F. Camminati; di M. Moca; di D. Orecchio; di A. Prunetti; di E. Todaro)

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Nel 1928 Virginia Woolf tiene due conferenze in due collegi universitari femminili. Il tema è Le donne e il romanzo. Nel 1929 da quegli incontri emerge questo libro, che non è esagerato definire un vero e proprio masterpiece. L’argomentazione di fondo è scoperta sin dalle prime pagine: a una donna, per poter scrivere davvero, servirebbero una piccola rendita e una stanza tutta per sé. Le servirebbero, cioè, al di là di qualsivoglia conquista ideale, pochi ed essenziali strumenti materiali, per consentirle di uscire dallo status di costrizione e di inferiorità che per secoli l’ha esclusa da molte possibilità, limitandola a uno specifico confine domestico. Woolf spiega l’assunto con un complesso itinerario di riflessioni e associazioni mentali, talvolta improvvise e tutte apparentemente casuali e animate da un flusso di coscienza. Ma la casualità non è tale, tanto che il saggio va al di là del suo preannunciato punto di arrivo: non solo perché funge quasi da dichiarazione di poetica per il romanzo – Orlando – che, in quel momento, Woolf stessa aveva pubblicato; ma soprattutto perché, in questa sua funzione teorica, si allontana dalla contingenza, come da qualsiasi allusione al profilo biografico dell’Autrice, e acquista valore fondativo di una nobilissima progenie di scrittrici e di un filone di pensiero particolarmente forte.

Nel primo capitolo vediamo la scrittrice calarsi nei panni di una donna immaginaria, che passeggia nei pressi dell’università, anch’essa immaginaria (ma fin troppo realistica), di Oxbridge, i cui luoghi sono per lo più riservati ai maschi. La stessa donna misura le differenze che esistono con i collegi femminili, che, nonostante ciò, sono stati creati quando alcune donne, come lei, hanno avuto la disponibilità di una somma di denaro sufficiente ad avviare quell’esperienza. Nel secondo capitolo, la protagonista si trova a Londra, alla Library del British Museum. Qui scopre che la donna è oggetto di innumerevoli opere, tutte per lo più maschili; e zeppe, in larga parte, di assunti pregiudiziali sull’inferiorità fisica e morale del genere femminile. Intuisce che i “professori”, gli autori maschi di quelle opere, sono animati da una sorta di rabbia, da un sentimento che in parte è veicolato dalla volontà di trattenere la donna nel suo ruolo di specchio passivo del dominio maschile, e per altri versi è animato da un’incessante tensione al possesso, che travalica i rapporti tra i sessi e che ne alimenta una peculiare dimensione psicologica. Nei capitoli successivi (il terzo, il quarto e il quinto) la traiettoria comincia gradualmente a curvarsi sulla questione letteraria che l’ha stimolata. Si apprende che prima del Settecento sarebbe stato difficilissimo che una donna potesse essere una scrittrice. Avrebbe potuto essere, come è stata, un’eroina della letteratura d’immaginazione. Mai avrebbe potuto diventare come Shakespeare. Avrebbe incontrato difficoltà insormontabili e sarebbe stata costretta, se ce l’avesse fatta, a nascondersi dietro un nome maschile, pena il rischio di essere esposta all’ironia diffusa, se non alla pubblica derisione. Tra la fine del Seicento e l’Ottocento le cose cominciano a cambiare. Si stagliano figure come Lady Winchilsea, Margareth di Newcastle, Aphra Behn. Ma a tratti sono ancora pervase, anch’esse, dalla rabbia per la condizione che continuano a vivere. È una peculiarità che si può percepire anche nelle più famose Jane Austen o Charlotte Brontë, che, nonostante le indubbie qualità stilistiche, ancora non accedono all’integrità tipica dello scrittore. Tuttavia questa lunga meditazione giunge a un possibile punto di svolta, a una figura di scrittrice che non sembra aver paura di raccontare di sentimenti e occupazioni femminili diversi da quelli della tradizione, e soprattutto che non scrive più con rabbia: che non ha più bisogno, cioè, di “salire sul tetto” e “rovinarsi la pace desiderando viaggi, esperienze e quella conoscenza del mondo e dei caratteri che le era stata negata”. Questa scrittrice può finalmente esprimersi come una donna e arrivare anche a deridere le vanità dell’altro sesso, anche se, per emergere del tutto, ha ancora bisogno di un po’ di denaro e di una stanza tutta per sé. Nell’ultimo capitolo si traggono delle conclusioni. Se è vero, da un lato, che per la donna scrittrice il percorso non è ancora definito, e che l’intelletto e la poesia hanno comunque bisogno di “cose materiali” (mentre “le donne sono sempre state povere”), è altrettanto vero che, forse, sul piano artistico dell’integrità tanto agognata, l’obiettivo dovrebbe essere quello di aspirare a una “mente superiore e androgina” o ad un “matrimonio dei contrari”; in altri termini, di diventare “una donna-maschile o un uomo-femminile”. Nonostante questo sia un raggiungimento difficile (visto che oggi tutti sono assai consapevoli del proprio sesso), è solo così che si può uscire dalle polarizzazioni maschile / femminile, da “quella fase scolastica dell’esistenza umana in cui ancora esistono squadre”.

Perché Una stanza tutta per sé è un grande libro? Innanzitutto perché è ben scritto. E lo è perché, pur a fronte di una tesi di fondo dichiarata esplicitamente in via preliminare, l’andamento non è scontato, è sempre sorprendente. A Woolf basta sostare sulla riva di un fiume, sedersi a cena, prendere appunti in biblioteca, vedere un taxi fuori dalla finestra… Le basta questo per catturare il lettore e condurlo nel labirinto avvolgente delle sue sensazioni e dei pensieri che, per ciò solo, prendono una certa forma, parola dopo parola. In questo modo Woolf inaugura un canone vero e proprio, un modello che nel corso del Novecento sarà acquisito da altre grandi autrici. Ma è questa stessa cosa del canone a dire dell’importanza di Una stanza tutta per sé. Woolf, in sostanza, anticipa e teorizza Harold Bloom, creando e quasi incarnando la medesima ispirazione. Per rendersene conto basta leggere un passo: “I libri, chissà come, s’influenzano fra di loro. (…) D’altronde, se considerate qualunque grande figura del passato, Saffo, la Murasaki, Emily Brontë, scoprirete che è sempre erede di una tradizione, e la sua figura letteraria ha potuto esistere perché le donne avevano preso l’abitudine di scrivere con naturalezza” (p. 148). È un estratto utile per comprendere anche un altro aspetto rilevante, un punto di forza tutto originale. La qualità artistica cui Woolf sembra tendere come sommo valore e, al contempo, come più alto parametro di valutazione della conquistata libertà espressiva della donna è la scrittura naturale, spontanea, emancipata perché svincolata da qualsiasi condizione. Sono i prodromi di un umanesimo assoluto ed esigente, di un canone ulteriore, dunque, ancor più progressivo, che si è costituito e rinsaldato nel tempo, e che da Woolf è passato per Ursula K. Le Guin ed è giunto oggi fino a Jeanette Winterson. L’età delle poetesse che Virginia attendeva si è finalmente dischiusa.

Un gettone di letteratura su Virginia Woolf e questo libro (da raiplaysound.it)

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Premetto che Manzoni mi è sempre risultato profondamente enigmatico. Ciò è dipeso dal fatto che, sin dalle prime ore di letteratura italiana ai tempi del liceo, la sua immagine riusciva distorta, sfocata, forse appesantita dall’aura del grande autore a tutto tondo: perché poeta, romanziere, studioso della lingua e, in definitiva, nume tutelare di una parte importante della costruzione dell’identità nazionale. Un profilo, dunque, pesante. Non che non mi paresse grande. Tendevo a non considerarlo tale, semplicemente, per ciò che di lui veniva proposto a scuola. Trovavo noiose le tanto celebrate poesie civili. Sentivo come ancor più noiosi i brani scelti dell’Adelchi o del Conte di Carmagnola. Stancante a dir poco era anche la lettura, “glossata” nel più minimo dettaglio, dei Promessi sposi. L’importanza di Manzoni, invece, quella che ai miei occhi emergeva come autentica originalità, oltre che come prezioso giacimento culturale, la comprendevo pienamente nella Storia della Colonna infame. La ritenevo – e continuo a ritenerla – una specie di punto d’arrivo di tutto l’itinerario di pensiero di questo scrittore. Manzoni per lungo tempo è stato animato da forti passioni, talvolta contraddittorie, fino ad un momento, che non a caso affiora pubblicamente con l’edizione “quarantana” del famoso romanzo, nella cui appendice compare per la prima volta proprio la Storia della Colonna infame. In quel caso il Manzoni-autore si va definitivamente stabilizzando, in una congiunzione quasi perfetta di risoluta secessione poetica e incrollabile coscienza morale. Al principio di questa congiunzione, però, vi è un percorso personale molto sofferto e drammatico. Un modo particolare per acquisire – e rafforzare – una tale consapevolezza è un sofisticatissimo libro di Mario Pomilio, Il Natale del 1833, vincitore a suo tempo (nel 1983) del Premio Strega. È un romanzo-saggio (difficile definirne il genere fino in fondo), che va riscoperto e riletto con la pazienza e la fiducia che si devono ai piccoli tesori.

In questo testo Pomilio compie un esercizio suggestivo di interpretazione immersiva, allo scopo di ricostruire i travagli e i pensieri di Manzoni, vissuti a causa della dolorosa perdita della moglie. Enrichetta Blondel, infatti, è morta alla vigilia del Natale del 1833. Nel testo, elegante e ricercato anche nello stile, Pomilio inventa moltissimo. Tanto che si cala pure nei panni della madre di Manzoni, Giulia Beccaria, di cui produce alcune lettere, nelle quali emerge tutto il tormento religioso che la “sventura” origina in Alessandro e che gli impedisce di portare a termine Il Natale del 1833, una poesia concepita proprio all’indomani del decesso. È in chiusura a quegli sparuti e incompiuti versi che si trova l’espressione cecidere manus, quasi a confessare l’impossibilità di continuare ad essere poeta. Nel giro di poco tempo, peraltro, lo scrittore perde anche due figlie. Pomilio, allora, raffigura Manzoni – che la madre sa essere abituato a una terribile consuetudine con Dio – chiuso e muto nella sua enorme sofferenza, alla ricerca instancabile di una qualche superiore o provvidenziale ragione per quanto accaduto. Dapprima Manzoni è rievocato come inutilmente impegnato nella stesura di un’opera dedicata a Giobbe, perché forse il personaggio biblico può incarnare il campione della spiegazione religiosa di cui il suo animo prostrato ha bisogno. Quindi lo si vede affaticato in un’altra stesura della Storia della Colonna infame, perché in quelle carte si ricorda che degli innocenti, accusati ingiustamente di essere untori, sono stati travolti e  che dunque anche in quell’occasione Dio è parso tanto assente quanto terribile. Proprio qui Manzoni – che non si abbandona ad accusare Dio, né ascolta i consigli di chi gli rammenta che non compete a uno scrittore trovare un significato universale alle vicende della storia – arriva al suo approdo: “la storia delle vittime è di per sé la storia di Dio”, perché “la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno, e il dolore di ciascuno è la croce di Dio”. Si apre, così, nella riproposizione di una vicenda storica tragica e apparentemente inspiegabile – e nel simultaneo concepimento di una cornice di soverchiante e universale sofferenza religiosa – l’adesione ad un criterio di verità che non può che essere esistenziale e totalizzante.

Due libri recenti e interessanti… sul Manzoni nevrotico e sulle sue due mogli

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In questo libro si racconta la vita irregolare e sfortunata di Dino Campana, l’autore dei Canti Orfici, nato nel 1885 a Marradi, sull’Appennino tosco-romagnolo, e morto nel 1932 a Scandicci, nell’ospedale psichiatrico di Villa di Castelpulci. Vassalli ha dedicato tantissimo tempo alla storia del poeta: è stato più volte nei suoi luoghi; ha cercato e studiato per anni, e meticolosamente, le pochissime carte che lo riguardano (soprattutto le “module” e i provvedimenti giurisdizionali con cui è stato spedito a più riprese in manicomio); ha scandagliato l’ambiente familiare e le relazioni difficilissime con la madre Fanny; ha letto, contestualizzato e confutato le testimonianze e i pregiudizi dei biografi, di chi lo aveva conosciuto, dei benpensanti di Marradi e dei compagni dell’università; ha ricostruito i tanti viaggi all’estero, i soggiorni fiorentini, i vagabondaggi, le poche amicizie, i rapporti conflittuali con i letterati e gli artisti emergenti (Papini, Soffici, Carrà); e naturalmente ha scavato nel rapporto passionale e totalizzante che Dino ha avuto con Rina Faccio (la famosa Sibilla Aleramo, femme fatale celeberrima per i suoi contemporanei). Questa frequentazione, per Vassalli, è stata costante. Ha funzionato come fonte di ispirazione, spingendolo a raccogliere e pubblicare, di Campana, poesie, lettere e prose

La notte della cometa, peraltro, è testo che, sin dalla prima apparizione nel 1984, ha suscitato molte reazioni, spesso positive, talvolta negative. Lo rievoca lo stesso scrittore in Natale a Marradi, il pezzo pubblicato autonomamente nel 2008 e posto in appendice all’edizione einaudiana del 2017. Quale può essere stata, per i più critici, la colpa di Vassalli? Non certo quella di aver dato alla luce un ottimo libro, che con i suoi piccoli capitoli quasi si legge come un diario e tenta l’immedesimazione più puntuale con il percorso esistenziale del poeta e, direttamente, con le sue parole e con la loro intrinseca forza evocativa. Vassalli è davvero riuscito a isolare le tappe della ricerca di Campana, nella sua irresistibile tensione all’immersione nel paesaggio, e nelle emozioni e immagini più forti della vita; ne ha colto l’istintiva e pervicace volontà di rifondazione, personale come umana, nel senso più universale del termine. Dunque, secondo l’Autore – che è rimasto assai colpito dagli interventi talvolta pretestuosi dei detrattori – il suo approfondimento narrativo porterebbe una sola responsabilità, quella di aver cercato di sottrarre Campana alle leggende che lo hanno sempre voluto soprattutto e irrimediabilmente pazzo. 

Oggi si può sicuramente affermare che quest’ultimo è il merito più grande del volume. Perché Vassalli, in effetti, ha seguito un’altra traccia: ha evidenziato l’ostilità costante della madre di Dino, la diversità avversata e ridicolizzata dai paesani, l’ambiguità dei riscontri clinici e la probabilissima morte per sifilide. Quello de La notte della cometa, dunque, non è il ritratto di un malato mentale: è la tragica parabola di un grande incompreso, di un uomo fondamentalmente solo, e discriminato pure da chi gli era più vicino, in un tempo in cui la stranezza veniva trattata sistematicamente come un problema di sicurezza pubblica e di onorabilità, e come la premessa della patologia più profonda e paurosa. Vassalli ci ha rammentato, ascoltando da vicino il grido espresso di Campana, che esiste un’enorme differenza tra chi è grande poeta, celebrato ufficialmente dagli allori, e chi, invece, non vive tutto intero nel suo presente, ma è “ombra di eternità”, “fuori del tempo e dei suoi traffici”. Più di ogni cosa, però, Vassalli ha dato voce pulsante all’Italia del primo Novecento, alla sua strutturale arretratezza, alla tortuosità che un talento eccentrico e autodidatta doveva fronteggiare anche solo per potersi palesare. La notte della cometa, in fondo, è uno straordinario pezzo di storia sociale. E pure per questa ragione è libro da leggere, meditare e rileggere ancora.

Due documentari Rai su Dino Campana: qui e qui

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Sono quattro i testi che compongono questo libro. Nel primo l’Autore gioca con i ricordi e con la tormentata vita sentimentale del giovane Stendhal. Ne ripercorre il tragitto durante la campagna d’Italia, al seguito di Napoleone. Si sofferma sul senso immediato di scoperta e su quello successivo, di endemico smarrimento, che lo scrittore prova, sia visitando il campo della battaglia di Marengo, sia di fronte alla reiterate insoddisfazioni amorose. Di questo racconto assume un valore centrale la rievocazione, quasi onirica, di un breve voyage, che Stendhal intraprende fino a Riva del Garda, al seguito di una delle sue numerose amanti. Nel secondo pezzo, invece, Sebald ricostruisce due peregrinazioni autunnali, da lui stesso compiute nel 1980 e nel 1987. In un caso narra del percorso che da Vienna, dopo una passeggiata in un borgo vicino con il poeta Ernst Herbeck, lo ha portato dapprima a Venezia, guidato sulle orme di Casanova da un misterioso veneziano di nome Malachio, e poi a Verona, dalla quale tuttavia è presto fuggito in treno verso il Brennero, assalito dall’inquietudine che alcune coincidenze sembrano avergli comunicato. Nel viaggio successivo, Sebald torna sui propri passi, ma svolge anche alcune digressioni: a Padova, a vistare la cappella degli Scrovegni; sulle tracce di Kafka, da Desenzano e lungo la costa orientale del Lago di Garda, fino a Limone, dove è ospite di una magnetica albergatrice e smarrisce il passaporto; e a Milano, dove si reca al consolato tedesco per ottenere nuovi documenti. A Verona soggiorna felicemente alla Colomba d’Oro, rivede i luoghi che lo avevano spaventato e si intrattiene a lungo con un cronista locale, alla ricerca della ragione delle sue originarie paure, per poi concludere con il ricordo del libro di Franz Werfel su Verdi, donato dallo stesso scrittore ad un Kafka oramai morente. Il terzo testo del volume è tutto su Kafka, in particolare su di un suo misterioso ed erratico itinerario, che nel 1913 lo ha visto partire da Vienna per Trieste, e poi risiedere per un qualche tempo a Venezia, ripartendo infine per Desenzano e Riva del Garda. Sebald si sofferma sul soggiorno di Kafka in una clinica sul lago e alla raffigurazione di un fatto tragico accaduto proprio allora sovrappone una storia inventata dallo stesso Kafka, dalla quale estrapola tutto lo struggimento dello scrittore per la sua esiziale incapacità di trovare l’amore. L’ultimo brano di Vertigini è intitolato Ritorno in patria ed è il prodotto di una reverie, che vede l’Autore raggiungere il suo paese natale, in Baviera, ai confini con l’Austria, e fermarsi nella medesima locanda in cui la sua famiglia ha vissuto per diversi anni. L’occasione gli offre la possibilità di scolpire biografie e disavventure di tanti e diversi personaggi del borgo, e di ricordare alcuni momenti salienti della sua formazione infantile. Il finale rientro in Inghilterra, a Londra, è motivo di nuove, portentose visioni e di una conclusiva conflagrazione, in cui esistenza individuale e universalità si confondono definitivamente.

Di Sebald, forse, tutti conoscono Austerlitz, il romanzo più rappresentativo. Molti avranno sentito parlare anche de Gli anelli di Saturno. O di Storia naturale della distruzione. Sono grandi libri, che hanno dato al loro Autore visibilità e riconoscimento internazionali. Vertigini non è da meno. Anzi, le prose che vi sono raccolte si possono dire esemplari del particolare metodo Sebald. Da un lato, è un metodo che per lo scrittore funziona un po’ come il metodo Stanislavskij per un attore. Sebald fiuta una via, un’occasione di redenzione, e la percorre con certosina pazienza e abbandono, come se fosse un copione, fidandosi degli indizi che gli possono dare le vite e le storie altrui. Il punto è che Sebald non si limita alla rappresentazione: si cala in quegli indizi, se ne lascia attraversare, si immedesima fino alla vertigine (per l’appunto), che è la porta per la comprensione di un grado di verità altrimenti non verbalizzabile, né (probabilmente) pensabile. Da un altro punto di vista, ma coerentemente con questa tendenza all’immersione esistenziale, il metodo Sebald è anche un metodo panletterario. Lo scavo della lettura e della scrittura impone lo scavo nello sguardo, sicché ogni soggetto letterario, potenzialmente, diventa medium dell’invenzione e della correlata esperienza redentrice. E ciò perché nel soggetto è possibile immaginare di ripercorrerre i tratti e di ricostruire la memoria della realtà, e dunque, così facendo, così fantasticando, di maturare le competenze necessarie a ricomporre la propria. L’esperienza diventa tanto più vertiginosa quando i livelli di lettura si sovrappongono, alludono l’uno all’altro, strizzano l’occhio all’osservatore e lo attraggono – in un gioco di allusioni e di richiami reciprocamente magnetici – nell’occhio di un ciclone. Che, da letterario, diventa concretissimo, perché è la concretezza delle emozioni ad averlo alimentato. In Vertigini i rimandi sono evidenti, molteplici e ammalianti: Stendhal e l’amore, in Italia e a Riva del Garda; Kakfa e la malattia, in Italia e a Riva del Garda; Sebald che viaggia come Stendhal e Kafka, e si stordisce di digressioni, di dettagli, di immagini, di oggetti (che, nel metodo Sebald, sono tipicamente riprodotti nel testo); Sebald nuovamente, che ripete il suo viaggio, perché, a quel punto, vuole “controllare meglio” i “fugaci ricordi” e “riuscire magari a mettere per iscritto qualcosa al riguardo”; e poi il ritorno a casa, quella delle origini lontane e in parte dolorose, e, nelle ultime pagine, quella che lo ha accolto, straniero a se stesso, alla sua stirpe e alla sua nazione. Ecco, leggere un libro di Sebald dà la sensazione che ci si possa conoscere e salvare ubriacandosi di letteratura. Sensazione bellissima.

Il culto di W.G. Sebald (di L. Coppo)

Sebald, l’ultimo romantico (di M. Freschi)

“Il ricordo ci dà le vertigini” (di V. Punzi)

“L’improvvisa incursione dell’irrealtà” (di C. Angier)

Un documentario su Sebald

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A p. 67 di questo volume si può leggere quanto segue: “In una buona libreria trovi sempre quel che non stavi cercando; bisogna vivere ogni visita con curiosità, lasciando che la tua capacità di stupirsi ti assalga ed esca allo scoperto. Mai capiti coloro che entrano con in testa un titolo, lo chiedono e non si peritano neanche di dare un’occhiata al resto. Sono un posto, le librerie, in cui conviene abbassare la guardia”. L’osservazione – da sottoscrivere in toto – suggerisce esattamente quale debba essere lo spirito con cui avvicinarsi a Gli introvabili. L’Autore è un vero libraio, che non ha fatto altro che predisporre per il lettore una piccola ma suggestiva visita portatile in una sorprendente libreria emotiva, tanto personale quanto arricchente per chiunque. Gizzi, infatti, ha messo in fila una galleria di titoli – alcuni effettivamente irreperibili e “perduti”, altri tuttora acquistabili online, altri ancora ristampati soltanto di recente – che per lui sono stati importanti: perché letti in un certo momento; perché testimoni di un sodalizio amicale o professionale; o perché compagni e guide ispiratrici di viaggi significativi. Le singole scelte e i brevi capitoli che le raccontano non sono quasi mai banali (forse i più prevedibili sono quelli su Luigi Ghirri e Aldo Capitini). Innanzitutto mi paiono belle e meritevoli di approfondimento alcune riscoperte apparentemente idiosincratiche (John Steinbeck viaggiatore o Giorgio Soavi interprete di Giacometti). Sembrano ficcanti anche i consigli che, dietro il semplice invito alla lettura, suonano come consapevoli e attualissime riproposte intellettuali ed esistenziali (le poesie di e.e. cummings, ad esempio, o la testimonianza a tutto tondo della coppia Pietro Consagra-Carla Lonzi). Non mancano pezzi, infine, che, per tono e misura, sono riusciti di per sé: per lo più non si tratta di mere recensioni, né di ricordi vagamente retorici, ma di prove di scrittura in cui il libraio stesso dimostra una certa capacità narrativa (e così è per il testo sulla Storia della boxe di Alexis Philonenko, per quello sull’Afghanistan di Alighiero Boetti e per quello sulla preziosa traiettoria editoriale di Franco Maria Ricci). Al di là degli specifici contenuti, ciò che rende Gli introvabili un libro da acquistare, conservare e frequentare con costanza, è il magnetismo che esprimono i percorsi contenuti nei capitoli: vi ci si può immergere con estrema facilità, nel tempo di una pausa caffè o di una colazione, riemergendo serenamente distratti e incuriositi, e avvinti dal desiderio di sfogliare la pagina successiva e trovare, come in una matrioska (sembra alludere a questa immagine anche la copertina), un’altra irresistibile sollecitazione.

Recensioni (di A. Briganti; di D. Gabutti; di L. Mascheroni; di S. Zangrando)

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Non è facile esprimersi su questo libro. Anche il suo Autore l’ha definito un “oggetto narrativo non identificato”: qualcosa di sconosciuto e indecifrabile, che a ogni pagina si avvicina sempre di più e va scoperto con cautela, passo dopo passo. E che forse si capisce soltanto arrivati alla fine, quando ci si ritrova curiosi di ricominciare. La raccolta comprende cinque racconti, che andrebbero riletti a ritroso, visto che l’ultimo – l’Epilogo – fornisce la mappa delle ispirazioni che sono alla base degli altri e che, nella finzione, vengono stimolate e collegate da un’occasionale conversazione con un anonimo giardiniere. Partiamo dal fondo, dunque, perché è così che si può apprezzare la singolare regressione proposta al lettore.

Il quarto racconto – il più lungo – è quello che in questa edizione italiana dà il titolo al volume ed è diviso in più capitoli. È il pezzo apparentemente più prevedibile. Narra dell’irruzione nella scienza contemporanea delle teorie che hanno sconvolto il modo di ricostruire le leggi che governano la materia, e lo fa con la rievocazione, a tratti anche suggestiva, di spezzoni di vita, e di intima dis-avventura speculativa, di alcuni dei più grandi fisici del Novecento, in particolare di Heisenberg e Schrödinger. Il tema dominante sembra quello – di per sé un po’ scontato – del nesso tra solitudine, patologia e genialità. È una sinergia che viene sviluppata anche nel terzo racconto, Il cuore del cuore, che segue la traiettoria esistenziale incrociata di due matematici famosi, incompresi e fatalmente impazziti, Shinichi Mochizuchi e Alexander Grothendiek. Questo fil rouge colora l’andamento complessivo della raccolta di un senso tragico e incombente, prodotto di una verità ineffabile eppure calcolabile, al cui cospetto il destino individuale dello scienziato, uno scopritore sconcertato, si mescola indissolubilmente con quello collettivo di una società tanto normale quanto potenzialmente aperta a qualsiasi conseguimento, anche il più terribile. Da questo punto di vista, ben più interessante, il secondo testo – La singolarità di Schwarzschild – è decisamente più chiaro e si occupa dello studioso che ha intuito e teorizzato l’esistenza dei buchi neri, e che è morto nel primo conflitto mondiale per effetto dei gas venefici. Blu di Prussia, infine, è il primo lavoro ed è senz’altro il più convincente, il punto di arrivo della climax rovesciata in cui si dispone il contenuto del volume. Approfondisce gli intrecci quasi sorprendenti che hanno portato alla sconvolgente invenzione di un veleno, il cianuro, che da fonte di un originale e fortunato pigmento, scoperto nel Settecento in modo del tutto casuale, è stato industrializzato nel Novecento per la produzione di un pesticida fortissimo e del tristemente famoso Zyklon B, massivamente utilizzato negli stermini perpetrati all’interno dei lager nazisti.

Di che cosa vuole parlarci, in definitiva, Labatut? Non certo – o non solo – di Heisenberg e delle grandi svolte epistemologiche connesse alla formulazione del principio di indeterminazione: a prescindere dalla recente divulgazione di Carlo Rovelli, il meglio, sul punto, lo ha sempre dato in prima persona il grande fisico tedesco, in un’opera facilmente reperibile che dovrebbe essere letta da tutti. Quando abbiamo smesso di capire il mondo non è neppure un’ennesima versione in prosa della rappresentazione degli intensi e tragici, e premonitori, dibattiti in cui si sono arrovellati i più grandi fisici della prima metà del Novecento: a ciò ha già provveduto da tempo Michael Frayn, con Copenaghen. In questa prospettiva, Labatut non vuole neanche tornare sul luogo del delitto su cui si è soffermato Leonardo Sciascia nel suo ineguagliabile La scomparsa di Majorana: la rinuncia dello scienziato più profondo è un motivo che viene affrontato, ma nel libro dello scrittore cileno manca l’accelerazione morale che dovrebbe suggerire all’umanità una potenziale opzione di reversibilità generale. Che non è, tuttavia, quella distorta e “pazza” dello scienziato che, nel farsi incosciente distruttore di se stesso, si rende distruttore consapevole di un ordine a sua volta letale, come avviene nella bellissima Manhunt, la serie su Unabomner disponibile online per Netflix. A tutte queste variazioni Labatut aggiunge una cornice, uno spazio che disegna come contorno obbligato, per mettere in scena un’orribile discesa negli inferi. Da un lato è lo spettacolo – dalla biblica ineluttabilità – su ciò che può significare, per l’uomo e per la sua irresistibile vocazione tecnologica, la caduta nella conoscenza più estrema. Dall’altro, però, è anche la dimostrazione che ciò che si nasconde dietro l’orrore di cui l’uomo è capace non è questa conoscenza, ma l’incontrollabile ambizione normalizzante che vorrebbe dominarla.

Recensioni (di P. Beltrame; di D. Coppo; di E. Franzin; di G.I. Giannoli; di R. Precht)

Interviste all’Autore (di M. Moca; di F. Pellas)

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