Francesco “Cesco” Magetti è un militare della Repubblica di Salò. Fa parte della guardia nazionale repubblicana ferroviaria, di stanza ad Asti. Il suo superiore gli ordina di trovare una carta ferroviaria del Messico. Nel pieno del freddo e malinconico  clima di disfacimento totale del febbraio 1944 la consegna suona in modo surreale. Dove mai si potrà trovare una mappa del genere? E Cesco, poi, ha anche un terribile mal di denti. Ad ogni modo la ricerca comincia, a partire dalla biblioteca comunale. Dove Cesco incontra l’enigmatica Tilde, viene a sapere che esiste una Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México e che questo fantomatico libro è in prestito. Da qui in avanti si avvia l’inseguimento di Cesco, la cui storia si accavalla con quella, al fine, tragica di Tilde; con quella, quasi fantastica, di Lito Zanon e del suo amico Mec, costruttori giramondo di reti ferroviarie; con quella di Ettore e Nicolao, strani frequentatori di un altrettanto misterioso night clandestino; con quella di un cartografo samoano trapiantato in Piemonte; con quella degli amici di Cesco, che si sono fatti disertori e partigiani; con quella della burocratica e surreale catena di comando che dal Führer è arrivata fino ad Asti, per disporre la caccia alla mappa ferroviaria; con quella di Steno, che si era promesso a Tilde e che si dà alla macchia; con quella di Gustavo Baez, l’autore del volume tanto agognato; con quella della povera Giustina, giovanissima prostituta, barbaramente condotta alla morte; con quella di don Tiberio, disperato parroco di Roccabianca… L’elenco, con i relativi intrecci, potrebbe continuare. Vi farebbe capolino anche Jorge Luis Borges. Fatto sta che nel vortice dell’Odissea in cui Cesco si ritrova immerso qualcosa scatta all’improvviso, conducendo il protagonista al drammatico, eppure liberatorio, epilogo.

Molto si è detto, e scritto, su questo romanzo (libro-mondo, romanzo totale…), tanto che, sia con il classico passaparola, sia per le molteplici segnalazioni online, è entrato anche nella dozzina dello Strega. È un dato che può sorprendere, perché si tratta di un libro-fiume: oltre 800 pagine, per di più articolate in capitoli dalla lunghezza irregolare, ciascuno dedicato a uno spezzone delle tante vicende che ne irrorano la trama. Non è un romanzo facile, quindi. E non è nemmeno il prodotto di un grande editore, suscettibile di essere spinto nelle case delle persone per la sola forza del marketing e delle reti distributive. Si aggiunga che nelle analisi dei lettori più forti Griffi viene variamente paragonato a Pynchon o a Bolaño: Autori mitici, capaci di conferire nel raffronto l’aura del capolavoro, ma non certo annoverabili tra quelli di più agevole frequentazione. Occorre pazienza e disciplina, virtù oggi rare. Infine c’è un altro fattore potenzialmente esiziale: il libro, spogliato del suo grande apparato narrativo e dell’effetto matrioska ingenerato dalle tante digressioni, racconta una vicenda oltremodo schematica. Un ragazzo trascinato per forza d’inerzia tra le fila della parte sbagliata si imbarca in un’avventura surreale e, proprio in quella corrente, pur commettendo un delitto (spoiler), fa giustizia, anche di se stesso. Il tutto in un itinerario che potrebbe banalmente dirsi di formazione. Insomma, il plot può non avvincere e a tratti le pagine (molte) possono farsi noiose. Qual è, dunque, il segreto del successo? 

Sicuramente gioca un qualche ruolo l’apparenza di libro un po’ underground, scelto da un nome cool (Giulio Mozzi) per la sua collana di nicchia. Anche la veste editoriale può avere le sue ragioni. Ferrovie del Messico, per indubbie motivazioni economiche, è un oggetto leggero, con un’impaginazione distesa, che dà l’illusione di sciogliere le complessità linguistiche e di percorrere il suo periodare ubriacante con una sorprendente velocità. Sicché navigare in questo romanzo, all’atto pratico, è meno complesso di quello che può apparire. Come se i modi del confezionamento cartaceo invogliassero a relativizzarne l’interna prospettiva, sofisticata e iperletteraria, rendendola, al contempo, godibile e meglio afferrabile. Qui si nasconde, già dal punto di vista meccanico, la chiave di volta del volume, ossia la commistione inestricabile tra tristezza e ironia, tra pesantezza assoluta e volatilità, tra orrori e speranze. C’è del Chaplin e dello Charlot, sotto la copertina. Perché a rigore è vero che il libro di Griffi, per argomenti e personaggi, se fosse paragonabile a qualcosa di precedente, andrebbe addirittura comparato a Horcynus Orca di D’Arrigo: opera potente e immaginifica, anch’essa viaggio iniziatico e durissimo, perché sovrastato dall’onnipotenza naturale di un destino cupo e avvolgente. Eppure, diversamente da quella prova, Ferrovie del Messico – anche in virtù dell’evidente e insistito flirt con le suggestioni della migliore tradizione sudamericana – è evasione e farmaco, prova tangibile che di fantasia e invenzione artistica si può dolorosamente guarire. Dunque affaticarsi in una lettura ipnotizzante può, alla fine, piacere? Diremmo di si, specie se comprendessimo che, in questo nostro tempo gelatinoso e giustificante, in cui tutto – ma proprio tutto – può accadere e diventare pure normale, Cesco Magetti è effettivamente uno di noi.

Recensioni (di P. Bianchi; di G. Cortassa; di S. Ditaranto; di A. Galetta; di F.M. Spinelli; di G. Tinelli; di C. Vescovi; di G. Vignanello)

Tre interviste all’Autore: qui, qui e qui.

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Nell’Italia del 1938 Alfredo Liguori è un importante dirigente della più grande compagnia italiana di assicurazioni. Dopo un convegno al Lido di Venezia, si lascia incuriosire da un suggerimento del suo principale e, prima di rientrare a Milano, decide di fermarsi in laguna ancora una sera, per sperimentare il piacere di cenare in una certa trattoria. Viene presto avviluppato da un’atmosfera particolare, tanto da restare di fatto catturato dall’isola, dove – indotto da uno strano personaggio – passa di locale in locale, fino a quando conosce la misteriosa Lina. Il tempo passa e Liguori rimane a Venezia, dimentico della sua stessa famiglia: comincia a convivere con Lina, con cui intesse una relazione sinceramente appassionata. Ne conosce l’ambiente, venendo a contatto con le storie e i sogni di un popolo povero e semplice, e familiarizza con Mino, un socialista senz’altro inviso al regime, che contribuisce a trasformare “tutto il suo modo di vedere il mondo”. All’improvviso, però, scosso dalle ricerche ufficiali che la moglie ha stimolato, Alfredo si vede costretto, a malincuore, a tornare a casa, a porre fine a questa parentesi quasi fiabesca e a recuperare i ritmi quotidiani del lavoro d’ufficio. Ma nulla è come prima, l’aplomb di sempre è compromesso. Tanto più quando il Paese entra in guerra: mentre i tragici destini del conflitto cominciano a farsi intuire, Alfredo matura un antifascismo istintivo. Il ricordo della sua strana avventura veneziana e delle emozioni elementari allora vissute funge da fondamentale elemento catalizzatore: dell’idea di collaborare segretamente con i partigiani, ma soprattutto, una volta catturato, della decisione di sacrificarsi eroicamente.

La storia della scomparsa dello strano personaggio di questo romanzo si è rivelata – come per uno scherzo di un qualche destino – una bella scoperta, fatta sul banco di un rivenditore ambulante di libri vecchi. Il fortunato ritrovamento, innanzitutto, è Mario Bonfantini, ricordato e celebrato di recente dall’Università di Torino (partigiano, professore di letteratura francese, sceneggiatore e amico di Mario Soldati, scrittore…), ma da tempo uscito dai radar dell’editoria italiana. Ed è un vero peccato, perché mentre la scomparsa del protagonista di questo romanzo traccia una traiettoria originale nei percorsi letterari di costruzione della coscienza politica nazionale, l’oblio sull’Autore ha privato il grande pubblico della pacata raffinatezza di un passo stilistico tanto démodé e apparentemente semplice quanto sincero e profondamente articolato. La linearità, infatti, è solo di facciata. Ci troviamo di fronte al montaggio, astutissimo, di due prospettive già saggiate in altri due libri ben più noti, e precedenti rispetto a Scomparso a Venezia: La danza delle acque di Antonio Russello e Il generale Della Rovere di Indro Montanelli. Anche l’impiegato di banca di cui racconta Russello si perde a Venezia per acquistare un nuovo punto di vista. Anche il faccendiere di Montanelli si ritrova come uomo nel momento del coraggio più impensato. Il differenziale, pregevole, della versione di Bonfantini – per la quale egli stesso ricorre ad una parola oggi quasi rovente: “populista” – sta nella saldatura quasi svagata, ma molto naturale, delle due esperienze e nel programmatico e attento ripudio di intellettualismi e canoni potenzialmente retorici.

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Erminio Squarzanti, un immaginario socialista ferrarese, racconta la sua storia di confinato a Ventotene, durante il fascismo. Sbarcato lì nel 1939, incontra Sandro Pertini, dalla cui austera e determinata compostezza è immediatamente affascinato. Sull’isola, nel variegato arcipelago degli antifascisti, conosce anche Spinelli, Rossi e Colorni, i famosi autori dell’altrettanto famoso manifesto Per un’Europa libera e unita: li vede già immersi nei fitti conciliaboli che nel 1941 portano alla stesura del documento e partecipa lui stesso alla discussione di un primo elaborato, con tono assai critico. Nel frattempo, però, Erminio familiarizza con un altro confinato, anch’egli un personaggio immaginario, Giacomo Pontecorboli, fisico romano che ha lavorato con Fermi e ha conosciuto Majorana. Si tratta di una figura misteriosa, taciturna, immersa nei suoi pensieri. La sua attenzione è costantemente catturata dal vecchio orologio della piazza principale e da strani ragionamenti sullo spazio e sul tempo. Del resto Pontecorboli confida a Erminio di aver addirittura costruito una macchina del tempo, come nel romanzo di Wells, e di aver anche visto Majorana scomparire proprio a bordo di quel mezzo. Per Erminio, quindi, è del tutto naturale credere che Giacomo stia fantasticando, un po’ come sta facendo lui stesso, impegnato a leggere ogni evento attraverso la lente della mitologia classica. Gli dei dell’Olimpo, però, c’entrano sul serio. Perché Ares e Poseidone parteggiano per le camicie nere, e Giacomo ne morirà. Ma Ermes e Atena, invece, seguono e spalleggiano i confinati, per i quali, come per le sorti della guerra e dell’Italia, arriverà il kairos, l’8 settembre 1943, il momento opportuno per il cambiamento.

La macchina del vento segue l’atmosfera e le contaminazioni (storia e “fantastico”) già sperimentate con Proletkult, anche se l’effetto sembra un po’ più fiacco. Non che manchino idee o scorci interessanti: ad essere di per sé buona è la ricostruzione di che cosa fosse il confino in età fascista; anche il richiamo di tanti nomi di confinati, più o meno celebri, è meritevole, perché sollecita il doveroso ricordo di protagonisti la cui esperienza e i cui ideali sono stati parte determinante del patrimonio politico e culturale su cui si è fondata la Repubblica. Ma la trama è piuttosto esile e, a tratti, la lettura può anche risultare noiosa. Il libro, però, si salva per due motivi. Innanzitutto può funzionare da ipertesto e stimolare la lettura di altri ottimi volumi, anch’essi pubblicati di recente: la voce Europeismo di Spinelli, ripubblicata da Treccani con un saggio di Giuliano Amato; il curioso W W W W – Wars of Worlds of Wells and Welles, che non ripropone La Macchina del Tempo – quella va assolutamente riletta nella traduzione di Michele Mari, per Einaudi – ma raccoglie i due famosi pezzi sull’invasione aliena, quello del grande campione della fantascienza e quello dell’ipnotico e istrionico regista, accompagnati da un suggestivo corredo di due pezzi critici e di alcune belle immagini. L’ultimo Wu Ming 1, ad ogni modo, si segnala anche per il fatto che al suo interno c’è un messaggio che non va sottovalutato, soprattutto sul piano della ricerca sulla storia dell’europeismo novecentesco. L’Autore fa leggere al suo personaggio – il giovane Squarzanti – il Manifesto di Ventotene, ancora clandestino. E gli attribuisce una serie di rilievi, né ingenui, né infondati. Facendo questo, certo, il romanzo prova a servirsi della macchina del tempo per dirci qualcosa sui vizi di un certo modo di concepire l’europeismo contemporaneo e su alcune sue amnesie e mancanze costitutive. Al contempo, però, invita anche a rammentare che il federalismo europeo degli antifascisti italiani rappresentava una galassia molto ricca e percorsa da proposte tanto sfortunate quanto veramente rivoluzionarie o decisamente originali. Chissà che ai lettori de La macchina del vento venga voglia di saperne di più e di approfondire, ad esempio, i pensieri e le opere di Silvio Trentin o di Umberto Campagnolo, che pure non vengono trattati e che, viceversa, meritano tuttora di essere riscoperti e meditati.

Una recensione (di Edoardo Zambelli)

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Liberio Fraterni è un postiglione trentenne che sfreccia con la sua diligenza lungo la Valle del Serchio. Trasporta la posta, naturalmente, da e per Lucca. Ma porta anche molti passeggeri, e le occasioni di incontrare qualcuno di celebre non gli mancano: trattandosi di una storia che si snoda dalla fine dell’Ottocento all’avvento del fascismo, Liberio ha modo di incrociare pure Pascoli e Puccini. Un giorno, in una fiera, acquista da uno strano trio di mercanti un cavallo nuovo, Balio, un destriero tutto nero, tanto veloce e fiero quanto intrattabile ed enigmatico. Da quel momento i due, l’uomo e il suo cavallo, diventano alleati inseparabili. Sfidano le intemperie più dure e neppure i banditi riescono a sorprenderli. Tra Balio e Liberio il legame è così forte da stabilire una vera e propria empatia, anche se faticosa e indecifrabile, perché Balio, sempre scalpitante, sembra alfiere di strani presagi. Nel frattempo Liberio ha un figlio, Amilcare, che però, innamorato del treno, della tecnologia e delle possibilità che i nuovi trasporti consentono, si allontana presto dall’orizzonte ancestrale cui è avvinta la sua famiglia, alla ricerca del progresso più vorticoso. E della guerra, occasione irripetibile di accelerazione, collettiva e individuale; tanto che si arruola volontario nei bersaglieri, lungo il fronte dell’Isonzo. Il primo conflitto mondiale, infatti, è cominciato, e per Balio e Liberio ci sarà occasione di una nuova avventura, anche se il destino della famiglia – per un attimo ricomposto, quasi per miracolo – dovrà comunque compiersi nel modo più doloroso. Nel nuovo secolo le vicende degli uomini non saranno più coordinate con l’incedere naturale delle cose e dei suoi più nobili testimoni.

Sono due i motivi per cui questo libro mi piace. Il primo – che forse è un po’ troppo personale – tira in ballo l’ambientazione: i luoghi suggestivi di una Garfagnana che sa presentare ancora oggi i segni e i colori di un tempo mitico e sospeso, di un paese profondo e in qualche tratto immutabile e, per questo, confortevole, quanto meno dal punto di vista emotivo. Mi è bastato leggere, nel romanzo, qualche toponimo per avere la sensazione di potermici cullare. In quella vallata le tracce di un certo passato si trovano, eccome. A Barga il caffè Capretz continua ad esistere. A Ponte a Moriano la stazione di posta, col cambio dei cavalli, pare ancora di vederla; basta fermarsi Da Erasmo, dove, se non fosse per un incombente cavalcavia di cemento, ci si sentirebbe veramente sbalzati in un’altra epoca. Un altro motivo per apprezzare il racconto di Pardini è il suo tono felicemente fiabesco. Pardini, infatti, vuole dirci qualcosa che va ben oltre la rievocazione di un momento storico e che riguarda il passaggio critico da un vecchio a un nuovo mondo e l’importanza di tenere aperto un canale di comunicazione. È Balio a portare il romanzo su quella lunghezza d’onda, sin dalla sua misteriosa comparsa. Liberio è attratto dall’aura magnetica del cavallo, ma allo stesso tempo è pervaso da una costante inquietudine, che proprio l’animale tende a risvegliargli in presenza di alcuni eventi: come se Balio fosse misura di uno speciale rapporto con la natura, tale da renderlo presago di tutto ciò che può drammaticamente alterare quel rapporto; e che può spostare troppo velocemente un senso del limite che andrebbe viceversa coltivato con cura. Sicché Pardini, in definitiva, ammaliandoci in veste di scrittore-aruspice, ci narra in modo efficace della sapienza empatica degli animali e del loro linguaggio come di un medium per ristabilire e preservare un contatto tanto antico quanto necessario.

Recensioni (di Bartolomeo Di Monaco; di Flavia Piccinni; di Maria Caterina Prezioso; di Bruno Quaranta)

Alcuni “ritratti” di Pardini: da nazioneindiana.com; da minimaetmoralia.it; da succedeoggi.it

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Sulla storia narrata in questo libro – la resistibile ascesa politica del Mussolini fascista, dal debutto sansepolcrista, nel 1919, alla fase definitiva del delitto Matteotti, nel 1924 – ci sarebbe da dire troppo, o forse troppo poco. Troppo, innanzitutto, visto che per apprezzarla fino in fondo occorrerebbe restituire in dettaglio i fatti e le suggestioni che attraversano niente meno che 827 pagine. Forse è semplicemente un libro da non commentare. Peraltro, come ha precisato il suo Autore, si tratta di un romanzo documentario, costruito direttamente con le parole dei protagonisti, e soprattutto del protagonista, con tutte le progressive metamorfosi che lo hanno caratterizzato: dall’essere il prototipo dello sbandato al diventare – riuscitissimo “uomo del dopo” – il più cinico e callido dominatore della scena politica italiana. D’altra parte, ciò che è narrato in M. non è frutto di fantasia. È una verità, questa, difficile da accettare. Metabolizzarla richiederebbe davvero un certo spazio, forse addirittura maggiore di quello che di per sé già occupa il ponderoso tomo. Allo stesso tempo, però, il racconto alluvionale fa emergere una realtà tanto vorticosa e prepotente da angosciare e quasi annichilire il lettore. Si rischia, dunque, di dire troppo poco. Anzi, si rischia un istintivo silenzio: quello cui si è di solito indotti quando ci si sente persuasi da un’apparente autoevidenza, in questo caso veicolata dalla forza del mix di eventi pressoché quotidiani, piccoli e grandi, di cui il volume rende analitica e drammatica testimonianza. Si tratterebbe, tuttavia, di un silenzio colpevole e (a pensarci bene) un po’ ignorante, perché la stupefazione che lo anima sarebbe quella di chi ritenesse di acquisire, finalmente, con un medium prevalentemente emotivo, una verità o una conoscenza razionalmente non attingibile. Eppure le cose non stanno così: sul piano storiografico, M. non aggiunge niente al consolidato e diffuso patrimonio di informazioni e conoscenze sul fascismo e sul suo Duce. Perché leggerlo?

Il fatto è che basterebbe riprendere le chiare e illuminanti (e poche…) pagine di un classico saggio di Giovanni De Luna (Benito Mussolini. Soggettività e pratica di una dittatura, Milano, 1978, 62-77) per assimilare con pari efficacia la lezione che Scurati avalla con così tanto apparato. Non è certo ignoto che la spregiudicatezza di M. – come il suo peculiare rapporto con la violenza e con i gerarchi più determinati – ha ricevuto assist decisivi da un contesto politico e istituzionale particolarmente frammentato, fragile, confuso e opportunista; né costituisce una scoperta l’ambiguo e ammiccante contegno di tanti (e illustri…) moderati, oltre che del re; né (ancora) può veramente sorprendere la constatazione sulla sostanziale e radicale vuotezza di un’ideologia che non è mai stata veramente tale, perché costruitasi per via di fortuite e occasionali addizioni progressive, che potevano esserci o meno, a seconda del vantaggio, anche soltanto retorico, che al momento parevano garantire. Circa la marcia su Roma, poi, nulla è meglio della caustica e incalzante ricostruzione di Lussu; e anche sulla fine di Matteotti non si svelano profili inediti. Eppure, proprio a quest’ultimo riguardo, proprio considerando, cioè, le modalità con cui Scurati si approccia, gradualmente, alla figura del deputato socialista – sulla cui intima, umana, debolezza il racconto si sofferma più volte – si può cogliere l’unico spunto che offre un senso, e un’utilità, al fotoromanzo del regime e del dittatore nascenti: virtù positive, si badi, che niente hanno a che fare con la possibilità di evocare, oggi, episodi o passaggi più o meno educativi – e più o memo calzanti… – sulla fisiologia disarmante di uno scivolamento socio-politico. È il contrasto con il campo di Matteotti a rendere plasticamente evidente la durezza e l’inevitabilità del campo di Mussolini, dominato, sempre e sin dal principio, dal vitalismo animale e irrefrenabile, e talvolta pavido delle sue stesse potenziali conseguenze, che alimenta tipicamente ogni sete di potere. Non poteva che vincere, questa orribile forza, specie a fronte di chi, senza avvertirne l’urgenza, non ne aveva capito l’essenza e non è stato in grado di fronteggiarla e di domarla.

Recensioni (di Roberto Antolini; di Ambrogio Arienti; di Mario Barenghi; di Davide Brullo; di Ivan Carozzi; di Antonio D’Orrico; di Ernesto Galli della Loggia; di Daniele Giglioli; di Lorenzo Pavolini)

L’Autore a Fahrenheit

Un’intervista a Scurati

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Anche per Curzio Malaparte, ambiguo ed eccentrico protagonista della scena culturale e letteraria dell’Italia del Ventennio, arriva il tempo della fine. La guerra, certo, è terminata da un pezzo e la fama di intellettuale di punta, nonostante tutto, non l’ha abbandonato. La Morte, però, non può più aspettare e gli si presenta direttamente, nella stanza della clinica romana dove si trova ricoverato, vestita ovviamente di nero e con il volto di una bellissima donna. Kurt Erich Suckert – questo il suo vero nome – non si potrà più salvare, ma ha l’occasione di espiare le sue colpe, dettando a due angeli un ultimo romanzo. Che è ambientato a Capri, nell’estate del 1939, tra feste sfarzose e turisti eccellenti, dove lo stesso Malaparte gioca un ruolo da protagonista assoluto, prima di essere accusato di omicidio e di finire, così, nelle grinfie dell’Ovra, potente polizia segreta del regime. Lo scrittore, infatti, viene sospettato di aver ucciso Pam Reynolds, caduta misteriosamente da un dirupo qualche anno prima, in uno dei luoghi più suggestivi dell’isola. Forse lo ha accusato l’odioso e pavido Sturmbannführer che si era invaghito della giovane poetessa e che lui stesso aveva sfidato e vinto a duello, proprio sul ciglio del burrone. O forse Mussolini ha deciso di sbarazzarsi definitivamente di lui; lui che nella sua coscienza porta i segreti e le vergogne del delitto Matteotti. O forse, ancora, si trova nel bel mezzo di un intrigo ordito dai nazisti, che per soddisfare la sete del Führer per l’occulto pare vogliano impadronirsi proprio della villa del padre di Pam, collegata chissà come con il centro della terra. Fatto sta che deve fuggire, non farsi trovare, e indagare, aiutato dal suo fidatissimo cane e dal principe di Sirignano, per cercare di capire come sottrarsi a un destino che pare segnato. Riuscirà a farla franca? Soprattutto, riuscirà questa storia a convincere la Morte?

Non c’è niente di convenzionale in Malaparte; non c’è nella sua vita, non c’è nei suoi scritti. Il romanzo rende bene l’idea, come la sviluppa altrettanto efficacemente il romanzo nel romanzo, un giallo picaresco e spionistico dal finale barocco, che a Malaparte sarebbe senz’altro piaciuto: non solo per l’eccentricità della trama, quanto per il suo essere un condensato di malapartismo spinto, talmente inverosimile dal rasentare la pura e semplice verità di un personaggio mai completamente sincero, eppure particolarmente affascinante ed efficace. La scena del delitto, allo stesso modo, è lussureggiante e surreale, una Capri all’ennesima potenza dei suoi profumi, dei suoi colori e dei vip che la eleggono, trasfigurandosi, a palcoscenico di amori, divertimenti e segreti. Su tutto domina Casa come Me, il tempio-rifugio assoluto, il mausoleo per la celebrazione di un protagonista che si vuole smisurato, misura egli stesso del mondo e delle cose, e che naturalmente, in un scenario in cui nulla è come sembra, se la cava egregiamente. Non è questa raffigurazione, tuttavia, a giustificare i meriti del libro abilmente intessuto da Monaldi e Sorti, che pure prende ispirazione da un fatto realmente accaduto. E che viceversa gioca sulla sensazione del disorientamento e del contrasto. L’equivoca e brillante grandezza del loro eroe non basta, infatti, a guadagnargli la salvezza dell’anima. Né sono sufficienti i ricordi tormentosi delle trincee del fronte occidentale a spiegarne l’umanità lacerata. È come se l’ultimo romanzo, dettato alla Morte, nel suo essere degna impronta del suo stesso Autore, contribuisse a condannarlo definitivamente, nella sua doppiezza, nella costante rimozione dell’opportunismo che lo ha reso complice e indifferente di ogni evento, anche di quelli più drammatici. Ciò che conta è scamparla e vincere, sempre: ma sul più bello, caro Malaparte, la Morte non si fa ingannare. Morte come Me ha partecipato all’ultimo premio Strega, rilanciando l’ipotesi di uno Strega ad honorem per il discusso scrittore italo-tedesco. Premio o non premio, poco importa: La pelle e Kaputt sono libri che si sono conquistati già un posto d’onore, e che oggi, forse, soltanto il miglior Carrère sarebbe in grado di concepire. Ma il fatto è che, per Malaparte, l’ammirazione corre sempre sul filo del disgusto; ed anche questo è un modo per restare invariabilmente unico, anche post mortem.

Recensioni (di Pier Mario Fasanotti, di Roberta Scorranese, di Mirella Serri)

Conversazione con gli Autori

Citofonare Malaparte (di Michele Masneri)

Recensione di Tecnica del colpo di Stato (su questo sito)

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Gli Alleati risalgono l’Italia in modo irresistibile e il colonnello Martin von Bora, ex ufficiale dell’Abwehr, lascia Roma: deve raggiungere il suo nuovo comando sugli Appennini. Siamo nel giugno del 1944, la Wehrmacht sta cercando di assestarsi in prossimità della Linea Gotica. Bora, però, viene bloccato lungo il percorso, perché per lui gli ordini sembrano improvvisamente cambiati. Il suo passato lo richiama in sevizio. Senza che le SS lo sappiano, deve fermarsi a Faracruci, un piccolo paese sul massiccio del Gran Sasso, per tentare di recuperare un carteggio di importanza fondamentale, quello tra Mussolini e Churchill. Durante la prigionia di Campo Imperatore, l’ex Duce lo avrebbe consegnato in gran segreto a Luigi Borgonovo, un oppositore del regime confinato da anni nel remoto borgo abruzzese. Bora ha pochi giorni, perché non può permettersi che la sua missione venga vanificata dagli americani, dai partigiani o dallo stesso esercito tedesco. Ha capito, infatti, che anche nelle alte sfere dei comandi berlinesi si sta giocando una partita complessa; e lui, in fondo, sa da che parte stare. Tuttavia Borgonovo non vuole rivelare il suo segreto, e a complicare il tutto ci si mette anche un misterioso omicidio: nella piazza di Faracruci viene ritrovato il corpo morto di un uomo sconosciuto. Dal paese, nel frattempo, sono fuggiti anche i Carabinieri. Bora, unico ufficiale presente, si sente quasi costretto ad indagare, con la speranza di essere aiutato, in ciò, da Borgonovo, con cui vuole entrare in confidenza. Si apre in tal modo un giallo nel giallo, un mistero le cui radici affondano nel primo conflitto mondiale e negli intrighi più contorti della sparuta comunità locale, dei suoi notabili e dei poveri contadini che da sempre lavorano per loro. La detective story si articola ora per ora nel microcosmo di Faracruci, ma sullo sfondo delle grandi manovre militari e delle sorti fatali dell’Italia e della Germania.

La Pastor riesce sempre a confezionare storie interessanti e suggestive. Non c’è dubbio che il perno capace di farle tutte ruotare nella direzione giusta sia sempre il personaggio di Martin von Bora: uomo di nobile lignaggio, colto, intelligente, inossidabile. Il fatto che militi come braccio armato della Germania nazista contribuisce ad esaltarne, per contrasto, il fascino: non può non servire la sua Heimat, ma al contempo sente di doverlo fare negli unici modi che l’onore e la cultura gli suggeriscono. L’orrore lo ha percepito distintamente, ha attraversato la sua vita e la sua famiglia. E anche in questa storia il dissidio emerge in modo netto, tanto più che la missione segreta che gli è stata affidata proviene, con tutta probabilità, da quelle gerarchie che, avvertendo l’ormai prossima disfatta del popolo tedesco, cercano di procurarsi con ogni mezzo gli strumenti per una possibile trattativa con i futuri vincitori. Da questo punto di vista, Il morto in piazza andrebbe letto alternando le sue pagine alla visione di Operazione Valchiria. Sennonché sullo schermo irrompe anche il valore aggiunto del giallo, che, per rimanere sul piano cinematografico, sarebbe stato bello veder girato da Carlo Lizzani. Come sarebbe stato bello saperlo sceneggiato da Silone, perché il grumo che lo strano e inflessibile detective germanico si trova a dipanare è condito delle amare e invincibili pietanze della povertà, dell’interesse e del risentimento. Così collocato, Faracruci è un piccolo e simbolico laboratorio di un’Italia perennemente intricata e indifferente: accade di tutto ai suoi confini, ma la sua vita è sconvolta soltanto dalle vergogne quasi macchiettistiche e melodrammatiche della peggiore e immobile provincia. Ma non è soltanto per questo che le indagini di Bora sono avvolte come da una bolla, che il ritmo del romanzo è lento, che il tempo sembra quasi fermo, che le ore e le notti, sospese, scandiscono un’azione apparentemente estranea al teatro di guerra. Bora sta vivendo la fine di un’epoca e la sua creatrice non poteva scegliere una malinconia più accattivante.

Il sito dell’Autrice

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1937: l’Impero è stato proclamato da poco più di un anno, ma l’Etiopia è ancora un paese in rivolta. La conquista di Addis Abeba non è stata sufficiente. Nel Goggiam è in corso una vera e propria sollevazione, che camicie nere, truppe coloniali e bande organizzate non riescono a sedare. Al Vice Re Graziani arrivano anche notizie inquietanti, storie di condanne sommarie e sparizioni, forse all’origine della rabbia dei ribelli. E dire che lo stesso Graziani, dopo aver subito un attentato, aveva inaugurato una repressione spietata. Ora teme di perdere il controllo della situazione, e si vede costretto a vederci più chiaro e a inviare una spedizione segreta, comandata da Vincenzo Bernardi, abile e stimato graduato della Giustizia Militare. Lo accompagnano il tenente Valeri e il fedele Welè, sciumbasci a capo della scorta armata. Il loro è un lungo e pericoloso viaggio nel “cuore di tenebra” dell’Africa italiana, dove tutto è ambiguo e poco decifrabile, e dove le minacce sono costanti. La resistenza della popolazione locale è forte e fiera, e gli occupanti italiani sembrano mossi da istinti poco virtuosi, se non da disegni indecifrabili e potenzialmente eversivi. Anche l’esercito pare comandato da ufficiali indolenti, timorosi e inadeguati, tanto che Bernardi e Valeri si trovano improvvisamente travolti dalla terribile disfatta delle truppe che avrebbero dovuto domare il nemico. Feriti e imprigionati dai ras del territorio, riescono a salvarsi per circostanze apparentemente miracolose, il cui oscuro significato riusciranno a comprendere soltanto molti anni dopo, a guerra finita: sarà il vecchio generale Badoglio a spiegare a Bernardi i retroscena di tutta quella strana vicenda.

Gli Autori hanno costruito un thriller storico di tutto rispetto, prendendo spunto da fatti realmente accaduti, qui reinventati con respiro cinematografico. La verosimiglianza c’è tutta, custodita dal montaggio accurato di un fitto apparato di dispacci militari, tratti da comunicazioni originali dell’epoca. È assai minuziosa anche la descrizione delle operazioni sul campo, degli scontri armati e dei corpi che vi sono coinvolti. Non sono meno efficaci le figure, a loro modo esemplari, che animano la trama, e che la dicono lunga, meglio di molte ricostruzioni storiografiche, sulle ambizioni, sulla crudeltà e sulla mediocrità della milizia occupante e dei suoi comandi. La leggenda del buon italiano ne riesce nuovamente smascherata. Naturalmente spiccano, per distinzione, i due protagonisti, Bernardi e Valeri, che non sfigurerebbero neanche nei romanzi di Leonardo Gori: coraggiosi, onesti e tenaci come il capitano Bruno Arcieri; un esempio di un’italianità leale, con la schiena dritta, che – come si desume dal racconto – dev’essere stata particolarmente rara. Va detto che il libro, pur avallando la tesi che da tempo cerca di accreditare l’idea di un esercito non del tutto al servizio del regime, lascia intravedere anche un giudizio negativo sulla monarchia e sui suoi più alti ufficiali. Come se la disfatta dello Stato sia stata anche il frutto di una contesa mai risolta tra fascismo e casata reale, a volte conniventi, altre volte l’un contro l’altra armati, anche a colpi di intelligence. Il romanzo, ad ogni modo, ha anche qualche punto debole: è un po’ troppo lungo, in primo luogo; e le vicissitudini, in patria, delle fidanzate dei due ufficiali paiono sostanzialmente posticce, troppo estranee al cuore dell’intrigo poliziesco e istituzionale. Dopodiché è un copione dal quale David Lean avrebbe potuto realizzare un Lawrence d’Arabia in salsa tricolore: e questo basta.

Recensioni (di Maurizio Crosetti; di Antonio D’Orrico; di Alessandro Gnocchi; di Igiaba Scego)

Il libro a Fahrenheit

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È un romanzo in tre tempi. Il primo (1933-1945) è il tempo del padre, Luigi, di cui si racconta la giovinezza e la crescita, dal matrimonio alla guerra sul fronte balcanico, fino alla militanza partigiana in Istria. Il secondo tempo (1945-1982) è quello del figlio, Valerio, alter ego dell’Autore, seguito in due diverse fasi del suo percorso, dall’adolescenza dell’educazione sentimentale alla maturità della docenza universitaria e dell’impegno di partito. Il terzo tempo (2005) appartiene al “figlio del figlio”, Marcello, tornato in Italia, da Londra, sulle tracce di se stesso, del padre e del padre di suo padre. Ai tre tempi non corrispondono soltanto, come spiega Luperini stesso nella Nota che chiude il volume, tre diversi modi di narrare (la docu-fiction di carattere storico; l’autobiografia romanzata; il racconto in terza persona). Quei tempi sono anche tre contenitori: di una ricerca psicologica che si muove su più generazioni, e degli scenari, familiari, sociali e politici sui cui di volta in volta la ricerca si articola. Si assiste, così, ad un lungo viaggio introspettivo, che attraversa il fascismo, la Resistenza, la rinascita della mobilitazione politica, gli anni di piombo, lo smarrimento della fine del secolo. E a questo viaggio si intreccia il percorso dell’Autore e del suo dna di studioso engagé, in un continuo rimando tra ragioni private e istanze collettive, tra fragilità affettive e stati di equilibrio.

Il genere cui appartiene questo testo è quello dei libri che per essere compresi e assimilati richiedono un adeguato periodo di sedimentazione. A distanza di qualche ora, infatti, si prova già nostalgia per lo stile pacato e il periodare pulito. Ma il valore di questa lettura non si esaurisce qui. Anzi, la scrittura piana in questo caso proprio non aiuta, perché potrebbe stimolare un giudizio soltanto semplicistico. Si potrebbe avere l’impressione di trovarsi di fronte alla sceneggiatura di una meglio gioventù più intimistica, più esistenziale. Non è così, però. Né si può pensare che la cifra di questa storia sia solo quella strettamente autobiografica: che peraltro, nel caso di specie, è interessante comunque, visto che a mettersi a nudo, sia pur in forma romanzata, è uno degli intellettuali italiani più noti e apprezzati. Anche l’esemplarità, tuttavia, non spiega tutta la suggestione che l’Autore riesce a imprimere alle sue pagine. Il loro punto di forza, il motore che le alimenta è in quella parola, rancura, che sta nel titolo e che è tratta da una poesia di Montale. Non è soltanto un omaggio al cuore delle attenzioni filologiche di Luperini e del suo magistero di critico. La rancura è il vero protagonista del romanzo. È una sensazione di afflizione che deriva da un rimprovero istintivo e malinconico, ma soffocato; dal senso di un condizionamento sofferto, che altri, forse, ha imposto, in modo tuttavia indelebile e naturale, come se fosse un testimone difficile, da prendere con la coscienza che non lo si potrà mai superare davvero, se non comprendendolo e accettandolo. Come si fa con i genitori, ci ricorda Luperini; e come si fa anche con le proprie origini, le proprie case e i propri amori, e infine anche con il proprio paese.

Recensioni (di Angelo Guglielmi; di Pierluigi Pellini; di Floriano Romboli)

Un’intervista a Romano Luperini

L’Autore a Fahrenheit

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Bruno Arcieri, colonnello dei servizi segreti, è ufficialmente in pensione. Dopo la sua ultima avventura, che lo ha visto rischiare il tutto per tutto, si è stabilito a Firenze e ha aperto una trattoria, facendosi aiutare dai giovani che aveva già conosciuto prima di chiudere i conti con il passato (v. Il ritorno del colonnello Arcieri). O, quanto meno, prima di averci provato. Perché se da un lato può immaginare davvero di cominciare una nuova vita, accanto alla bella Marie, dall’altro viene presto costretto a riattivarsi, ad assaggiare la concitazione di nuove prove. Angela, una delle sue giovani cuoche, si è messa nei guai, e nessuno ne capisce le ragioni; oltre a ciò, Nelli, anziana nobildonna e amica fedele, gli chiede di fare alcune indagini, per verificare se sia proprio vero che Antonio Arnai, padre di Nicoletta, è scomparso a Milano, nel terribile attentato di Piazza Fontana, avvenuto qualche giorno prima. I fronti, dunque, sono due, e Arcieri è presto coinvolto in un susseguirsi di spostamenti, inseguimenti e cambi di scena: per un verso deve fronteggiare a viso aperto le ansie delle nuove generazioni e i pericoli cui sono esposte, che, tuttavia, lo preoccupano e lo affascinano allo stesso tempo; per altro verso deve rituffarsi in un mondo ambiguo e pericoloso, che credeva superato. Anche l’età comincia a farsi sentire. Vecchie spie, lontani ricordi, un gruppo di musicisti capelloni, un anziano faccendiere, una matrona spietata, una valigia piena di misteriosi documenti, un conclusivo colpo di scena: a Gori bastano pochi ingredienti per rituffare il suo eroe nella mischia, per confezionare un apparente lieto fine e per lanciarlo subito verso una missione ancora tutta da scrivere.

Non è tempo di morire è un romanzo di transizione; e forse – non ci sarebbe nulla di male – è anche un libro un po’ “furbo”. L’Autore aveva bisogno di capire se il fortunato personaggio sarebbe stato in grado di reggere ancora la tensione, di “tornare”, cioè, un’altra volta. E Bruno Arcieri, certo, ha risposto con un colpo di reni, testando il suo fisico e la sua caparbietà, e riscoprendo il profondo senso dell’onore che gli impone di andare fino in fondo, al di là di ogni stanchezza o nostalgia. Ma la storia – quella che ogni volta tutti i fans di Gori si aspettano, da Nero di maggio in poi – ha ancora da venire; ci viene prospettata, infatti, solo nel finale, come antipasto del prossimo volume. C’è da dire, però, che l’astuzia dell’Autore – o la strategia dell’editore… – termina qui. L’impressione, cioè, è che la transizione non sia stata forzata, ma sia, piuttosto, la conseguenza del più tipico, e conclamato, processo di simbiosi tra lo scrittore e la sua creatura. È come se i due si fossero presi ancora del tempo per guardarsi negli occhi e sciogliere alcuni interrogativi fondamentali (o fondanti). Ora che tutto è stato fatto e provato, e che Arcieri è morto e risorto, ed è pure invecchiato; ora che Gori ha già presentato Arcieri a Bordelli, il commissario creato da Marco Vichi, che tra l’altro compare anche nelle ultime pagine di questo romanzo (quasi l’implicita conferma di un passaggio di testimone), ci può essere spazio per continuare lo stesso ciclo? La risposta sembra affermativa, anche se a tratti, e soprattutto nello showdown che oppone l’anziano carabiniere alla vecchia Ada, ci è parso che Gori abbia voluto sperimentare il passaggio dall’Arcieri James Bond all’Arcieri detective. Ma i panni di Bruno, decisamente, sono altri, e così anche la fantasia dell’Autore si è ribellata, rimettendolo in pista a dispetto di qualsiasi credibilità anagrafica. Se la scelta sia stata giusta, lo si scoprirà presto, nella prossima e graditissima puntata.

Il sito dell’Autore

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