Si sa che i film non sono mai la stessa cosa dei grandi libri da cui possono essere tratti. Ciò non toglie, però, che possano essere cosa diversa in modo più che degno e, anzi, originale. Così è anche per questo Martin Eden cinematografico, che ha poco da spartire con quello letterario di Jack London, se non per la struttura base del racconto. La collocazione spazio-temporale – una Napoli sospesa in un tempo indefinito e fluttuante, tra inizio del Novecento, anni Venti, anni Cinquanta e anni Settanta – è del tutto eccentrica. Resta l’idea del giovane di umilissime origini, un po’ marinaio e un po’ operaio, che si innamora di una ragazza benestante e conosce l’enorme potere della lettura e della scrittura come strumenti di emancipazione. Ci scommette tutto, lasciandosi ispirare dal suo mentore, l’enigmatico Russ Brindessen, e rischiando la solitudine più triste e la povertà. Poi, all’improvviso, arriva il successo editoriale e di pubblico, ma la redenzione sperata non arriva, né quella individuale, né quella collettiva. Perché – come afferma lo stesso protagonista all’inizio del film, che lo ritrae al termine della sua parabola – “il mondo vince sempre” e ciascuno non può che abbracciare il suo destino.

Luca Marinelli, l’attore che interpreta Martin, è stato molto lodato. Eppure è eccessivo, ipercaratterizzato, quasi forzato. E poi passa con troppa enfasi da un Harrison Ford in versione guappo a un Edward Furlong nuovamente in forma ma calato nei panni di un poeta maledetto. Ad essere sinceri, Marinelli, che è stato anche premiato, è l’unica cosa sproporzionata e non calzante della pellicola. Molto meglio, senza dubbio, è l’interpretazione di Carlo Cecchi (Russ Brindessen), che in una scrittura tanto teatrale non può che spiccare e ribadire tutto il suo spessore. Le parti migliori di Martin Eden, comunque, sono il film stesso e la sceneggiatura: il film, per l’aura e i colori caldi tra la favola e l’operetta, in un assemblaggio che profuma d’antan, con inserzioni sempre precise e azzeccate di registrazioni d’archivio belle ed evocative; la sceneggiatura, per le implicite ma evidenti venature nazionali del personaggio Eden, costruito montando il tratto più fotogenico e impulsivo di differenti e forti eroi del riscatto meridionale e sociale. Martin, infatti, anche nella sua completa illusione, assomiglia a Luca Marano, tratto di peso da Le terre del sacramento di Francesco Jovine e condito con un pizzico di Rocco Scotellaro e un pizzico di Nicola Chiaromonte. Fornito di coraggio, di slancio utopistico e di una conquistata coscienza, il ragazzo viene fatto vagare con intenzione drammatica nelle transizioni costantemente e tristemente interrotte del Novecento italiano, alla ricerca (tutto qui) di un semplice traguardo di umano riconoscimento. In fondo, sotto traccia, si agita anche uno spirito leopardiano. A Venezia andavano premiati soprattutto Pietro Marcello, il regista, e Maurizio Braucci, lo scrittore partenopeo che tanto bene lo ha affiancato.

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Se in qualche sera estiva si accetta il rischio di abbandonarsi a possibili scoperte televisive, non è improbabile che si venga ricompensati. Rai3 è stata in grado di riproporre l’ottimo Identity (2003), di James Mangold, che ha enfatizzato, senza perderci nulla, il soggetto classico di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. La7 ha ripescato addirittura l’originalissimo, eretico Gloria-Una notte d’estate (1980), di John Cassavetes, con la strepitosa e spiazzante interpretazione di Gena Rowlands, che a suo tempo assicurò al film il Leone d’oro. Per chi non l’avesse mai fatto, Gloria è davvero da vedere, sempre e comunque; e anche indipendentemente dal finale, che ho appreso essere stato, ingiustamente, criticato, perché considerato artificioso e posticcio. Comunque sia, il colpo di scena definitivo – almeno per chi scrive – lo ha riservato Rai5, che to be honest non è parca di piccole, rare perle anche durante l’ordinaria e desolante amministrazione dei mesi di schiavitù. Rai5, infatti, ha mandato in onda Solo gli amanti sopravvivono (2013), di Jim Jarmusch, una pellicola che gronda sovrana e nobile sprezzatura, la stessa che esige dallo spettatore, e che pertanto può comunemente restare senza riscontri, se non spaventare e allontanare. In verità è un imperdibile, raffinato esercizio manierista, che si risolve in tre proposte: un’interpretazione un po’ gotica dell’eterno dissidio tra istinto e ragione; un inno struggente all’amore e all’arte, rappresentati come i più grandi presidi di una buona esistenza; un rovesciamento quasi ironico de Il cielo sopra Berlino di Wenders. I protagonisti, infatti, non sono angeli, ma due vampiri, marito e moglie da centinaia di anni. Lui (che ha quasi le sembianze di un Manuel Agnelli allo stato eremitico) si chiama Adam e vive a Detroit, recluso in una casa della periferia più degradata, colleziona chitarre e compone pezzi sofisticati. Lei (la si potrebbe confondere con un’Alba Rohrwacher ancor più anemica dell’originale) si chiama Eve e vive a Tangeri tra migliaia di libri e frequenta ogni notte un caffè in cui incontrare Christopher Marlowe, drammaturgo inglese del Seicento, caro amico da tempo immemore, a quanto pare, e anch’egli vampiro. Adam vuol farla finita, gli zombie (così chiama gli umani) sono degradati a tal punto da non riuscirgli più sopportabili: anche il loro sangue è ormai contaminato, tanto che per nutrirsi in sicurezza i vampiri devono farsi aiutare da medici compiacenti. Eve vuole salvarlo e parte da Tangeri per stargli vicino. Ma gli spiragli di serenità che la coppia ritrova sono interrotti dall’arrivo improvviso e sguaiato della sorella di lei, Ava, che li riporta alla realtà e li costringe ad una fuga appartenente definitiva e alla ripetizione invariabile della loro irriducibile natura. Gli sguardi pulp di Adam e l’eleganza genetica di Eve sono esaltati da una colonna sonora ancor più suggestiva. Sul divano, alla fine, manca un bicchiere di assenzio, per farla completa anche da questa parte dello schermo.

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fotoPalermo, 1937. La Corte d’assise è chiamata a giudicare “un uomo che aveva ucciso tre persone in un breve giro di ore”: nell’ordine, “la moglie dell’assassino; l’uomo che dell’assassino aveva preso il posto nell’ufficio da cui era stato licenziato; l’uomo che, al vertice di quell’ufficio, ne aveva deciso il licenziamento”. Quest’ultimo era un notissimo avvocato, presidente dell’Unione Provinciale Fascista Artisti e Professionisti, pezzo grosso del partito, dunque, ma anche influente amministratore delle cose pubbliche locali. I fatti, peraltro, sono chiari, e i legali dell’imputato non chiedono neanche la perizia psichiatrica. L’opinione pubblica, poi, sembra schierata a favore di un solo esito, da tutti percepito come giusto e inevitabile: la condanna a morte, reintrodotta dal Codice Rocco del 1930 anche per alcuni gravi reati comuni; per continuare, cioè, a dormire “con le porte aperte”, come vuole la “suprema metafora dell’ordine, della sicurezza, della fiducia”. Però, nonostante i messaggi allusivi e trasversali ricevuti in tal senso anche per bocca del procuratore generale, il giudice a latere nutre forti dubbi. La pena capitale non lo convince, e le perplessità aumentano anche per le sollecitazioni e le letture che egli finisce per condividere con uno dei giurati. Lo scrupolo vincerà la battaglia, ma non la guerra, che, alla fine, riporterà tutto – compreso il “piccolo giudice” – ad una sconsolante e umana proporzione.

Il segreto di Sciascia, della sua grandezza, non è facilmente afferrabile. D’altra parte è un segreto, che tale deve restare, fascinoso. Si nasconde sempre nella lingua, nell’uso accorto dell’italiano scritto e cólto, alla maniera dei grandi siciliani del Novecento: Brancati, Consolo, Bufalino… La disciplina dello stile e della parola ne è il fortino, ma anche la chiave, complicatissima e allusiva, veicolare e pur sostanziale, in un’unica soluzione espressiva. Questa disciplina segue e corrisponde ad un rigore tutto interiore. La letteratura e la morale, così, dialogano in un contrappunto che non si può mai interrompere; soprattutto, in un flusso, cui la coscienza – individuale, sociale, civile e politica – deve alimentarsi, per affrontare le astuzie apparentemente invincibili del malaffare e del potere che gli si asservisce quasi inesorabilmente. Il problema ha una dimensione filosofica, totalizzante, non si risolve soltanto nella critica al sistema mafioso o al fascismo (al quale, in questo libro, Sciascia dedica alcuni passaggi memorabili: v. specialmente alle pp. 71-73). E non si rivolge neppure alla sola pena di morte, la cui barbarie, tornata anche di recente all’attenzione delle cronache, viene denunciata con rara e sensibile acutezza europea, ben al di là di quanto ci è stato consegnato in tempi recenti dai più illuminati interpreti d’oltreoceano. Quel problema – che trova un suo naturale spazio d’elezione nel foro interno di ciascuno – ha anche un protagonista e un luogo istituzionali, che vengono introdotti subito anche dalla citazione che avvia Porte aperte, presa di peso dai famosi Soliloqui di Salvatore Satta: “il processo si pone con una sua propria autonomia di fronte alla legge e al comando, un’autonomia nella quale e per la quale il comando, come atto arbitrario di imperio, si dissolve, e imponendosi tanto al comandato quanto a colui che ha formulato il comando, trova, al di fuori di ogni contenuto rivoluzionario, il suo ‘momento eterno’”. Viene coinvolto, in tal modo, il giudice, con il suo ruolo, il suo carattere (in tutto e per tutto) decisivo, e quindi con la sua esemplarità, vera ragione dell’interesse ricorrente, per Sciascia, nei confronti della funzione giurisdizionale e dei i suoi abissi, come già dimostrato nella bellissima introduzione alla manzoniana Storia della colonna infame.

Dal romanzo passo al film, pluripremiato, che ne aveva tratto Gianni Amelio, con un maturo Gian Maria Volonté (in grande spolvero) nei panni del giudice dubbioso. La curiosità è soddisfatta, perché si tratta di un’ottima prova: nella fotografia, nelle luci, nella scelta di un generale clima di disfacimento che forse ben si addice all’esigenza – che sicuramente sentivano il regista e gli sceneggiatori – di ricostruire un’ambientazione storica e sociale adeguata, ma anche di renderla immagine di un Paese ripetutamente sotto scacco (ancora non resisto alla tentazione di paragonare le dimensioni dell’ufficio dell’avvocato ucciso a quelle dello studio dell’imprenditore Nottola, ne Le mani sulla città di Francesco Rosi…). Nel lavoro di Amelio, però, la grandezza di Sciascia quasi scompare, perché il suo segreto è scopertamente sciolto in direzioni ben precise, di critica culturale e politica, al di qua, per così dire, del profilo esistenziale che l’opera letteraria voleva mettere al centro della scena. In quella cinematografica, infatti, le parti si invertono: non sono le cose e le persone a cooperare a favore dello sviluppo del tema; è il tema ad adattarsi alle esigenze di certi contesti e di certe figure, allo scopo, dominante, di dire molto sulla situazione e sul clima di un determinato periodo o di un determinato modello sociale, e per dire (anche) dell’altro (ma) soltanto in chiave di resistente posizione intellettuale. Il che, per intendersi, non è di poco momento, visto che, forse, la strada indicata da Sciascia è ancora troppo complessa.

La morte come pena in Leonardo Sciascia (un convegno, da Radio Radicale)

Porte aperte, dal romanzo di Sciascia al film di Gianni Amelio (di Giuseppe Panella)

Sciascia on screen, tra pamphlet e thriller. Due riletture postume: Porte aperte e Una storia semplice (di Alessandro Marini)

Il sito degli Amici di Leonardo Sciascia

La Fondazione Leonardo Sciascia

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Ad Alberto Lattuada si può arrivare anche per caso, in un pomeriggio noioso, durante il quale vedere in tv un vecchio kolossal degli anni Cinquanta, come La tempesta (1958). Così mi era capitato, in effetti, diversi anni fa, e dopo quel pomeriggio la voglia di leggere La figlia del capitano, il romanzo di Puškin da cui il film era stato tratto, aveva avuto il sopravvento. Ma i pomeriggi noiosi, si sa, non sono mai troppo pochi, ed è successo che, immerso nello stesso mood di una giornata nuovamente stanca, di Lattuada ho visto anche Anna (1951): l’immagine di Silvana Mangano si è stampata nella mia mente, come il ritmo di El Negro Zumbon, la canzone musicata da Armando Trovajoli, che la bellissima e giovanissima attrice interpretava nel doppiaggio della vicentina Flo Sandon’s (alias di Mammola Sandon, prossima vincitrice del Festival di Sanremo del 1953, assieme a Carla Boni, con Viale d’autunno). Dopo un po’ di tempo, altro pomeriggio noioso, ed altro film di Lattuada, molto diverso dagli altri due. Questa volta lo incontro su una piccola rete locale, ed è Mafioso (1962), interpretato da un inedito e stranissimo Alberto Sordi, eppure a suo modo, e ancora, indelebile. A conferma del fatto che, una volta visto, Lattuada non ci molla più.

Ho rivisto Mafioso anche questa settimana, in occasione di un cineforum. Ciò che accade al protagonista – un ingegnere siciliano che vive e lavora a Milano, in una grande industria, e che torna con la moglie lombarda in Sicilia, per una breve vacanza nel suo paese natale – riesce sempre a sorprendermi. Nino Badalamenti (Sordi) è animato dal desiderio di riscoprire tutta la sua migliore gioventù e di farla conoscere alla sua consorte. Ma il suo viaggio è un difficile processo di autocoscienza, che lo attanaglia ad un ordine sociale arretrato ed autoritario, e che lo risucchia nel sofisticato ordine criminale che di quell’ordine sociale rappresenta un destino apparentemente irrefutabile. Il vortice che travolge l’ingegnere è parzialmente insospettabile, nei suoi sviluppi, anche per lo spettatore: sicché l’impensabile si realizza, implacabilmente, e la proiezione si chiude dove era cominciata, nei movimenti e nei suoni della fabbrica in cui Nino ritorna ad essere il puntuale quadro industriale di cui ogni azienda vorrebbe disporre.

Quali sono, però, le cose che, come sempre in Lattuada, finiscono per non mollarci più? La prima fra tutte, forse, è la scelta dell’attore principale, quella apparentemente più discutibile: perché l’accento siciliano del romano Sordi è eccessivamente marcato; perché si tratta di un’icona della commedia catapultata in un ruolo fortemente drammatico; perché il tema è serissimo e, nonostante ciò, la maschera comune del grande attore nazional-popolare non manca di suscitarci qualche risata. Tuttavia è proprio questo immediato fattore di debolezza a rendere vincente l’intuizione del regista: Sordi, nel film, non è (solo) il siciliano; è (proprio) l’italiano medio, con la sua piccola famiglia, i suoi affetti, i suoi piccoli pregi e i suoi piccoli difetti; è quella parte dell’italianità più ordinaria in cui si nasconde, quasi strutturalmente, il seme di una tragica debolezza morale. In proposito, mi piacerebbe pensare che l’opzione Sordi sia venuta in mente, a Lattuada, dopo quel ciclo di film – girati da Luigi Zampa: Anni difficili, Anni facili, L’arte di arrangiarsi – in cui, poco tempo prima, l’Albertone aveva messo a nudo proprio quella debolezza ed aveva attirato tante critiche, specialmente nel mondo politico.

Mafioso, peraltro, è ricco di tante altre suggestioni. È, ad esempio, una storia di chiasmi, di progressi che si incontrano e che vanno, però, in direzioni opposte: Nino affonda in un crescendo di disillusioni, vittima di una precisione che scopre di portare in un cuore molto fragile e che è del tutto parallela a quella rettitudine ordinatrice che dimostra quotidianamente nel suo lavoro, così moderno e produttivo; mentre la moglie, dal principio assai riottosa a calarsi in un contesto socio-culturale tanto diverso dal suo, tesse un legame di complicità con la cognata, riuscendo anche a liberarla da alcuni dei tanti complessi che ancora pesano, in quello stesso contesto, sulla condizione femminile. Forse, allora, è davvero corretta la lettura di chi coglie, in Mafioso, l’impronta studiata del Lattuada raffinato neorealista, e quindi un impietoso parallelismo, tutto politico, tra le costrizioni omologanti della società industriale e gli imperativi degradanti di una società patriarcale ed oppressiva e delle autorità mafiose che capillarmente la governano.

Per quale motivo questo Lattuada non viene ricordato tra i più significativi autori del cinema italiano? Probabilmente per alcune sfortunate ed assorbenti coincidenze temporali (nel 1962 esce anche il Salvatore Giuliano di Rosi); o per il duro giudizio di interpreti tanto importanti (come Sciascia, che a Mafioso rimproverava l’idea di una mafia troppo facilmente onnipresente e, per ciò solo, del tutto indistinta, consegnata, se del caso, alla riproposizione di tanti superati stereotipi). Comunque sia, e come altre volte, Lattuada riesce anche qui ad ottenere il consueto risultato: domande, suggestioni, pensieri e curiosità continuano ad affollarvi la mente. Tutto merito di un regista singolare, che dopo aver “guidato” le mani e gli occhi di Fellini (in Luci del varietà), ha gradualmente “sposato” Monicelli e Soldati, l’esterno e l’interno, il luogo delle avventure, individuali e collettive, e il luogo delle trasformazioni psicologiche e delle indagini antropologiche. Il segreto è questo: Lattuada, da fuori, ci attira dentro; per questo non ci molla (e non ci tradisce) mai.

Il film completo on line

Un breve omaggio a Lattuada (di Goffredo Fofi)

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In questa Giornata della memoria, dopo aver rivisto il film che Vittorio De Sica aveva tratto dall’omonimo dramma di Sartre, tante cose mi riescono difficili. La prima è comprendere lo scarso successo che quest’opera ha ricevuto nel 1962, al tempo della sua prima proiezione. Era davvero troppo sofisticata? O forse era il tema ad essere ancora troppo “duro” da affrontare sul grande schermo? Non è facile individuare una spiegazione: perché, in verità, De Sica è riuscito a portare al cinema un complessissimo pezzo di grande teatro; e perché lo spinoso rapporto tra un intero paese, la Germania, e il ricordo degli orrori e dei crimini del regime che l’ha storicamente travolto non poteva essere reso in un modo migliore.

È questo stesso modo, però, a costituire il secondo profilo di difficoltà. E ciò per il fatto che la tragicità estrema del finale non sembra lasciare scampo. Lo squarcio sulla verità del presente e sul pratico, e quasi indifferente, superamento del passato conferma per Franz una condanna totalmente irrefutabile. Eppure, il giovane ufficiale che si è reso complice di brutalità indicibili e che vive, schizoide, da sequestrato nella soffitta della ricca casa paterna – “protetto”, paradossalmente, sia dal rischio di una sua cattura da parte dei vincitori, sia dal fantomatico e finto scenario di irrimediabile disfatta che gli viene quotidianamente ammansito dalla figura ambigua della sorella Leni – ci sembra intimamente consapevole della giustizia intrinseca che la sconfitta deve necessariamente determinare, e ci pare, pur nella sua conclamata follia, anche migliore del padre (magistralmente interpretato da Fredric March), di quella agiata generazione borghese che nel suo proprio interesse non ha esitato a lasciarsi sedurre e a vendere al nazismo tutta la vita dei suoi figli più capaci. È una tentazione, questa, che può riproporsi ancora, che affonda le sue radici in una debolezza morale che è ricorrente in ogni contesto sociale.

Ecco quale può essere il punto: il fatto che il film sembri del tutto sballato, o a tratti addirittura “stralunato”, se da un lato stona con le attese che la partecipazione di attori di primo piano poteva suscitare (e con il consueto realismo della sperimentata coppia Zavattini-De Sica), dall’altro realizza un effetto allucinante e disorientante che giova alla materia e al contesto, così come alla tensione psicologica che percorre tutta la storia ed alla forte e ricercata caratterizzazione dei personaggi. Il sentirsi disturbati è un pregio, un segno che l’obiettivo del regista ci ha inquadrati fin troppo bene. Proprio a questo livello si può misurare la fedeltà con il testo originale che ha ispirato De Sica. Questo disturbo, infatti, è l’indice della riflessione che il film, come il dramma teatrale, voleva stimolare, un’aspra meditazione, cioè, sulla condizione umana tout court e sul suo essere sempre e comunque in bilico. Per riprendere le parole di Sartre (ben ricordate, a proposito di questo film, da Mario Vargas Llosa, Tra Sartre e Camus, Milano, 2010, 61), “nessuno di noi è stato carnefice ma, in un modo o nell’altro, tutti noi siamo stati complici di una certa politica che oggi disapproveremmo”; anche noi, quindi, come Franz, oscilliamo tra “uno stato di indifferenza bugiarda e un’irrequietezza che si interroga senza tregua: cosa siamo, cosa abbiamo voluto fare e cosa abbiamo fatto?”.

Uno spezzone particolarmente intenso

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Si vede ancora, non solo d’estate, su qualche rete locale; è sempre una sorpresa, al di là di ciò che possono pensare gli amanti delle series d’Oltreoceano o dei celebrati successo del momento. Non ci si può proprio vergognare, infatti, di considerare tuttora fondamentale un film con John Wayne, soprattutto quando è diretto dal regista che lo ha “creato” e che, in quest’occasione, inspiegabilmente valutata come minore anche dalla critica più tradizionale, lo propone nella sua versione più “completa”. D’altra parte si tratta di essere anche in buona compagnia: leggo che Nanni Moretti (sic) ricorda Soldati a cavallo (1959) come il primo film che ha avuto modo di vedere, assieme a suo padre, e che alla domanda su quali fossero i tre più grandi registi della storia del cinema Orson Welles (niente di meno che…) avrebbe risposto “John Ford, John Ford e ancora John Ford”. Possono bastare questi testimonials per decidere di non cambiare canale?

Il film trae spunto da un fatto realmente accaduto durante la Guerra di Secessione: un colonnello nordista “taglia” tutto il territorio confederato per penetrarvi nel mezzo e per sabotare un importante snodo ferroviario delle retrovie sudiste. John Wayne interpreta quel colonnello alla perfezione, ma non solo per il fatto che ne ritrae i lineamenti nel modo più verosimile di una compiuta e riuscita retorica made in U.S.A.; questa è la consueta “sovrastruttura”, come sempre in John Ford. Quello che conta è “sotto traccia”: è, cioè, in un sorprendente e ripetuto gesto critico, che, pur enfatizzando un militarismo mai rinnegato, prende a bersaglio gli orrori del conflitto fratricida ed esalta una sensibilità ed un senso del dovere senza “patina”, perché sostenuti, e resi “tragici”, da ragioni umanissime e insospettabili.

Non c’è soltanto l’epica, tuttavia; c’è anche la commedia, rilanciata dalla complicità di William Holden (nelle parti del Maggiore Kendall) e Constance Towers (nei panni di Miss Hannah Hunter), come di alcune impagabili figure comprimarie (ad es. quella del Sergente Maggiore Kirby), in una fusione di tempi e di ritmi che, lungi dal contraddire il tono e il filo della narrazione, rende Wayne ancor più verosimile. Oltre a tutto questo, però, c’è soprattutto l’assoluta maestria di Ford: la carica sudista a Newton, specialmente, dovrebbe essere vista e rivista…

Un ricordo di John Ford, di Leonardo Locatelli

Tutto John Ford in 40 secondi (su Radio3)

Un documentario su John Ford (con John Wayne)

Allan Arkush su John Ford

La scheda su Ford (da www.scaruffi.it)

 

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È un film del 1954, con un Sordi davvero molto bravo. Si tratta, in particolare, dell’ultimo pezzo, il più bello, di una trilogia, i cui primi due titoli sono Anni difficili (1948) e Anni facili (1953). Luigi Zampa l’ha girata prendendo spunto da racconti di Vitaliano Brancati, che ha partecipato largamente anche alla stesura della sceneggiatura. Ci sarà un sequel nel 1962, per un’ultima “puntata”, meno riuscita: Anni ruggenti. In quest’ultimo caso il soggetto verrà da un racconto di Gogol’.

Non sono i riferimenti letterari, però, gli unici motivi che possono indurci a rivedere L’arte di arrangiarsi. Le ragioni di interesse sono altre.

Innanzitutto Sordi. Certamente, infatti, l’“Albertone nazionale” – che, all’interno della serie, compare solo in questa occasione – offre una performance davvero degna di tutti i suoi successi, anche di quelli futuri: in qualche modo, infatti, il protagonista adotta gesti, movenze ed espressioni che si ritroveranno in tanti film con (o di) Sordi (specialmente in quelli girati sempre da Zampa, su tutti ne Il vigile, del 1960, e ne Il medico della mutua, del 1968). Da questo punto di vista, è una commedia davvero riuscita, proprio perché “cannibalizzata” da un attore in splendida forma. Ma in questo caso scopriamo anche che la commedia non è necessariamente un genere “leggero” e che Zampa si conferma come un Maestro di questo singolare approccio impegnato.

Infatti, l’importanza de L’arte di arrangiarsi risiede soprattutto nella rappresentazione / denuncia di una certa immagine – icasticamente sintetizzata anche nel titolo – del trasformismo italico, causa quasi genetica di una sconfortante e “resistente” continuità tra tutte le fasi storiche del Paese.

Rosario “Sasà” Scimone (questo è il nome del personaggio principale) ne è l’orgoglioso e consapevole prototipo, capace di passare da uno schieramento politico all’altro, di tradire i suoi sodali e i suoi stessi parenti e amici, di agevolare sistematici e profondi conflitti di interesse, di sposarsi solo per convenienza economica, di farsi riformare, con frode, sia in occasione del primo conflitto mondiale sia prima del secondo, di diventare socialista, e poi fascista, per puro opportunismo, di riscoprirsi quindi comunista, per accreditarsi nell’Italia repubblicana, di tentare la via dello spettacolo e del successo, solo per corteggiare un’aspirante attrice e per trarne qualche vantaggio personale…

Il CV di Scimone, in sostanza, è una vera rassegna di vizi atavici e di propensioni radicate in buona parte della classe media, ed è anche la traccia simbolica del tentativo, destinato peraltro a fallire costantemente, di fiutare e di assecondare l’affare, lecito o illecito, più redditizio, assunto a sua volta, e paradossalmente, a mito, ad ideale tanto irraggiungibile quanto disponibile ad altri pochi eletti. Non è un caso che il “povero” Scimone finisca anche in galera, si riproponga come fondatore di un partito e, alla fine, si ritrovi a fare il venditore ambulante.

C’è da chiedersi, poi, nell’Italia del 2011, se, nel disegnare il cursus honorum di Scimone, punteggiato da appalti truccati, mazzette e speculazioni edilizie, vi fosse dell’intelligente preveggenza, oppure se esso non risultasse, già allora, l’indigesta descrizione satirica dello “stato della nazione”. Una risposta, forse, la può offrire la circostanza che il primo atto della trilogia, Anni difficili, fu accusato, in Parlamento, di “disfattismo nazionale”. Ma è significativo anche che la critica avesse lamentato, come veri e propri vizi, l’andatura volutamente frammentaria della storia e la dimensione intrinsecamente proteiforme del ruolo impersonato da Sordi. Il film di Zampa, quindi, non è solo bello e divertente; è anche “urticante”, parola che spesso fa rima con “importante”.

Scimone è il rappresentante di un ceto che, proprio perché consumato da un arrivismo fine a se stesso, non può mai riuscire, rimanendo condannato, nel proprio stato di mediocre egoismo, ad ambire a modelli niente affatto virtuosi (si potrebbe dire, a “non-modelli”). È “medio”, questo ceto, non tanto perché è quello “borghese”: se pensiamo a quanto “seria” può essere la borghesia e a quanto sia stata importante nella modernizzazione dell’Italia unita, non si potrebbe certo dire che sia tale quella impersonata da Sordi (è tale, invece, quella rappresentata, nel film, dalla figura del cognato e del suocero di Scimone; per capirne qualcosa di più sarebbe opportuno rileggere gli ottimi spunti di Arturo Carlo Jemolo, ripubblicati proprio quest’anno da Nino Aragno Editore ne Il malpensante). Questo ceto è “medio”, in definitiva, perché, indipendentemente dalla sua estrazione, decide di appiattirsi sugli istinti più volgari, di fare della furbizia la propria vocazione, di accontentarsi della propria ignoranza, in una parola, di “non crescere” e di “godere” in modo rapace delle fatiche altrui e delle vie talvolta complesse dell’interesse pubblico.

Se si vuole provare che cosa può accadere se l’Italia si guarda allo specchio, allora ci si può concedere una bella serata in compagnia di questo film, tra risate assicurate e sensazioni, viceversa, poco rassicuranti.

Il film in rete!

Il cinema di Zampa (dalla Cineteca di Bologna)

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La pellicola è vecchia (è un film per la tv, del 1969, prodotto dalla Rai e antesignano della più moderna tipologia della fiction).

Forse, rispetto a quelle cui siamo abituati oggi, è pellicola addirittura vecchissima, ma è girata in luoghi che sono rimasti ancora gli stessi e che pretendono, così, di essere sempre rivissuti e “recuperati”.

In quanto tali, infatti, i luoghi sono gli immediati “attori” di questa come di tutte le pellicole di Olmi, poiché essi sono il tramite visibile e palpabile di “mondi” veri e propri (come la nebbia, onnipresente, dei “luoghi” in cui verrà ambientato Il mestiere delle armi). Non sono, cioè, scenari o quinte su cui raffigurare storie più o meno verosimili, ma sono essi stessi parte dell’azione e del valore che si vuole trasmettere, perché, sempre stando ad Olmi, c’è sempre un messaggio preciso da comunicare.

Qual è, dunque, il messaggio de I recuperanti? Partiamo dalle cose semplici.

La sceneggiatura è opera congiunta di Mario Rigoni Stern, di Tullio Kezich e del regista. La storia è essenziale, quasi “minimalista”, assecondata, in ciò, da una ripresa nuda e cruda, senza uso di alcuno stratagemma.

Il protagonista, Gianni, interpretato da Andreino Carli (nella realtà un semplice agente di commercio), torna a casa dopo la guerra, la seconda, e ritrova, finalmente, l’Altopiano di Asiago e il suo paese, la sua famiglia e la sua donna, Elsa (Alessandra Micheletto). La vita può ricominciare, ma la povertà costringe tutti a scelte difficili. Come fare a sposarsi? Come trovare un lavoro? Si deve forse emigrare, come fanno tanti? Come costruire il proprio futuro nel luogo in cui si è tanto desiderato tornare?

Gianni vuole avere questo futuro e decide di imparare il mestiere del vecchio Du (impersonato da Antonio Lunardi, reclutato in osteria), figura istrionica di recuperante ubriaco, una sorta di rabdomante dei cimeli bellici del primo conflitto, che proprio su quelle montagne ha lasciato tracce ancora profonde. Questo è stato, del resto, un mestiere diffuso per molti anni in tutto l’Altopiano di Asiago; una necessità, di fatto, per molte persone.

L’impresa, a prima vista, sembra ottima e redditizia, e Gianni prova a modernizzare il lavoro del suo nuovo socio Du con l’uso di un metal detector, anch’esso un residuato, ma di una guerra, quella da poco finita, che è ancora troppo presente. Le bombe, i proiettili, il metallo disseminati nelle trincee o nei forti possono essere venduti a buon prezzo. Ma i pericoli sono davvero troppi. Ripartire da zero, allora, è la soluzione anche per Mario, e lavorare come manovale, abbandonare i sogni di un benessere rapido, rappresenta la chance per costruire, sempre nell’amato Altopiano, la propria famiglia.

E il messaggio? Ci sembra di poter dire, a questo punto, che il messaggio è duplice.

Il primo, quello più facilmente afferrabile, proviene dalla storia che il film racconta, nella sua estrema linearità: la continuazione, che è sempre un nuovo inizio, della vita esige un senso di ritrovata e rinnovata umiltà, e rispecchia una naturale legge di concretezza.

Il secondo messaggio, quello di cui è il portavoce, a ben vedere, il vecchio Du, in forma di aedo tanto sgraziato quanto autentico, proviene dai luoghi, dai teatri di guerra, dall’Altopiano ferito, e ci parla con i magic tricks di un uomo-folletto che ha i tipici tratti della creatura del bosco: la memoria ha comunque bisogno di recuperanti che la facciano riemergere, perché anche il suo oggetto, la guerra, non è mai finito o limitato, è destinato a ripetersi, ancora, in tutte le cose della vita.

Qual è, però, il nesso tra i due messaggi? Forse il primo è incompatibile con il secondo? O forse il secondo è il metro per valutare la bontà storica del primo? Il dubbio resta sospeso, e questo “attrito” è la sensazione che resta ben fissa al termine della visione.

Il film on line!

Intervista ad Andreino Carli

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È un capolavoro di Orson Welles, del 1942. Basterebbe questo per descriverlo. Eppure è una descrizione che rischia di essere tanto precisa e significativa quanto ingannevole ed insufficiente.

In primo luogo il pubblico di oggi se ne ricorda poco. Così come si ricorda poco del libro da cui Welles ha preso spunto per la sua sceneggiatura, I magnifici Amberson (1918) di Booth Tarkington. In Italia questo splendido romanzo, vincitore del Pulitzer, ha trovato spazio in un’edizione pubblicata da Fandango (2005) e ormai già rara. Edoardo Nesi ne parla e riparla, anche nel fortunato Storie della mia gente, fresco vincitore, quest’anno, del Premio Strega; chissà che i lettori più sensibili sfruttino il libro di Nesi come un vero ipertesto – è per questo che quel libro vale, del resto – e vadano a scovare quanto di interessante si può scoprire nelle citazioni che racchiude, compresi I magnifici Amberson.

In secondo luogo si sarebbe tentati di ricordare L’orgoglio degli Amberson solo come un’operazione ambiziosa e sfortunata. Welles lo girò quasi integralmente, ma poi, a quanto pare, la fretta dei produttori fu tale da spingerli a commissionarne il montaggio ad altre mani. Come biasimarli, il giovanissimo talento era già in Brasile per girare un documentario (Its’ all true, rimasto, anche, incompleto). Sempre Nesi ci ricorda che Welles ne rimase quasi mortalmente ferito e che ebbe il coraggio di vedere il film solo molti anni addietro, piangendo per lo sconforto. Tuttavia si tratta ancora e sempre di un grande film, nonostante l’insuccesso al botteghino; anzi, probabilmente le mani diverse lo hanno reso più commestibile di quanto la sfrenata onnipotenza di Welles avrebbe potuto fare. Da questo punto di vista, forse, la pellicola è la dimostrazione che talvolta anche il genio necessita di essere educato.

In terzo luogo la pellicola in questione è una sorta di passepartout, per capire Welles, ma anche per capire l’immenso Citizen Kane, che era stato proiettato solo l’anno prima. I due film non sono diversi, e gli Amberson lo testimoniano con forza, non soltanto per la presenza di Joseph Cotten, ora nei panni dell’“inventore” e “costruttore” di automobili Eugene Morgan.

C’è uno sfondo, anche qui tutto americano: il declino di una grande ed opulenta famiglia del Sud, gli Amberson per l’appunto, nel momento dell’irresistibile avanzata dell’età industriale e dei mutamenti sociali che essa ha comportato.

C’è anche qui una storia tutta wellesiana: un’infanzia che si radica in sé stessa e che resiste alle evoluzioni della vita, dominandola integralmente e drammaticamente; una sola frase, pronunciata da George Minafer Amberson, l’ultimo rampollo della dinastia degli Amberson, interpretato da Tim Holt, esprime la radice di una maledizione che è il cuore della vicenda e che non è soltanto lo slogan storico di una classe arrogante e destinata ad essere superata: “L’unico vantaggio di essere qualcuno dovrebbe essere quello di fare il proprio comodo”.

E c’è anche qui, infine, un metodo, un approccio al cinema o, meglio, alla tecnica cinematografica anche e sempre tipicamente wellesiano: la trama è secondaria e il cinema, propriamente, è lo strumento di un exemplum, la cui grandezza lo supera e lo scuote, e al cui servizio cooperano sempre sinergicamente la voce del regista-narratore-dio, la forza della fotografia e dei chiaroscuri, l’alternarsi dei punti vista. Welles non realizza, in poche parole, la tragedia classica, ma è un vero maestro della letteratura apologetica, e qui sta, ancora una volta, la sua effettiva grandezza. Rispetto a Citizen Kane, l’epilogo, proprio perché costruito da altri, rende maggiormente palese il messaggio, in fondo così semplice.

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