How George Orwell Predicted the Challenge of Writing today (da newyorker.com)
Affrontato il divorzio, Teen Boom abbandona una brillante carriera di procuratore federale e di avvocato per lasciare gli Stati Uniti e “arruolarsi” nelle fila della pubblica accusa presso la Corte penale internazionale a L’Aja. La sua famiglia è proprio di origine olandese e l’occasione può essere buona per ricongiungersi con una radice mai completamente scoperta. Da subito, però, Boom viene messo a dura prova. È chiamato, infatti, a verificare la possibilità di avviare un’indagine, delicatissima, sulla misteriosa scomparsa, nel 2004, di un intero villaggio rom nei pressi di Tuzla, in Bosnia. Una strana testimonianza sembra accreditare la tesi dello sterminio, forse perpetrato da un gruppo di paramilitari serbi. Ma si sospetta addirittura che i responsabili siano i militari americani di una vicina base NATO, che avrebbero voluto vendicarsi del presunto sostegno offerto dai rom ad un noto criminale di guerra. Il campo nel quale Boom deve muoversi è evidentemente minato, poiché si tratta di un caso in cui sono coinvolti i vertici dell’esercito statunitense, le milizie serbe ancora fedeli al precedente regime, l’intelligence americana e molte altre, ed equivoche, figure, come quella di una fascinosa avvocatessa e di un’eccentrica ex ufficiale della US Army. Boom non si lascia scoraggiare e, accompagnato dal fedele e competente aiuto di Goos, un poliziotto belga distaccato alla Corte, si muove con decisione tra le reticenze dei graduati, gli inganni degli agenti diplomatici e i segreti e i pericoli delle missioni internazionali operanti sul territorio balcanico. Non mancano le avventure e i colpi di scena, e, come si conviene a scenari tanto complessi, l’epilogo dimostrerà a Boom che la realtà era molto diversa da ciò che poteva ragionevolmente attendersi; e che anche la sua vita affettiva può improvvisamente rinascere.
In questo romanzo Turow è un po’ al di sotto dei suoi consueti standard. La vena thriller è molto addomesticata, quasi addormentata. E si ha la sensazione che al centro del racconto vi sia l’esigenza, strettamente personale, di uscire da un genere, fare un bilancio e cambiare, quanto meno, il teatro delle operazioni – che non è più l’immaginaria Kindle County dei precedenti bestseller – per esplorare nuove possibilità: della serie “sto invecchiando anch’io, caro lettore, dammi una chance per capire se possiamo fare ancora un po’ di strada insieme”. Il punto è che la sfida sarebbe realmente riuscita se Turow avesse optato direttamente per la non fiction, o per l’inchiesta informata e ragionata, un po’ come aveva fatto in Punizione suprema, quando aveva affrontato il tema della pena di morte. Perché in questo libro il buono sta tutto nel focus sulla giustizia penale internazionale, sulle sue intrinseche difficoltà, sugli attori che fanno parte di quel gioco e sulla fondamentale sfida che in quell’area condiziona ogni comportamento: la ricostruzione dei fatti e le insidie materiali, politiche e personali che vi sono inestricabilmente correlate. È la fluidità strutturale di questa tipologia di scenari ad essere il vero protagonista del racconto, e quindi sarebbe stato auspicabile riconoscerla e fronteggiarla a viso aperto: da crime writer che ha una specifica expertise giuridica, Turow avrebbe potuto veicolare al grande pubblico una rappresentazione avvincente e al contempo affidabile. Ma ogni grande autore ha la sua Kindle County, quella che l’ha reso famoso e riconoscibile. Una volta scoperta, è un’impresa riattraversarne i confini.
Recensione (di Steven Poole)
La testimonianza a Fahrenheit
Il commissario Charitos è appena tornato dalle vacanze, passate in montagna, dove con la moglie Adriana ha conosciuto e frequentato tre anziane signore di Atene, Tasia, Arghirò e Calliope. Si sono trovati bene, e l’accordo è di vedersi anche in città. Il rientro, peraltro, comincia nel modo migliore: Ghikas, che è stato il suo superiore per molti anni, va in pensione, e Charitos, che un po’ si scopre sperduto e un po’ sente odore di promozione, è chiamato temporaneamente a reggerne le funzioni. Ma la capitale greca è presto scossa dall’omicidio del ministro Rapsanis, un noto professore di filosofia del diritto, trovato avvelenato tra le mura della sua abitazione. L’assassinio viene rivendicato da una sorta di cellula terroristica, che si propone di punire tutti gli accademici che si sono lasciati attrarre dalle lusinghe della politica e hanno abbandonato la loro missione scientifica ed educativa. A Charitos, quindi, tocca la patata bollente di un’indagine insolita e molto complessa. Tanto più che non sa dove sbattere la testa, la stampa preme e i vertici della polizia gli stanno sul collo; e nel frattempo vengono uccisi altri due professori universitari, uno di lettere e uno di filosofia, entrambi coinvolti nell’esercizio di funzioni di governo. Mentre Adriana lo trascina in ripetute cene con le tre amiche dell’estate e con i parenti, il commissario tenta di sciogliere la matassa in più direzioni. Soltanto un caso gli permetterà di capire dove soffermarsi con maggiore attenzione, e la soluzione – mai tanto vicina… – sarà semplice e sorprendente allo stesso tempo.
Un Markaris val sempre la pena. In questo caso, per la verità, non si può dire che la sua forma sia particolarmente smagliante: dai tempi di Difesa a zona – lo seguo davvero da molti anni… – Charitos è decisamente invecchiato, come il suo Autore. Tuttavia l’incantesimo di uno stile diretto, chiaro e familiare rimane intatto, a prova testuale della rassicurante fedeltà del personaggio alle sue abitudini e ai suoi luoghi e numi tutelari. Ci si sente a casa, a leggere Markaris, e il commissario, come sempre, continua a cercare ispirazione nella lettura di un dizionario; forse invano, ormai. Come se la società in cui vive non rispettasse più il suo linguaggio naturale, e come se il principio di ogni devianza si nascondesse proprio lì. Anche in quest’ultima avventura, d’altra parte, il mondo si capovolge, perché – senza rischiare di violare la fisiologica riservatezza che il giallo esige… – ad essere armato e delittuoso, e a presentarsi addirittura come rivoluzionario, non è un sogno di matrice utopistica, ma è il braccio generazionale della nostalgia. Il romanziere greco coglie bene, rappresentandolo con semplicità ed efficacia, uno dei segni più caratteristici e ambigui del nostro tempo. Ed è una felice coincidenza, terminato il libro, imbattersi in un bell’articolo del Foglio (Paola Peduzzi, 3 giugno 2018) sulla “nostalgia tiranna” e sulla pericolosissima “arte di rifugiarsi in un passato dorato”, strategia che è oggi prediletta anche dagli istinti politici più radicali. Markaris riesce ancora a lanciare il suo sasso nello stagno.
Recensioni (di Fabio De Propris; di Matteo Nucci)