The Children Act è il titolo originale di questo romanzo, ed è anche la consueta denominazione del “codice dei minori” nella legislazione britannica. Protagonista del racconto, in effetti, è un giudice della High Court, Fiona Maye, impegnata nella sezione che si occupa di diritto di famiglia. L’avvio della storia è un riuscitissimo ritratto di questa figura, del contrasto tra la severità del suo ruolo pubblico e la fragilità della relazione con il marito geologo, e dei casi, molto difficili, che deve affrontare quotidianamente. Tra questi spicca da subito la vicenda di Adam Henry, un adolescente ricco di talento e di entusiasmo, ma malato di leucemia e bisognoso di trasfusioni che, tuttavia, non sono consentite dalla confessione religiosa cui appartiene. L’ospedale nel quale è ricoverato, viceversa, chiede l’autorizzazione a procedere in tal senso, ma i genitori si oppongono, e così dimostra di voler fare, risolutamente, lo stesso Adam. Prima di decidere, Fiona vuole andare fino in fondo e conoscere personalmente Adam. Il colloquio le sembra illuminante: il verdetto viene pronunciato in pubblica udienza e tutto pare risolto. Le cose, però, non sono così semplici, e il caso torna a ripresentarsi, anzi, ad imporsi nuovamente, con tutta la sua problematicità, intrufolandosi addirittura nella vita privata del giudice e condizionandone tutti i comportamenti e i pensieri, fino ad un epilogo sorprendente e disorientante.
Due ragioni per leggere questo McEwan (oltre al fatto che ci troviamo di fronte ad un grande scrittore): 1) i primi tre capitoli sono una lezione quasi perfetta su che cosa sia l’arte di giudicare, specialmente allorché siano in gioco complessi bilanciamenti tra diritti e libertà ugualmente predicabili e pertinenti: aveva davvero ragione chi ricordava che il diritto, più che opera di sola scienza, è necessariamente anche opera di sapienza; McEwan, dunque, ci aiuta a metabolizzare che, soprattutto oggi, di fronte alle hard choices del biodiritto, non possiamo proprio rinunciare a un sapere la cui autonomia diventa tanto più preziosa quanto più rischia di risultare permeabile a influenze – morali, scientifiche, politiche, religiose… – apparentemente irresistibili; 2) il quarto e il quinto capitolo ribaltano la prospettiva e la riaffermano allo stesso tempo, in un quadro di deliberata confusione tra sfera personale e doveri d’ufficio: capitolando dinanzi a un finale che può anche deludere, apprendiamo che il diritto e la sapienza del giudizio non ci rendono immuni davanti alla forza della vita, né possono essere invocati per risolvere ogni possibile questione; di qui l’importanza della coscienza del limite, e l’icona dell’umanità ferita di Fiona Maye – che si scopre, suo malgrado, e quasi per rimbalzo, l’eroina di un dramma degno del tema classico di Tristano e Isotta – è molto efficace. Che dire ancora? McEwan frequenta le cronache giudiziarie da tempo e più di altri ha compreso che il tribunale non è materia noiosa, né sede di sole trame da giallo o da vacuo feuilleton; in altri termini: la giustizia è tornata sulla scena della migliore letteratura, e questa è una buona notizia.
Recensioni (di Livia Manera, di Davide Turrini, di Massimiliano Parente, di Giovanni Dozzini, di Tessa Hadley, di Ron Charles)
1978: Lucilla è innamorata di Ilio, alpinista estremo; vive l’esplosione della sua passione come una fondamentale opportunità di rinascita, nella quale la maternità si palesa come un evento quasi provvidenziale, rispetto ad un passato di emarginazione e alcolismo. Nel 2012, nello stesso paese della montagna trentina, Anna si trova a tavola con i suoi più stretti familiari e sta vivendo un dramma terribile: la nascita improvvisa, inattesa, incompresa, di un bambino di cui non aveva mai percepito la presenza, confuso con i sintomi di un dolore lontano e massacrante, il risultato della solitudine cui è stata condannata dalle persone da cui si sarebbe aspettata amore e protezione. Nel 1627 Gheta, originaria di quel medesimo luogo, è accusata di stregoneria e viene torturata brutalmente; per le autorità la responsabilità della povertà del raccolto e degli eventi naturali che hanno piagato il territorio non può che essere imputata alla donna più eccentrica, a chi sostiene di aiutare le altre donne a liberarsi delle loro malattie e paure, a colei che può essere accusata anche di aver ucciso il proprio figlio. Lucilla sente e vede, nel sonno, il dolore di Gheta; Anna cerca aiuto nei consigli di una vecchia e preveggente Lucilla; Gheta sa già come tutto andrà inevitabilmente a finire. E così Ilio muore in una spericolata spedizione himalayana e Lucilla impazzisce dal dolore, rifiutando il frutto di quell’amore, entrando in cortocircuito con se stessa e con gli altri, e finendo in un ospedale psichiatrico giudiziario; Anna viene nuovamente tradita da chi le sta più vicino, in un percorso di negazione e rinnovata solitudine che non può che finire al cospetto del carcere; Gheta viene graziata, sicché la sua morte non sarà sul rogo, ma sul ceppo della decapitazione.
L’unico Sartori che avevo letto, prima di questo, è quello di Sacrificio. Era già un pullulare di roghi, diversi ma pur sempre accesi, in egual modo, nell’incrocio di storie di abbandono, disperazione e violenza. Anche quello era un romanzo alpino; e il merito di questo agronomo-scrittore – oltre a quello di un linguaggio pulito e scolpito – è di aver utilizzato i cocktail corrosivi di certe e ordinarie cronache di valle per rappresentare duramente la fatale operatività di alcuni meccanismi di controllo sociale e di esclusione in contesti di crisi morale e culturale. In questa nuova prova, inoltre, l’espediente della sovrapposizione di tre vicende femminili, così lontane e così vicine, perché accomunate dall’assurdo abisso dell’infanticidio, funziona bene. L’universalità della sofferenza che può generare tragedie apparentemente incomprensibili è enfatizzata dal senso totalizzante del viaggio nel tempo, se non di una atemporalità definitiva, senza possibilità di scampo. Forse, e l’accostamento non sembri tirato, nel ricorso a queste riuscite connessioni intertemporali Sartori ricorre volutamente alla tecnica narrativa che Valerio Evangelisti ha sperimentato con altrettanta efficacia nel fortunato ciclo di Eymerich. È proprio questo espediente a suggerire l’esistenza di un eterno femminino alternativo, di una tradizione, cioè, non di bellezza e mistero, ma di incomprensione e minorità che, tuttavia, anziché costituire un fattore di debolezza, può nascondere una radice e una coscienza indistruttibili. Ciò detto, Rogo presenta un limite che si riscontrava anche in Sacrificio. Il suo Autore evoca atmosfere e situazioni complesse, degne di Dostoevskij, ma lo fa con un realismo che tradisce fin troppo l’onniscienza del narratore e che produce l’effetto di degradarne i messaggi, troppo semplicemente, a meri stereotipi. Un appunto finale, per vero positivo, riguarda l’editore: il volume è confezionato molto bene; se è vero che, in tema di libri, l’occhio e il tatto vogliono la loro parte, CartaCanta sceglie sempre le sue copertine in modo azzeccato.
Recensione (di Carlo Martinelli)
Un estratto del romanzo, con una breve introduzione di Sartori