Il saggio affronta uno dei temi più classici dello studio del diritto, quello dell’individuazione delle sue fonti, e quindi – secondo la definizione consolidata – degli atti o dei fatti che sono idonei, in un determinato ordinamento, a produrre norme giuridiche. L’argomento, in verità, non è spiegato in modo sistematico, “da manuale”. L’Autore, cioè, non si occupa di capire quali siano in concreto le fonti e le problematiche interne al loro regime, ma cerca di ragionare se (e su come) possa essere ancora confermato il fondamentale criterio gerarchico che ne articola i rapporti, in accordo con lo specifico assetto delle forme istituzionali abilitate a produrre il diritto e della preferenza che alcune hanno sulle altre. La questione non è semplice, poiché si ha da tempo l’impressione che quel criterio sia in grande difficoltà: per la presenza di condizionamenti provenienti da fonti diverse da quelle proprie dell’ordinamento; per la comparsa di regole dalla natura nuova e controversa; per la “crisi” delle tradizionali procedure statali di produzione delle regole, etc. In questo quadro, che si fa via via più incerto, la scelta della fonte è rimessa all’interprete, ad una dimensione che pare intrinsecamente e irriducibilmente soggettiva e potenzialmente arbitraria. Sicché, a certi effetti, cambia anche la definizione della fonte, potendosi classificare come tale “un documento che gli interpreti e in particolare gli organi dell’applicazione sono giustificati nel considerare normativo, cioè idoneo ad esprimere norme a seguito di attività interpretativa”. Il breve saggio, tuttavia, segue – e sviluppa in modo molto chiaro – la tesi per cui di arbitrio non si tratta e la gerarchia sopravvive comunque (sul piano strutturale, materiale e assiologico), a patto di coglierne ancora le tracce maneggiandone adeguatamente il sofisticato “equipaggiamento” concettuale.
La riflessione di questo filosofo del diritto si può dividere in due parti. Le prime 36 pagine hanno un carattere preparatorio e sono un precipitato di definizioni e distinzioni teorico-generali indispensabili (molto acuta, a pp. 35-36, la rapida digressione sulla riconducibilità alla logica gerarchica anche del criterio della competenza). Si tratta di capire, in sostanza, che la gerarchia delle fonti – con le correlate relazioni di validità / applicabilità che intercorrono tra le rispettive norme – non dipende dalla sua (probabilmente obsoleta) rappresentazione spaziale (piramidale), ma da un reticolo di presupposte e conseguenti azioni ricostruttive, in larga parte orientate da specifiche ideologie del diritto. L’altra metà del lavoro, così, è dedicata ad alcune esemplificazioni (da quelle più semplici a quelle meno facili), a dimostrazione di quali possano essere le vie, o le astuzie, della gerarchia normativa. Salvo il carattere non pienamente perspicuo di taluni di questi esempi (e così di quelli di cui alle pp. 43-44 e 52-53), si può affermare che l’impostazione seguita da Pino, oltre ad essere rigorosa e persuasiva, ha il merito di incrociare il nucleo forte delle concezioni positivistiche del diritto con le migliori acquisizioni delle teorie sull’argomentazione giuridica, enfatizzando il ruolo centrale della deontologia dell’interprete (e di alcuni “vincoli” che tuttora lo legano). Vista così, appare evidente che le virtù di questa lettura poggiano tutte su di un dato, storico e positivo al contempo, affatto irrilevante e ancora provvido di importantissimi spunti: è stata la comparsa della fonte costituzionale a fare la fortuna del criterio gerarchico e, simultaneamente, a rivelarne la variabile (e multidirezionale) vocazione teleologica. Se si vogliono salvare la certezza e l’applicazione del diritto anche nel mondo del pluralismo giuridico più spinto, allora occorre scavare ancora in quel formidabile cantiere.
Alle radici dell’impostazione formale del problema delle fonti: Kelsen e la dottrina pura del diritto