Perché un libro fa (ancora) casino (da ilpost.it)

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Oh yeah, another day / Oh yeah, gotta play (The Smashing Pumpkins)

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Joseph Ponthus, laureato in lettere che cerca di convivere con l’instabilità della sua condizione di insegnante precario, lascia Parigi per seguire la compagna in Normandia. Deve trovare una nuova occupazione e così si affida a un’agenzia di lavoro interinale, che lo fa debuttare nel mondo della fabbrica – alla linea di produzione – e nello specifico in quelli che si rivelano subito i gironi dell’industria agroalimentare. Comincia in uno stabilimento che lavora molluschi e pesce. Orari terribili, pause rarefatte, freddo pungente e odori altrettanto penetranti, con un incombente e costante rischio di infortunio. Stare alla linea, dunque, è come stare in trincea. Non a caso si apre con Apollinaire che scrive dal fronte (“È incredibile tutto quello che riusciamo a sopportare”). Ma che cosa si apre? La forma è quella della poesia. Può sembrare anzi quella di un poema, la saison en enfer del prototipo del lavoratore sfruttato, eppure consapevole, arrabbiato e triste allo stesso tempo. E tuttavia Alla linea si presenta al pubblico come un “romanzo”, un racconto in versi i cui capitoli sono iconiche raffigurazioni di situazioni tipiche: di stordimento, fatica, speranza, intimità e tenerezza familiare e, a tratti (si direbbe), orgoglio e coscienza di classe. Tutto scandito al ritmo delle canzoni di Brel e Trenet. La discesa di Ponthus, peraltro, non ha fine: approda al mattatoio, al lavaggio dei locali imbrattati di sangue e di scarti, al faticoso e pericoloso spostamento di carcasse congelate. 

Se la parola romanzo, a questo punto, ha un senso, ce l’ha per la facilissima e spontanea associazione alle ambientazioni più dure di Zola. Ma il fatto è che non ci troviamo nella seconda metà dell’Ottocento (e nemmeno sul fronte occidentale, sebbene, puntuale, arrivi sempre il solito Apollinaire: “Impossibile da descrivere. È inimmaginabile”). La tragedia individuale e collettiva del lavoro e delle sue estreme spremiture si svolge ai giorni nostri. E le settimane di Ponthus si susseguono eguali, spietate, ma anche disperate e coraggiose, quasi fossero dei tunnel senza soluzione di continuità; spesso all’interinale conviene lavorare anche il sabato, per arrotondare il già magro compenso. Non c’è posto per nulla di diverso. Nulla che non sia la pur difficile scrittura, un atto di resistenza morale e di salvezza interiore. Con la fabbrica come elemento totalizzante, luogo di pena, ma anche occasione di introspezione e di confronto con il proprio essere, mente e corpo. È evidente che questo è un testo per lettori determinati. Perché ci vuole forza vera per sostenere l’efficacia, la verità, la cultura e, in definitiva, la grandezza di una voce come questa. Specie sapendo, per di più, che è l’opera prima, e unica, di un Autore quarantenne che, di lì a poco, è morto per un tumore. Eppure ci troviamo di fronte ad un testo necessario: non solo per la denuncia e la dignità che manifesta; ma soprattutto perché capiamo che ad essere scomparso è un vero, indispensabile poeta, tanto tagliente quanto raffinato e innamorato: di sua moglie, di sua madre, dei suoi compagni, della vita.

Recensioni (di M. Aubry-Morici; di F. Camminati; di M. Moca; di D. Orecchio; di A. Prunetti; di E. Todaro)

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Ovidio, il poeta di chi si sente esiliato (e non solo) (da illibraio.it)

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Leon Battista Alberti, l’umanista al di sopra delle righe (da avvenire.it)

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Oggi Manzoni ha ancora qualcosa da insegnare? (da nazioneindiana.com)

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Quando un Pardini si affaccia in libreria, la lettura è d’obbligo. Perché ci si trova di fronte a un autentico, spontaneo narratore (per altre precedenti letture v. qui, qui e qui). Anche Il valico dei briganti non fa eccezione a questo standard. È la storia di Vlademaro Taddei, un fuorilegge che cresce selvaggio e si forma nei boschi e nei pascoli attorno a Bagni di Lucca e diviene bandito a tutti gli effetti in America, sulla costa del Pacifico, dove emigra per sfuggire alle inevitabili conseguenze di un delitto. Lì si arruola – assieme a Jodo Cartamigli, un conterraneo che pare avere pulsioni decisamente opposte alle sue – in una squadra di guardie armate. Ma le tradisce ben presto, per schierarsi volontariamente con un gruppo di spietati malviventi. Viene iniziato alla più dura vita da criminale ed è catturato da una tribù di nativi, ma superata la durezza di questo apprendistato riesce ad accumulare un ottimo bottino e rientra così in patria. Tra i suoi monti cerca di vivere in modo riservato e decide di fare famiglia, assieme ad Angiolina, dalla quale ha due figli. Eppure l’istinto predatorio non lo abbandona e lo spinge a diventare il leader di una banda di briganti, impegnati in furti e rapine di ogni genere. Riesce a farla franca a lungo. Tuttavia, quando i suoi vengono catturati, processati e condannarti alla ghigliottina, capisce che deve darsi alla macchia. Comincia in questo modo una vera caccia, una sfida di cui sarà co-protagonista Jodo Cartamigli, che da tempo lo stava inseguendo per catturarlo e ucciderlo. La lotta proseguirà senza tregua, sino alla fine.

Si può dire ancora molto di questo romanzo. Ad esempio, sottolineando che ricompare Jodo Cartamigli, eroe di altre avventure western. Che l’Ottocento rimane una delle cornici predilette dell’Autore. O che, nuovamente, come in tutti i lavori di Pardini, ci si trova di fronte a una scrittura che per la sua estrema naturalezza non può che definirsi sorgiva. Tanto da comporre una sorta di sceneggiatura, pronta per un film che soltanto un novello Sergio Leone saprebbe dirigere e che, comunque, interpretato in salsa diversa, appassionerebbe senz’altro anche Quentin Tarantino. A volersi spingere un po’ più in là, dovrebbe riconoscersi che Pardini è il degno erede di un filone glorioso, che è quello di Salgari, e che ha avuto tra i suoi protagonisti, sia pur a suo modo, e con spiccato eclettismo, un grande dimenticato, Gian Dauli. Con questi antenati, Pardini condivide un ingrediente segreto. Gusto per la trama e per la singola scena, per la descrizione della natura e degli stati d’animo, per l’equilibrata ricostruzione del profilo e dell’animo dei personaggi: è questo il propellente, tutto istintivo, che permette a Pardini di far calare il lettore nel bel mezzo delle vicende che racconta, in presa diretta; e di avvicinarsi, dunque, ai suoi importanti predecessori. Poi, certo, qualcuno potrà aggiungere che ne Il valico dei briganti si affrontano questioni che rendono il romanzo ancor più meritevole, visto che vi si intrecciano i grandi temi della povertà e dell’emigrazione, e delle strutturali prevaricazioni della giustizia dei potenti. Il fatto è che ciò che pare interessare veramente a questo scrittore – ciò per cui è doveroso essergli grati – è rappresentare, come in un quadro, la fisica invariabile dei sentimenti e delle singole traiettorie esistenziali che essi agitano, anche quando sono dominate da un destino dannato. Come a dire che il mondo degli uomini, a patto di guardarlo per come esso è, sa darci da solo le più efficaci lezioni.

Recensioni (di M. Baldrati; di D. Bregola; di O. Di Monopoli; di S. Gambacorta)

L’Autore presenta il suo libro

Un’intervista

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Le diversità di una poesia “aperta” (da succedeoggi.it)

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