Un piccolo editore di Vittorio Veneto ripropone questo romanzo del 1932, opera ponderosa di una delle figure più interessanti del panorama letterario italiano di quegli anni. Gian Dauli (alias del vicentino Giuseppe Ugo Virginio Quarto Nalato) è stato noto e valente scrittore, ma si è distinto, soprattutto, come direttore editoriale (con la Modernissima e con Corbaccio) e come editore (con la Delta, la Dauliana, Aurora), traducendo e pubblicando le opere di grandi autori stranieri (Conrad, Chesterton, Celine, Stevenson, Schnitzler, London, solo per citarne alcuni; ma Dauli, solo per inciso, è anche il primo a portare in Italia alcune opere sudamericane e ad introdurre nell’organizzazione delle case editrici italiane una strategia ed un organigramma di tipo industriale).

“Gira la rua? La rua gira!”: questo ripeteva ossessivamente un compagno di classe, un po’ suonato, di Giovannino Penta, cinico, ambiguo e sfortunato protagonista di questo libro. Infatti la vita gira, sempre, come la ruota, con esiti imprevedibili, e la famiglia Penta, stirpe benestante di contadini fattisi borghesi, viene puntualmente travolta da un feroce destino di multiple e recidive sconfitte e di inevitabili degradazioni personali, che del resto conducono anche Giovannino allo sbando e poi alla morte. È proprio questo smaliziato e debosciato anti-eroe a ripercorrere, peraltro consapevolmente, tutti gli stadi di una vera e propria epopea di disgrazie familiari e sociali, di fallimenti, sperperi, incesti, adulteri e violenze. A leggere il romanzo – che attinge largamente a ricordi personali e che non manca, quindi, di offrire un verace ritratto della realtà vicentina a cavallo tra Ottocento e Nocevento – non ci si stupisce affatto che Dauli avesse familiarizzato con Federigo Tozzi: vi si riscontra la stessa attenzione, quasi morbosa, per le psicologie più corrotte e decadenti, e per un’ambientazione che cerca di essere il più possibile realista.

Nelle prime pagine del romanzo – che permettono a Gian Dauli (v. qui a lato) di ricorrere al tradizionalissimo artificio del manoscritto ritrovato – si descrive bene questo lunghissimo racconto: “la storia degli ultimi cinquant’anni della borghesia barcollante tra lo scetticismo, il materialismo e il sensualismo; la storia dell’epoca turbata dalle macchine, travolta dalla velocità, stroncata dalla guerra” (p. 23). Ma c’è anche dell’altro, e non lo si può soltanto sintetizzare nel tema trasversale – onnipresente nella narrazione e nei gesti ripetuti delle principali figure che la animano – del degrado morale e sessuale. Questa insistenza si deve ad una sensibilità intellettuale particolarmente diffusa nell’Italia di allora, e in parte è anche riconducibile alle illusioni positiviste da cui lo stesso Nalato era stato fortemente impressionato.

La Rua, in verità, è ancora interessante perché parla anche oggi, forse con una sincerità che per certi versi ci potrebbe risultare addirittura disarmante. Anche oggi, purtroppo, assistiamo al ripetersi – al ri-girare – di una storia di generazioni che, in un Paese che è stato capace di oculati risparmi, di incrollabile tenacia, di forte crescita e di fruttuosa intraprendenza, pare non siano in grado, ancora una volta, di alternarsi in modo armonico e di passarsi il testimone giusto. Riesce difficile ritrovare la solidità e l’operosità dei nostri nonni; la ruota di ambizioni troppo facili o di miraggi esclusivamente di superficie ci espone costantemente al rischio di cadute rovinose e irrimediabili. Nulla è scritto, però; e la vita di Giovannino Penta è un monito che non possiamo più dimenticare.

Una recensione (di Cesare De Michelis) NB: di fatto è anche la Presentazione del libro…

L’Autore nel Dizionario Biografico Treccani

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