Tra aprile e maggio di quest’anno sono stati pubblicati due piccoli libri, che potrebbero dirsi quasi gemelli: Nei luoghi ideali per la camporella di Davide Bregola, uscito per Avagliano; e Pane e noci di Lucio Montecchio, edito da Ronzani. In entrambi i casi ci si trova di fronte a raccolte di prose brevi. Ciascuna – a volte si tratta di un racconto, a volte di un’istantanea di situazioni o di luoghi presenti o passati – è un esercizio di rabdomanzia sentimentale, una chiave d’accesso per un mondo di ieri, che gli Autori rievocano oggi al fine di esprimerne e rilanciarne un senso complessivo, e di farne motivo ispiratore per riflessioni di più ampio respiro. Il mondo di Bregola è quello della Bassa par excellence, tra Emilia, Lombardia e Veneto, dove aggirarsi alla ricerca delle “potenze remote” che “facevano crescere”: ricordi di avventure di ragazzi, voci di testimoni che furono (contadini e operai), argini, strade, fossi, in cui “c’era tanta di quella roba da stare lì all’infinito”. Con Sermide (Leonessa del Po) a fungere da epicentro, fisico, storico e psicologico, convergenza geografica di più territori e dialetti, come di rivolgimenti sensazionali. Perché alla magia, e all’epica, del fiume e delle sue genti, e delle loro piccole, grandi storie, si è sostituita quella dell’hangar, della mecca selvaggia della produzione e della logistica, ammantata da una lunga e irrimediabile stagione di abbandoni.

Il mondo di Montecchio non è così diverso. Anche qui si parla di una “bassa”, quella padovana. E anche qui aleggia un tono che solo in apparenza potrebbe dirsi ambiguamente nostalgico, e che, come nell’altro volume però, non è ripiegamento, ma suggerimento di restituzione (parola che offre anche il titolo ad uno dei capitoli). Oltre a far riemergere luoghi, storie e usi di una civiltà paesana e biologica – che, a ben vedere, non è troppo lontana, visto che i nostri diretti progenitori le sono appartenuti – Pane e noci segna anche le tappe, individuali e collettive, della traiettoria straniante che, dagli anni del boom in poi, è stata impressa per effetto di un’industrializzazione onnivora. A legare i due testi, inoltre, non c’è soltanto una fenomenologia critica del presente. C’è pure molta qualità espressiva. Da questo punto di vista Bregola non stupisce. Chiunque abbia letto Fossili e storioni sa della grande abilità suggestiva, della malìa, di uno scrittore che padroneggia tutti i ferri del mestiere, e che sa analizzare ipnotizzando (come in Pozzo o Argini o Fossi) e commuovere raccontando (come in Acquaragia o in Cavie), e infine anche inveire (come in Hangar), a mo’ di tragica, ma necessaria, maschera teatrale. Montecchio – che tuttavia scrittore propriamente non è, pur essendo dotato di uno specifico canale di comunicazione cosmica, per nobile e tecnico mestiere – colpisce in alcune pagine narrative molto felici (nella spontanea e semplice invenzione di Gelso e Liana, ad esempio, o in El Beljo o, ancora, in Zia Luisa) ovvero in pezzi tanto brevi quanto vitali (come nei poeticissimi Un po’ (di buonsenso) e Orologio agreste, che paiono quasi filastrocche). Certamente Nei luoghi ideali per la camporella e Pane e noci si accreditano quali guide, affatto scontate, di ri-orientamento ecologico e morale. Ma il loro valore aggiunto – ciò che davvero non guasta – è che in quest’estate caldissima si rivelano come estratti rinfrescanti e rigeneranti di semplice e buona letteratura, da assumere lentamente, sotto un albero o ai bordi di un orto.

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La recente lettura di un bel libro di Wolfram Eilenberger mi ha condotto a riscoprire Simone Weil. I suoi scritti sono sempre costellati di pensieri tanto diretti e lucidi quanto densi e prospettici; e capaci, proprio per questo motivo, di conferire a ogni singola riga l’impronta di un vero classico. Il giudizio vale anche per questo breve, incisivo saggio del 1940, pubblicato solo postumo nel 1950 e poi raccolto negli Écrits de Londres editi da Gallimard nel 1957. Se ne potrebbe fare oggetto di una approfondita discussione seminariale. La tesi è bruciante: occorre sopprimere i partiti politici. I primi recensori del 1950 – André Breton e Alain (pseudonimo di Émile-August Chartier), i cui pezzi accompagnano questa nuova edizione – hanno enfatizzato il fatto che il pamphlet potesse essere in primo luogo rivolto al partito comunista e, soprattutto, alla sua declinazione staliniana. Niente di più vero. Tuttavia l’opera di demolizione ha come oggetto anche il partito tout court, considerato nella sua versione continentale e organizzata. Secondo la Weil, infatti, è il partito istituzionalizzato, con la sua disciplina e con la sua vocazione assorbente, a produrre visioni assolute del mondo in reciproca e radicale alternativa, e a configurarsi sempre come fenomeno totalitario, impedendo che si possa garantire nelle istituzioni rappresentative l’autentica formazione di una razionale volontà generale. Quella di Rousseau, quindi, non era un’illusione: se non si può mai realizzare, ciò dipende solo dall’esistenza dei partiti. Ma c’è dell’altro. Il turbinio di antitetiche e irriducibili passioni che i partiti generano ed esaltano nel dibattito pubblico e politico allontana i cittadini da qualsiasi verosimile ricerca del bene comune, rendendoli prigionieri di idee inesistenti o ingannatorie. Con un prezzo da pagare molto più alto e quasi inimmaginabile: così facendo, la tensione verso la giustizia e la verità si trasforma paradossalmente in questione puramente personale; e in tal modo l’arena pubblica diventa il territorio privilegiato per l’affermazione di misure del tutto opposte all’interesse pubblico. 

La potenza del messaggio è grande per molte ragioni, specie in quest’ultima parte. Perché non si tratta – semplicemente – di mettere alla prova i tanti ragionamenti sui punti deboli della rappresentanza alimentata dai partiti e sull’importanza delle regole costituzionali volte a garantire l’autonomia deliberativa dei parlamenti mediante la protezione della capacità di discernimento di chi vi fa parte. I bilanciamenti classici tra l’idea della rappresentanza come rapporto e l’idea della rappresentanza come posizione non definiscono gli unici confini del saggio. Nel quale, del resto, non si vuole strizzare l’occhio neppure a posture che oggi si potrebbero definire, banalmente, antipolitiche. La filosofa francese prende di mira ogni chiusura istituzionalizzata del pensiero critico, tanto che non risparmia nemmeno l’ortodossia cattolica concepita da San Tommaso. La traiettoria di Simon Weil è molto più moderna; anzi, è sorprendentemente attuale. Essa conduce alla perfetta raffigurazione di ciò che (tragicamente) accade quando ogni discorso (e in primis quello politico e civile) è dichiaratamente lasciato al dominio di opinioni puramente passionali e partigiane, nella convinzione presupposta che anche le valutazioni più obiettive (come sono quelle scientifiche, ad esempio) altro non siano che il frutto di pure, e false, opzioni assiomatiche. In una società risolutamente post-ideologica il tema è incandescente, perché in teoria dovrebbe essere più facile accorgersi che il re è nudo. Ad ogni modo, se c’è qualcosa che questo Manifesto invita a riconsiderare è la tendenza fallace a immaginare che i parametri di razionalità siano sempre condizionati, in ultima analisi, da fattori di mera volontà, e che la libertà di tutti e di ciascuno si sviluppi soltanto mediante le sue più spontanee occasioni di manifestazione. È un fenomeno che oggi fagocita gli stessi partiti; che ne travalica l’esperienza. Occorre, tuttavia, apprendere che un tal genere di libertà non esiste e che, viceversa, è la menzognera utopia di poter sostenere, scegliere e realizzare qualsiasi cosa – magari accedendo autonomamente a ogni tipo di informazione o di servizio, rigorosamente individualizzati e pretesamente identitari… – a lasciare il campo al finale dominio di pochi e ad un più generale senso di frammentazione e disorientamento collettivi.

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N. 46 della storica collana Le Silerchie (Il Saggiatore), 1960: bellissima copertina di Balilla Magistri, come sempre in quelle raffinate edizioni. Il volumetto contiene un racconto-saggio formidabile, Il Teatro delle Marionette di Heinrich von Kleist. È il 1801 e l’Autore incontra un amico ballerino, intento a godersi uno spettacolo di marionette allestito sulla pubblica via. Stupito del grande interesse dell’amico per un’esibizione che ritiene eccessivamente popolare, gli chiede spiegazioni. E ottiene una lezione profonda, dalla quale si sviluppa un dialogo dagli esiti abissali. L’amico, infatti, gli illustra la estrema naturalezza dei manichini, i cui arti snodati, facendo agio sulla sola forza di gravità, si muovono con una grazia che un uomo mai potrebbe raggiungere. I due, allora, avviano un breve scambio di opinioni, via via più convergenti, nel quale, per il tramite di due piccoli ed efficacissimi aneddoti, finiscono per concludere che è l’arroganza della coscienza e della riflessione tipiche dell’uomo a frapporre un innaturale ostacolo sulla strada della perfezione. Questa, in definitiva, o è propria della marionetta o è propria di un dio. All’uomo, dunque, per tornare allo stato di innocenza nell’ultimo “capitolo della storia del mondo”, non spetta che “mangiare di nuovo il frutto dell’albero della conoscenza”.

Andiamo pure al di là del fatto che in uno specifico passaggio questo testo pare fornire un calco per il tema drammatico, e molto antico (mito di Narciso), che Oscar Wilde svilupperà in modo assai originale ne Il ritratto di Dorian Gray; e prescindiamo anche dal fatto (ulteriore) che in questo testo non ci sono evoluzioni o frasi che si possano ritenere fuori posto o ridondanti: ci troviamo di fronte ad un capolavoro, un classico a tutti gli effetti. Il punto è che il messaggio di Kleist è straordinario. Anticipa – e forse ispira – il lungo ragionare dell’intelligenza artificiale più famosa della storia della letteratura, il computer protagonista di Golem XIV, di Stanislaw Lem, che evidenzia l’assoluta grandezza delle forme di esistenza organica più semplice (e in particolare di quelle vegetali: v. recentemente anche le belle e sorprendenti pagine di Emanuele Coccia). Al contempo, però, Kleist pone, e quasi circoscrive, la dimensione delle possibilità di sviluppo concretamente attingibili da parte dell’umanità nell’orizzonte di uno sforzo che non può che essere, e rimanere, anche sul piano etico-giuridico, fatalmente e legittimamente frustrato. In questo racconto si intravedono tutte le inquietudini che fanno del romanticismo tedesco l’anticamera delle fondamentali fratture filosofiche in cui il Novecento sarà destinato a lacerarsi, e con cui abbiamo ancora a che fare. Ma la ricchezza di questa lettura non è finita qui. Nello stesso volumetto – che, come per tanti altri libretti delle Silerchie, è aperto da un’illuminante nota di Giacomo Debenedetti – il pezzo di Kleist viene introdotto da un saggio di Greenberg su Paul Klee. È questo saggio a rafforzare il tempo lungo e il senso complessivo del racconto. Perché per Greenberg la ricerca di Klee altro non è che il tentativo di avvicinare sempre di più, o sempre meglio, e con un analogo e inconfondibile approccio di un certo metodo germanico, la totalità che è presente nelle più semplici rifrazioni della realtà. Multum in parvo, quindi; una prospettiva tuttora carica di declinazioni notevoli, senza dubbio per capire un importante filone dell’arte contemporanea, ma anche per ricevere una chiave interpretativa utile a immaginare il futuro dell’uomo e delle sue tante conquiste.

Teatro delle Marionette in lingua originale

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Dopo una serie di dieci fortunatissimi romanzi, seguiti da un periodo di silenzio, a sua volta intervallato dalla composizione di altri due cicli narrativi (uno sulla mafia italoamericana e uno sulle origini del socialismo italiano), Valerio Evangelisti rimette le vesti del suo più noto e apprezzato eroe: Nicolas Eymerich da Gerona, padre domenicano e spietato e sottilissimo inquisitore; un personaggio realmente esistito e operante nella seconda metà del Trecento, autore di quel monumentale Directorium inquisitorum, manuale teorico-pratico per i procedimenti contro gli eretici, che si pone anche alle origini del diritto del processo inquisitorio canonico. Le ultime due puntate della saga – che aveva debuttato nel 1994 ed è collocata in pieno Medioevo, pur essendo raccontata con intermezzi distopici e fantascientifici, che spesso interagiscono in modo essenziale con la trama della storia principale – sono Eymerich risorge (2017) e Il fantasma di Eymerich (2018). Questo secondo titolo ufficializza a tutti gli effetti l’avvio di un nuovo ciclo.

Nel primo romanzo (ambientato nel 1374) Eymerich è alle prese con un movimento eretico apparentemente indecifrabile, su espresso mandato di Papa Gregorio XI. Succedono cose strane tra la Provenza e il Piemonte: incendi improvvisi e apparizioni misteriose, di luci ma anche di uomini; su tutti, di Francesc Roma, francescano di rango e potente e astuto consigliere di Pietro d’Aragona, antico avversario di Eymerich. Non c’è nulla di meglio, dunque, per stimolare la determinazione del dotto e terribile inquisitore, che con l’aiuto dei suoi più fidati compagni – padre Jacinto Corona, il notaio De Berjavel e mastro Gombau – si lancia alla caccia di un culto enigmatico. Sembra che il mistero si celi tra le montagne, e che sia difeso dalle comunità valdesi. Ma si tratta di qualcosa di molto più profondo e temibile, tanto che Eymerich, oltre a doversi confrontare con campioni della più varia umanità, affronta pure la morte, ritrovandosi improvvisamente, e inspiegabilmente, risorto. Anche in questo caso la verità è nascosta nelle pieghe di un lontano futuro, in cui le ricerche sorprendenti del dottor Marcus Frullifer spiegano quali siano le oscure forze che nell’universo agiscono, e che si manifestano anche attraverso l’operato ultratemporale di un lontanissimo e potentissimo magister, assiso sulla Luna.

Nel secondo romanzo (che colloca la storia tra il 1377 e il 1378) l’inquisitore, liberatosi dalla prigionia cui lo aveva costretto un suo acerrimo nemico, fugge dalla penisola iberica per dirigersi via mare a Roma, dove conferisce con il pontefice. Gregorio XI, infatti, ha spostato la sede del Papato da Avignone all’antica ma degradata capitale dell’Impero. Sta morendo e confida a Eymerich che il sottosuolo della città eterna nasconde luoghi e riti pagani e minacciosi. L’indomito domenicano prende la palla al balzo e, districandosi tra volgari caporioni, prelati-guerrieri e sante in estasi, comincia ad indagare. Nel frattempo, attorno a lui, succede di tutto: viene eletto un nuovo Papa, Urbano VI, gradito al volgo romano, ma la sua lotta contro la simonia si fa quasi eccessiva, tanto da coalizzare per l’elezione di un nuovo pontefice la maggioranza dello stesso clero che lo aveva scelto. Si va incontro, così, all’intronizzazione di Clemente VII e al grande e grave scisma d’Occidente, mentre Eymerich non guarda in faccia a nessuno e sfida e sconfigge la setta che vuole reintrodurre il culto di Mitra. In questa lotta non è solo, non tanto perché a seguirlo c’è sempre padre Corona, ma anche perché c’è il suo alter ego, il magister venuto dal futuro, a metterlo sulla strada giusta. Anche questa volta gli oscuri segreti di queste comunicazioni intertemporali si intrecciano con le eccentriche avventure del dottor Frullifer.

Che cosa c’è, di imperdibile, nell’epopea Eymerich? Intanto c’è Eymerich stesso, uomo machiavellico ante litteram: implacabile contro chi ritenga colpevole di eresia e crudele, all’occorrenza, ma sempre aggrappato alla logica come arma invincibile, e capace di una graffiante ironia. È il paradigma di ciò che si definisce un personaggio a tutto tondo: icona di un Medioevo medievalissimo, truce e a tinte forti e nette; massimo esempio della razionalità del suo tempo e di ciò che di quel patrimonio culturale è transitato fino a noi. Chi non vorrebbe essere saldo e forte come Eymerich? Un altro tratto speciale dei cicli creati da Evangelisti è la sintesi più che riuscita tra romanzo storico, thriller e fantascienza: una ricetta nella quale l’ultimo, e apparentemente eccentrico, ingrediente è dosato quanto basta. Non è funzionale, infatti, alla creazione di una sovrapposizione di generi; non è, cioè, un espediente narrativo. È il medium di una visione totalizzante della letteratura, nel senso dell’idea di universo che si vuole raccontare, ma specialmente nel senso della dimostrazione che è possibile, con la letteratura, e vale a dire a partire dalla sua dimensione, cambiare la realtà storica. Innanzitutto quella presente.

Un’intervista all’Autore

Un’analisi linguistico-stilistica su Eymerich

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La prima lettura (M. Enard, L’alcol e la nostalgia) è il racconto di un viaggio: è quello dell’io narrante, che percorre la Transiberiana da Mosca a Novosibirsk, verso la casa natale di Vlado, l’amico russo, ora improvvisamente defunto, con cui ha condiviso una stagione di eccessi e l’amore per la stessa donna. L’occasione è buona per rievocare l’agrodolce deriva del triangolo, ma anche per tuffarsi in un rapsodico e suggestivo girovagare nell’anima russa di ieri e di oggi: da Ivan il Terribile ai deportati dei Gulag, dalla Rivoluzione d’Ottobre ai contrasti stranianti della Mosca occidentalizzata, dagli umori inquieti di Dostoevskij alle storie eroiche dei cavalieri selvaggi di Joseph Kessel… L’atmosfera è quella di una eterna decadenza, che si compiace della sua ineluttabile grandezza, e pure il protagonista sembra abbracciare un destino di finale nullificazione, anche se l’amore e la sua nostalgia forse avranno la meglio. Il libro è adatto per un pomeriggio invernale, per lasciarsi andare alla prosa di un intellettuale colto e ipersensibile, di un rabdomante di tormenti e ibridazioni emotive. Si rischia di scoprire che anche le paturnie, specie quelle di fine anno, possono stare in buona compagnia e generare momenti e riflessioni quasi consolanti.

La seconda lettura (J. Baudrillard, Il complotto dell’arte) è un regalo azzeccato, una raccolta di saggi brevi e ficcanti di uno dei più originali e pensosi interpreti del nostro tempo, qui impegnato in una disamina critica dell’arte contemporanea e dei processi trans-estetici di cui essa è formidabile strumento. Il cuore del volume è l’intervento, tanto sintetico quanto denso, che gli dà anche il titolo, e che riproduce un articolo pubblicato nel 1996 sul quotidiano Libération, fonte di una discussione che tra gli addetti ai lavori si è protratta per molto tempo. La tesi è che l’arte contemporanea ha perso “il desiderio dell’illusione, a vantaggio di una elevazione di ogni cosa alla banalità estetica”, e che, ciò facendo, abusa continuativamente dell’impossibilità di un “giudizio estetico fondato”, in una strategia ammiccante e sostanzialmente commerciale. La contestazione è dura. Baudrillard, però, non assume la veste del castigatore. La sua è una prospettiva antropologica, volta a descrivere una rivoluzione generale, che non è certo così recente e che è stata anche capace di anticipare se stessa e di sublimarsi in opere particolarmente sintomatiche, come sono – per Baudrillard – quelle di Warhol. L’interrogativo ancora aperto è solo uno: saprà il pubblico accorgersi di tutto questo? Fino a che punto rimarrà complice, esso stesso, di questa grande mistificazione? Il 2017 è stato l’anno della lussureggiante ed estrema esposizione di Hirst nella Venezia di Palazzo Grassi e Punta della Dogana: anche chi c’è stato si sarà sicuramente posto, come Baudrillard, tante domande…

La terza lettura (C.G. Starr, Lo spionaggio politico nella Grecia classica) appartiene al genere dei ritrovamenti causali, tanto estemporanei quanto felici. È un lavoro che risale agli anni Settanta e che Sellerio ha pubblicato in Italia accompagnato da una prefazione di Luciano Canfora e da una lunga introduzione del curatore, Corrado Petrocelli. L’Autore, uno storico nordamericano, avverte da subito che in tema di utilizzo strategico di informazioni, pubbliche o segrete, le fonti antiche sono scarse, e che in un’indagine di questo genere il rischio dell’anacronismo è sempre molto alto. Poi, però, spulciando in Omero, nelle Vite di Plutarco, nelle tragedie, in Tucidide e Demostene e in altre opere meno conosciute, Starr dimostra che anche nelle poleis greche si assumevano decisioni importanti sulla base di ciò che si conosceva del nemico, avendo cura di raccogliere notizie nei modi più disparati (grazie alle relazioni commerciali, alla circolazione delle compagnie artistiche, ai rapporti familiari tra le aristocrazie cittadine, alle delazioni degli esiliati…). La cosa che è più sorprendente è che nell’antica Grecia era nota anche l’attività della dissimulazione e dello sviamento, magari mediante la spedizione di messaggi, o di messaggeri, artatamente ambigui, nella speranza di ingannare le potenze concorrenti; e che, comunque, spesso e volentieri, anche a fronte di notizie genuine, i governi – e le assemblee in cui se ne discutevano e condividevano le intenzioni – le hanno interpretate e usate male. C’è, infine, un’osservazione, che Starr formula in un paio di occasioni, e che sembra molto calzante per sfatare alcuni luoghi comuni: nell’antica Grecia le informazioni trattate segretamente si rivelavano molto meno efficaci e utili di quelle raccolte pubblicamente. E non è che, in questo secondo caso, non si possa parlare di attività di intelligence.

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Con la semplicità e la chiarezza che ne hanno da tempo sancito il successo, in Aristotele e la favola dei due corvi bianchi Margaret Doody fa sì che il filosofo di Stagira si confronti con le difficoltà del governo cittadino, e in particolare con i pericoli cui questo è costantemente esposto. Gli uomini, infatti, tendono sempre a lasciarsi andare alla soddisfazione dei loro interessi più egoistici. Ciò, almeno, è quello che accade anche ad Atene, dove il saggio maestro, chiamato a chiarire i dettagli di una brutta vicenda di corruzione, si trova a risolvere tre casi emblematici: quello del ricco Simmaco, accusato di strani traffici sull’isola di Idra; quello di suo cugino Caronide, il delatore apparentemente caduto in disgrazia; e quello di un libro stranamente scomparso, sottratto dalla biblioteca del Liceo. Naturalmente Aristotele capisce subito tutto. Ma prima della spiegazione conclusiva si intrattiene con i suoi allievi e gli racconta una favola, prendendo spunto da un classico motivo di Esopo. Come i colpevoli, finalmente smascherati, i due corvi bianchi, che credevano di essere migliori di tutti gli altri, hanno peccato di orgoglio e di avarizia, isolandosi dalla comunità e incontrando la rovina. Sicché – osserva l’autore della Politica – la città non esiste solo per il raggiungimento di finalità pratiche, eventualmente conseguibili in solitudine, ma anche, se non soprattutto, per “concepire grandi ideali” e “per conoscere e compiere nobili azioni”.

Quella di Aristotele è soltanto una delle tante varianti del grande e imperituro discorso greco sulla poleis e sulle sue diverse e possibili formule di legittimazione. In un piccolo e concentrato volume, Chi comanda nella città? I Greci e il potere, Mario Vegetti ci offre uno spaccato particolarmente efficace delle formidabili chiavi di lettura che il pensiero politico ateniese ha prodotto tra il V e il IV Secolo a.C. Nel primo capitolo ci si domanda, innanzitutto, perché un simile laboratorio teorico si sia sviluppato in Grecia, e per lo più in uno specifico momento storico. L’ipotesi è che quel luogo e quel tempo siano stati il teatro di una forte crisi di sovranità, presto riempita da una molteplicità di piccoli nuclei indipendenti di potere, ciascuno impegnato nella ricerca di una ragione capace di riconoscerlo. Ma quale può essere questa ragione? Le ricette, analizzate dall’Autore, poggiano su cinque distinte fonti di potere: la maggioranza (plethos), la legalità (nomos), la forza (kratos), l’eccellenza (aretè), la competenza (episteme). A ognuna di esse è dedicato un capitolo, dal secondo al sesto; e per ognuna vi sono indicati i protagonisti, ossia i principali portavoce. Si apre, così, una ricchissima galleria, animata, passo dopo passo, da Erodoto, Protagora, Aristotele, Platone, Trasimaco, Tucidide, Callicle, Glaucone… Non sono altro che i tasselli di quella tradizione cui tutta la modernità politica ha attinto per secoli, traendovi il materiale costruttivo per le edificazioni istituzionali contemporanee dell’Occidente (verrebbe la voglia di riprendere il famoso corso di Norberto Bobbio). Il libro termina con un un’annotazione meritevole di una riflessione più ampia e meditata: ogni ricetta presuppone una corrispondente opzione antropologica, una correlata visione, positiva o negativa, dell’uomo e della sua natura. Più di tutto, però, si può affermare che ogni teoria si misura con la questione se la natura umana sia o meno trasformabile, ovvero se la sua base sia conflittuale o collaborativa, e se questi suoi connotati invariabili abbiano eventualmente una durata più lunga di quella delle formazioni economico-sociali destinate a correlarsi con essi. L’Aristotele della Doody direbbe di sì.

Sui romanzi di Margaret Doody: Aristotele Detective (di A. Bencivenni)

Mario Vegetti, il potere e i filosofi: una lezione

Sul contributo di Norberto Bobbio: Forme di governo antiche e contemporanee (di C. Pinelli)

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imagePer la fine del 2014 Nuovi Argomenti ha raccolto tutte le recensioni o i post dedicati nel corso dell’anno alle opere di poesia o alla pubblicazione di singoli pezzi, già noti o inediti. È un’occasione più che buona per assaporare un distillato degno della migliore meditazione e per avviare la nuova annata lasciandosi guidare dalle voci degli oracoli più credibili tra quelli oggi disponibili.

Tre “prime scelte”:

Roberto Cescon

L’AVANGUARDIA È FINITA

Nei giorni scrivo una lista di gesti

che sono libri, tastiera, bicicletta,
pannolini, pentole, pigiama.
La notte cerco di dormire, prima
di ricominciare la spirale.
Esistono varianti della lista
ma non spostano la bolla.

Ogni giorno vado fuori e torno a casa.

Io sono questo, inutile pensare altro.

Non è tempo di distruggere o fuggire,
dobbiamo starci accanto,
capire che la strada è anche ciò che abbiamo.

Jack Underwood

A VOLTE LA TUA TRISTEZZA È UNO YACHT

enorme, bianco e costoso, come un’incudine
caduta dal cielo: come saliremo a bordo
se a forza di guardare in alto ci fa male il collo?

Altre volte è una pietra su un prato all’inglese, e la materia
non può mai essere distrutta. Ma oggi la teniamo ferma
sul bordo del tuo letto, chiudendo gli occhi

su un’altra ora aperta ascoltando
le voci dei nostri vicini avere le voci
dei loro amici a pranzo.

Stefano Dal Bianco

POESIA DEL CAVALLO

Un cavallo qui sotto si ferma e cerca di imitare, come un cane
come un gatto, come tutti quelli
che diversi da noi ci stanno accanto,
il destino di essere umani, di sganciarsi
verso altre potenzialità,
di assorbire nutrimenti più sottili
di mondi di soli di galassie
di pensieri e sentimenti non lunari.

Porta nell’occhio la desolazione
di chi sa per contatto e consuetudine
di manierismo umano che per sé non c’è
affrancamento potenziale
ma infinita schiavitù, condanna:
né carne né pesce, né lupo né cinghiale ma sicuro
organigramma animale.

Se soltanto sapesse quanto e cosa
ogni giorno ogni istante qui da noi si butta
per distrazione criminale
e quanto bestiale o vegetale
sia il destino dei cristiani
esiliati dall’anima immortale!

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Qualche tempo fa ho letto sulla rivista Internazionale (18/24 ottobre 2013) un articolo di Jonathan Franzen, dedicato a Karl Kraus. Era un estratto, in verità, di un lavoro più ampio, The Kraus Project, di cui si possono facilmente consultare belle recensioni su molti autorevoli quotidiani (v., tra l’altro, sul New York Times o sul Guardian). L’Autore è Kraus stesso, riproposto in alcuni dei suoi pezzi migliori; Franzen è presente in qualità di glossatore-attualizzatore dei testi. Da pochi giorni ne ho acquistato l’edizione italiana, pubblicata da Einaudi. A pag. 227, in chiusura, Franzen riporta una famosa e discussa poesia di Kraus (Man fragt nicht – Non si chieda), testimonianza della paralisi quasi assoluta che aveva colpito il grande critico austriaco – di cui in tanti attendevano la reazione – di fronte alla drammatica ascesa del Nazismo:

Non si chieda cosa ho fatto in tutto questo tempo.
Resterei muto;
e non direi perché.
E c’è un silenzio da far esplodere la terra.
Neanche una parola che abbia colpito;
si parla solamente nel sonno.
E si sogna di un sole che rideva.
Svanisce;
il dopo non ha più importanza.
La parola si è spenta, quando quel tempo si è svegliato.

(Pubblicata in “Die Fackel”, n. 888, ottobre 1933 – trad. v. testo originale)

Alla poesia segue, sempre per volontà di Franzen, una nota esplicativa di Daniel Kehlmann, tanto sintetica quanto puntuale. E tuttavia ho avvertito un moto di insoddisfazione, e mi sono quasi pentito di aver comprato questo volume. Mi sono subito ricordato, ad esempio, del fatto che, in Italia, per capire Kraus, ci possono essere ben altri e potenti strumenti per ogni più utile approfondimento. E che questa sorta di divulgazione-mediazione pop non è altro che un modo incosciente di perpetuare uno sfregio alla memoria di una delle figure più colte e complesse del suo tempo. Ma mi sono accorto, soprattutto, che nella nota di Kehlmann manca qualcosa: l’immediata spiegazione che della poesia aveva dato Bertolt Brecht, qui citato, invece, soltanto incidentalmente, come semplice estimatore di quel testo. Eppure, dopo la lettura di Man fragt nicht, Brecht aveva pubblicato a sua volta, a stretto giro, un altro famoso componimento, di per sé risolutivo, consegnando alla letteratura continentale un dialogo a distanza ancora illuminante e, quindi, imperdibile:

Una volta che il Terzo Reich fu fondato
Dal critico venne solo un breve messaggio.
In una poesia di dieci righe
Si levò la sua voce unicamente per denunciare
Che essa non era sufficiente.

Una volta che l’orrore ha raggiunto una certa dimensione
Non c’è esempio che tenga.
I crimini si moltiplicano
E le grida di dolore cessano.
I delitti vengono spudoratamente commessi sulle strade
E se ne fregano altamente della descrizione.

A colui che viene impiccato
La parola rimane in gola.
Si diffonde il silenzio e da lontano
Esso viene scambiato per giustificazione.
La vittoria della violenza
Sembra completa.

Solo i corpi mutilati
Denunciano che i criminali hanno infierito.
Solo nelle abitazioni rese deserte è ancora il silenzio
A denunciare i crimini.

È la lotta dunque terminata?
Possono essere dimenticati i crimini?
Possono i trucidati essere sepolti e i testimoni imbavagliati?
Può trionfare l’ingiustizia, nonostante sia ingiustizia?
I crimini possono essere dimenticati.
I trucidati sepolti e i testimoni imbavagliati.
L’ingiustizia può trionfare, nonostante sia ingiustizia.
L’oppressione si mette a tavola e agguanta il pasto
Con mani insanguinate.
Ma coloro che portano il pasto
Non dimenticano il peso del pane; e la loro fame fa buchi ancora
Quando la parola fame viene vietata.

Chi ha parlato di fame viene steso.
Chi ha gridato contro l’oppressione giace imbavagliato.
Ma coloro che devono pagare i tributi non dimenticano lo strozzino.
Ma gli oppressi non dimenticano il piede che sta loro sulla nuca.
Prima che la violenza abbia raggiunto il suo massimo grado
Ricomincia la resistenza.

Quando il critico si è scusato
Perché la sua voce non ce la faceva
Fu il silenzio a proporsi davanti al tavolo del giudice
Levò il velo dalla faccia e
Si fece riconoscere come testimone.

(“Sul significato della poesia di dieci righe pubblicata sul numero 888 della Fackel, ottobre 1933”, aprile 1934 – v. testo originale)

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When he had asked his friends to stay aware
and gone in the night a little way away
to think on his life and about what was to come,
the man was suddenly overcome by fear
and his heart grew sorrowful and heavy.

The hills are white, the gardens white with frost.
An icy wind cuts in along the quay
and chills the earliest Holy Week in years;
and during the longeurs of these final days of Lent
what am I reading? Poetry from the wars.

The hour is at hand. The orders have come in.
Somewhere a room whose threshold I must cross
has been prepared: an oxytocin drip 
waits with the gas and air and suture tray
beside a snow-white bed. Let this cup pass.

Il tema pasquale intrecciato con ironia all’eterno struggimento di ogni poeta… Una poesia imperdibile, from Ireland!

L’Autrice e il suo sito

La raccolta da cui è tratta la poesia: Profit and Loss (2011)

Una recensione a Profit and Loss

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Prima avvertenza: è meglio se si riesce ad andarci in auto. È vero che per chi arriva in treno c’è l’apposita fermata in esatta corrispondenza del piccolo omonimo comune, raggiungibile senza disagi sulla tratta Milano-Pavia. Però, anche se si viene sbalzati dalla ferrovia in sorprendente prossimità del lunghissimo muro di cinta del monastero, possono presentarsi alcune difficoltà, specialmente per chi si muove con trolley, borse o valigie varie. C’è un percorso pedonale, teoricamente assai suggestivo, proprio lungo il muro; ma il terreno fangoso e le frequentazioni faunistiche del vicino canale potrebbero non costituire la migliore delle accoglienze. // Seconda avvertenza: la Certosa è ben connessa a tutte le vie di comunicazione. Eppure, salva la locale stazione dei Carabinieri, praticamente inglobata nell’ingresso, gli immediati dintorni del pur enorme complesso architettonico paiono colpiti dalla più classica delle desolazioni con cui sono costretti a convivere moltissimi dei patri monumenti. Escluderei da questo insopprimibile senso di disfacimento la stretta contiguità del monastero con il più famoso e storico stabilimento della Galbani (eh si, proprio quello del Bel Paese…). È un raffronto che suscita più di qualche rilievo, per nulla negativo (da una fabrica all’altra…).     

La visita: traguardati dal binario, i pinnacoli della Certosa spuntano in una leggerissima foschia. Ma non ci si sente nel XIV Secolo, anche se la posa della prima pietra risale all’agosto del 1396. I silos dell’industria del formaggio incombono e l’idea, oggi, è che, dietro l’alta parete di mattoni che protegge gli antichi poderi dei monaci, si stia innalzando un’eccentrica e avveniristica Metropolis padana. All’entrata del cortile antistante alla chiesa, Quattrocento, Cinquecento e Seicento si lasciano finalmente raggiungere, come in successione, anche se in rigoroso ordine inverso (prima il Seicento, per gli edifici che fanno da contorno al cortile, poi il Cinquecento, per il cortile stesso, quindi il Quattrocento per l’imponente struttura della chiesa). La facciata è policroma, anche se domina il bianco; è maestosa e connotata da un’unicità che è complice con quella dello sguardo inevitabilmente stupito di ogni singolo visitatore. Si comprende facilmente la stratificazione di stili, idee e lavorazioni, frutto di un cantiere secolare. Le immagini e le storie scolpite impongono attenzione, specialmente attorno al portale. È una fioritura di decorazioni, affiancate l’una all’altra.

Per entrare si passa dalla chiesa (S. Maria delle Grazie: il nome di tutto il complesso è Gratiarum Chartusia, da cui il GRA-CAR che si trova impresso in più luoghi e in più elementi della costruzione). Si deve attendere il proprio turno. La visita dura circa mezz’ora e la guida – che altri non è se non un monaco cistercense di origine brasiliana – finisce il proprio giro e torna a prendere il gruppo, che nel frattempo si è spontaneamente accalcato davanti al cancello che separa il transetto, il coro e l’altare dalla navata centrale. Nell’attesa il visitatore non trova alcun genere di supporto esplicativo. Il vuoto non disturba, fa rima con l’imponenza e l’incidenza dei volumi tardo-gotici, davvero sorprendenti e paralizzanti. E invita alla scoperta disorientante degli affreschi e delle vetrate. Ma i poli d’attrazione sono effettivamente nel transetto: il monumento funerario di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este; il sepolcro di Gian Galeazzo Visconti; il trittico in avorio. Da subito si capisce che l’illustrazione guidata corrisponde ad un testo recitato, imparato a memoria, concepito per essere ripetuto meccanicamente e, forse, di per sé poco interessante. È quasi una preghiera, un perdurante atto di riconoscenza agli Sforza e ai Visconti (finanziatori dell’opera), oltre che a Dio: nel centro del magnifico coro il monaco ci invita in modo disarmante alla recita collettiva del Padre Nostro. Capisco, tuttavia, che la visita di natura intimamente devozionale ha una sua precisa finalità e che, peraltro, colpisce veramente il piccolo pubblico dei turisti. E intuisco, allo stesso modo, che, se al posto del simpatico monaco brasiliano ci fosse un preparatissimo storico dell’arte, la comitiva non sarebbe altrettanto sopraffatta dalla dimensione della cosa. Il punto è che il rapporto con un bene culturale ha anche bisogno di ispirazione e di riverenza, e non solo se si tratta di un monumento di interesse religioso. La lezione ha una portata generale, per nulla scontata: nel patrimonio artistico c’è da comprendere e da approfondire, ma c’è anche da restarne avvolti. I due profili si sorreggono a vicenda.  

Il vero trionfo è nei due chiostri. Il primo, quello piccolo, che offre la vista più suggestiva alla cupola che sovrasta la chiesa e ai contrafforti che la sorreggono; e il secondo, quello grande, che fino al 1947 ospitava le celle dei certosini e che è il più autentico regno del silenzio. Del primo mi colpisce la raffinatezza del cotto lombardo, articolato in molteplici forme scolpite su tutti gli archi, oltre che sullo splendido fontanile laterale, cui i monaci si recavano per lavarsi. Il secondo è immerso nel pallido sole di dicembre, con un placido gatto che ne sorbisce il tepore vicino ad una della innumerevoli colonne: è come la piazza verde di una città ideale, uno spazio assoluto sul quale si affacciano, ad intervalli regolari, le casupole seriali dei monaci. In un angolo si può sbirciare sull’enorme distesa di campi recintati in dotazione al convento. La guida ripete compìta le regole e l’organizzazione della vita di ogni certosa (v., ad esempio, la semplice presentazione dei certosini di Serra San Bruno); poi si viene fatti entrare in una delle celle, raccolte e complete, con camino, studiolo e piccolo orto-giardino. 

I pensieri che mi vengono subito in mente sono apparentemente un po’ dissociati: devo rileggere Altissima povertà di Agamben; ho una voglia improvvisa della mia consueta quiete domestica. Così produco una riflessione forse troppo prosaica, ma tanto personale quanto sincera: in fondo, quando sono a casa, mi riposo e mi ricostruisco, e ciò non solo perché trovo un momento di pausa, ma anche perché posso informare lo spazio che mi circonda alle mie più spontanee e semplici esigenze, in senso alternativo a quella che è la vita che normalmente conduco all’esterno. Per questa ragione apprendo che la casa è, nella mia esperienza, lo specchio di un quotidiano e laico bisogno certosino. La visita termina nello shop della struttura, gestito dai cistercensi, attuali custodi della Certosa (ma lo sono stati anche in altre epoche, come è accaduto anche per i carmelitani). Ci scappa l’acquisto di una tisana confezionata sul posto e si esce nuovamente nel cortile di fronte alla facciata della chiesa, evitando (si sta facendo tardi…) l’attigua gipsoteca, che è gestita dalla locale Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio (e che si trova nell’antica Foresteria, poi Palazzo Ducale, residenza estiva dei Visconti). La nebbia comincia ad addensarsi; da queste parti è un copione pressoché fisso e molto suggestivo. Si riparte con l’immagine della Madonna del Garofano, ritratta nella Sala del Lavabo: un piccolo “santino” a mo’ di cartolina, per ricordare la leggerezza di questa visita imperdibile.

Il sito della Certosa

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