In un futuro tecnologicamente avanzatissimo il globo terrestre è sottoposto al dominio di due grandi Blocchi, uno a Occidente e uno a Oriente, separati da un alto Muro magnetico. Le ragioni della divisione sono lontane nel tempo, nessuno se ne ricorda più. Tanto che le due partizioni – simboleggiate da un Triangolo e da un Quadrato – paiono dominate entrambe da un unico linguaggio di matrice scientifica, che misura costantemente i potenziali individuali e collettivi. Ormai sembra tutto regolato e risolto, anche se esiste ancora la questione meridionale, perché c’è una parte della popolazione – i “terroni” – che, con la sua atavica indolenza, male si è adattata al nuovo sistema e risulta del tutto disfunzionale. Si decide, allora, di sciogliere il nodo definitivamente, trasferendo quelle genti in un altro pianeta. Il romanzo racconta la storia avventurosa dell’astronave Speranza n. 5, che – sotto la guida del Capitano Don Francesco (Ciccio) Torchiaro – parte dallo scivolo spaziale di Vibo Valentia per condurre su Saturno gli ultimissimi “terroni”, ossia 1347 calabresi, con masserizie e animali annessi. Il lettore assiste a surreali e comiche vicende, tra cui un complotto, una storia d’amore, un singolare volo attorno al mondo, che nel frattempo, però, vive una drammatica conflagrazione, al termine della quale i meridionali, casualmente scampati, finiscono per rappresentare l’inizio inatteso di un’umanità nuova.

La “fantarca” del titolo è la Speranza n. 5: arca, perché, come quella biblica, raccoglie uomini e bestie, anche se, in questo caso, della sola Calabria (con pochissime eccezioni); fanta, perché il battello è degno di Star Trek e l’ambientazione è espressamente fantascientifica, ma pure fantastica, visto che il profilo futuristico è mescolato all’invenzione più pura, e ad un senso spiccato per l’ironia e la satira. L’intrinseca forza immaginifica della narrazione ha fatto sì che del libro, pubblicato nel 1965, è stata realizzata per la Rai, l’anno dopo, anche una riduzione televisiva, nelle forme di un piccolo spettacolo musicale in un unico atto. Ha sicuramente ragione Diego De Silva – che della presente edizione ha scritto la prefazione – quando sottolinea che La fantarca non è un’operetta morale. È quasi un divertimento, una distopia ibrida, concepita per mescolare paure, tensioni e orizzonti allora attuali (la guerra fredda, lo spettro del conflitto nucleare, la corsa per lo spazio) con la caratteristica vena antimoderna dell’Autore. Nonostante ciò, rimane lettura fresca e godibile, che sa sprigionare suggestioni tuttora pertinenti, e forse insospettate, specie per quanto concerne la critica alla fiducia nelle possibilità apparentemente pacificanti del progresso e la spontanea simpatia per la semplicità popolare (invero fin troppo idealizzata). L’elemento che, forse, oggi più sorprende è l’attacco alla tecnocrazia, con la consapevolezza – in Berto molto radicata – sulle inquietanti ed esiziali conseguenze del rapporto tra produzione, governo dei numeri e asservimento definitivo di qualsiasi spazio di libertà individuale come collettiva.

Associazione culturale “Giuseppe Berto”

Un documentario sull’Autore

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Quest’anno si celebra il centenario della nascita di Gianfranco De Bosio, che è stato regista (e co-sceneggiatore, assieme a Luigi Squarzina) de Il terrorista. Il film, che risale al 1963 e ha tra i propri attori anche Raffaella Carrà, è stato nuovamente proiettato, in questi giorni, alla Mostra internazionale cinematografica di Venezia. Per l’occasione Mimesis ha pubblicato, a cura di Maria Ida Biagi e Giuseppe Ghigi, un interessante volume, che, oltre all’originale copione (già edito a suo tempo per Neri Pozza), raccoglie contributi sulla pellicola e sul suo restauro. Il plot è essenziale. In una Venezia vuota, livida e fredda, sorvegliata dai repubblichini di Salò e occupata dall’esercito tedesco, un ingegnere – un giovane Gian Maria Volonté, già pienamente calato nella sua iconica, tagliente espressività – si pone a guida di un GAP (Gruppo di Azione Patriottica) e organizza un attentato contro i comandi nazifascisti. L’azione non è stata condivisa con il Comitato di Liberazione Nazionale veneziano, che si riunisce clandestinamente, discutendo a lungo e facendo emergere le diverse posizioni delle forze politiche che lo compongono. È in gioco un radicale problema di legittimazione della lotta per la liberazione, e di responsabilità nei confronti della popolazione civile. Mentre si decide di tentare una mediazione ufficiale per evitare sanguinose rappresaglie, l’ingegnere, che nel frattempo ha fatto perdere le proprie tracce, compie un altro atto, questa volta dimostrativo, scatenando però, definitivamente, la reazione nazifascista: venti ostaggi vengono immediatamente fucilati. Il Comitato, nuovamente tormentato per i rischi che incombono, chiede istruzioni al CLN nazionale, che sta a Milano. Ma l’ingegnere e i suoi tentano subito una nuova operazione, che viene sventata, aprendo la strada alla caccia spietata della polizia fascista. La morsa va stringendosi attorno a tutti i cospiratori e pure ai membri del CLN veneziano, e l’ingegnere, prima di intraprendere la fuga, confessa alla compagna Anna le ragioni e l’angoscia della sua disperata risolutezza. Il finale è tragico.

Vedere, o rivedere, oggi Il terrorista è assai importante. In primo luogo, perché il suo carattere asciutto, quasi didascalico, e la recitazione da piece teatrale lo rendono un’efficace testimonianza di un momento drammatico della storia italiana e delle articolazioni spesso conflittuali delle forze che hanno fatto la Resistenza; una testimonianza tanto efficace perché verosimile e credibile, visto che De Bosio ha vissuto in prima persona l’appartenenza a una brigata partigiana (la Brigata “Silvio Trentin”, comandata dal patavino Otello Pighin). Ciò che colpisce è la capacità di ricostruzione e rielaborazione critica, visto che la composizione è assai consapevole e matura: a dimostrazione che anche dall’interno del mondo che ha partecipato direttamente alla Resistenza l’autoanalisi è sempre esistita. In secondo luogo, vi si trova rappresentato l’intreccio disperante, vissuto dall’ingegnere gappista, tra tensione ideale e civile, da un lato, e abisso morale, dall’altro: nel volantino di rivendicazione del primo attentato, il protagonista si compiace alla lettura della frase “È necessario agire anche se agire porterà necessariamente a soffrire”; nel dialogo intimo con Anna, però, improvvisamente, la fragilità esistenziale, la solitudine e le incertezze prospettiche di questa posizione vengono completamente allo scoperto (siamo sicuri che, dopo tanta sofferenza, non ci “sarà di nuovo un periodo che la gente si lascerà addormentare… anestetizzare… da un po’ di pace e di abbondanza”?). Su questo piano, il film passa dalla ricostruzione quasi documentaristica alla messa in scena di una dinamica tristemente universale, e anche attuale. Assume, infatti, i toni e la forza di una tragedia classica, che come tale tocca nel profondo e continua ancora a interrogarci.

Il film in versione integrale

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Questo romanzo è stato pubblicato in Francia nel 1984. A Edizioni di Atlantide va il merito di offrirlo oggi, per la prima volta, ai lettori italiani, confermando una speciale sensibilità non solo per le proposte più originali, ma anche per le riscoperte. Ed è in effetti singolare e affascinante, e disorientante, la storia di Armin Stern, un protagonista che si racconta da sé, talvolta in prima persona, altre volte in terza. Nato a Kronstadt, l’odierna Brașov in Romania, Stern è il giovane rampollo di una famiglia benestante di commercianti di origine ebraica. La sua infanzia si svolge nel cuore di una città e di un territorio ricchi di storia, vivaci e mitteleuropei per eccellenza, nella più spontanea e complicata mescolanza di lingue e culture. È legatissimo a questi luoghi, di cui sogna le antiche leggende, soprattutto la misteriosa e tragica figura di una sfortunata principessa. Tanto che si sentirà sempre accompagnato dalle apparizioni di una strana figura femminile. La seconda guerra mondiale, con l’occupazione nazista, sconvolge l’esistenza di Arnim e della sua famiglia. Riesce, tuttavia, a cavarsela e a studiare letteratura. Ma l’arrivo dei sovietici getta il Paese in un clima di nuovo pericolo e, mentre l’amico Ariel si tuffa entusiasta nel regime entrante, Armin rischia di finire in un campo di lavoro. Comincia così una lunga e costante peregrinazione, che da Haifa lo porta a Ginevra e a Parigi, dove – non prima di uno straniante periodo di lavoro ai tropici – riesce a integrarsi come professore universitario e sposa Matilde. Ma la quiete non arriva. Kronstadt, le occasioni perdute, la rovina di un mondo orami fiabesco continuano a tormentarlo, in un nostalgico e ricorrente struggimento. Oltre a ciò, uno strano e incombente pericolo minaccia seriamente la sopravvivenza di Armin come quella di tanti altri esuli. Nemmeno l’ospitalità di Ariel, che nel frattempo è fuoruscito in Spagna, sembra costituire un rifugio adeguato. Lo smarrimento cresce e si esalta, fino all’epilogo, in cui una dimensione onirica ha definitivamente il sopravvento.

“Arnim Stern tenta di incorporare il flusso tumultuoso dei suoi ricordi in un insieme che vorrebbe strutturato”: in questo modo, ad un certo punto, Reichmann/Stern parla incidentalmente di sé e della sua condizione sradicata e confusa. D’altra parte il romanzo stesso comincia quasi dalla fine, perché si dipana come flusso di ciò che l’esule rammenta del suo passato, mentre sta raggiungendo la casa di Ariel a Corcubión, in Galizia. Arnim, infatti, è alla ricerca. Vuole trovare una spiegazione e, contemporaneamente, un futuro al limbo perenne cui si immagina di essere consegnato, tra fallimenti relazionali e sentimentali, da un lato, e persecuzioni politiche, dall’altro. Si ha la sensazione, in qualche passo, che egli guardi alla sua situazione come a una forza di gravità cui è soggetto tutto il mondo, coinvolto com’è nello scontro tra superpotenze, in molteplici focolai di guerra, in frequenti attacchi terroristici, in intricati intrighi spionistici. Non c’è dubbio, al riguardo, che Reichmann abbia raffigurato in maniera particolarmente riuscita la classica figura, e la psicologia, dello juif errant: sovvengono presto, al lettore, le altrettanto tipiche rappresentazioni di Chagall (quelle più fantastiche e volanti, ma anche quella più conosciuta e famosa). Ed è anche notevole il modo con cui l’Autore costruisce un personaggio che porta sulle sue spalle sia secoli di storia, sia la maledizione di chi, solidamente piantato nell’humus che lo ha visto nascere, non riesce ad abbracciare veramente alcuna cornice collettiva: né quella dei suoi progenitori, né quella dei luoghi in cui si trova a vivere. Con l’esito che, in una realtà (la Storia con la Maiuscola) che è del tutto aliena da qualsiasi redenzione poetica, a Reichmann/Stern, che vorrebbe essere semplicemente, e ingenuamente, se stesso, tocca solo di sciogliersi nella narrazione universale in cui si è pervicacemente aggrovigliato. A buon diritto, in una delle prime recensioni, si sono richiamati Federico Fellini e il De Sica de Il giardino dei Finzi Contini; anche se, forse, a Reichmann si dovrebbero riconoscere pure un po’ di Pirandello e di Kadare. Giusto per sancire che la sua prosa abbraccia tutti i tormenti del Novecento.

Recensioni (di A. Litta Modigliani; B. Lolli; A. Mezzena Lona; C. Musso; S. Solinas)

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Coltivo da anni quella che considero una buona abitudine. Se viaggio verso un luogo, tanto più se mi devo impegnare in una qualche attività di riflessione, confronto o discussione critica, cerco di sintonizzarmi con alcuni demoni di quel luogo. Specialmente se figurano tra i protagonisti del dibattito. Così è stato qualche giorno fa, nell’itinerario per un bel convegno che si è tenuto a Cagliari: l’occasione perfetta per leggere un breve, ma intenso, racconto di Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo. È un piccolo capolavoro. Si tratta di una storia di caccia, scritta tra il 1936 e il 1938, come Un anno sull’Altipiano, e pubblicata, però, solo nel 1967. Durante una battuta al cinghiale, gli anziani del gruppo, stimolati dai ripetuti, inspiegabili, errori dei tiratori più abili, rievocano attorno al fuoco una misteriosa vicenda sepolta nel passato. E quasi celebrano, in questo modo, un vero e proprio rito apotropaico, di rispettoso ricongiungimento agli spiriti profondi dei loro avi e della natura più segreta e avvolgente. Tutto funziona in questa prova letteraria, che tiene in equilibrio temi e toni alla Rigoni Stern – citato anche da Lussu nel suo commento introduttivo – con un’atmosfera weird degna di Lovecraft. Il confezionamento complessivo dell’edizione ha meriti ancor maggiori, che vanno oltre l’utilissima digressione antropologica offerta dall’Autore nelle pagine che precedono il racconto. Il volume, nella riedizione di Ilisso, raccoglie, infatti, altri cinque testi: sulla cultura paterna e familiare, sulle origini del Partito Sardo d’Azione, sul futuro dell’isola, sul brigantaggio e su di un episodio puntuale di vita politica e parlamentare. Sono pezzi interessanti, ma, nella sua essenziale incisività, quello di apertura – La mia prima formazione democratica – è formidabile. Perché ricorda le lezioni ricevute dal padre, “un provinciale semplice, senza nessuna cultura”. Eppure capace di comunicare coraggio e integrità, spirito critico e realismo, riconoscimento e rispetto, umiltà e dignità. A dimostrazione che il rapporto con le radici, proprio quando sa farsi veicolo di una trasmissione dialettica e metabolizzata, è capace di custodire le virtù che meglio alimentano ogni stabile progresso.

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Si può identificare un autore solo con la sua produzione e con il flusso di significati che ne possono derivare? Oppure conta di più la dimensione soggettiva? Sono questioni classiche, per la cui risposta occorre assumere, preliminarmente, posizioni ben più complesse. Quando, poi, ci si imbatte nel pensiero di Foucault, il problema si rivela ancor più difficile. Perché non c’è dubbio che da quel pensiero, e dai testi che lo hanno veicolato, ha avuto origine una serie tuttora proficua di re-interpretazioni, declinazioni o, addirittura, nuove correnti filosofiche. L’opera foucaultiana, pertanto, si staglia come un dato autonomamente generativo. Eppure non c’è dubbio, allo stesso tempo, che quell’opera, anche nelle sue virtù seminali, è il frutto di un’esperienza formativa  personale e costante; di un itinerario individuale pressoché irripetibile, le cui scelte sono più che mai avvinte alle virtù e ai condizionamenti di un intero sistema socio-culturale e accademico, quello francese, traguardato nei profili dei suoi protagonisti e nell’attrito con i più importanti eventi di un certo periodo storico. Pertanto anche l’individuo Foucault, immerso nel suo tempo, non può essere trascurato. Della fecondità di questi intrecci – tra oggettività di un lascito intellettuale e irriducibilità di un percorso esistenziale – la preziosa biografia di Eribon – comparsa nel 1989, riedita con aggiornamenti nel 2011 e riproposta in Italia, da Feltrinelli, dieci anni dopo la prima edizione del 1991 – rappresenta la migliore e più ricca dimostrazione. Che, peraltro, non rinuncia a sintetizzare in maniera assai efficace i poli sostanziali di una riflessione tanto cangiante quanto coerentemente evoluta.

Sul piano delle opere, il Foucault de Storia della follia nell’età classica (1961) non è lo stesso de Le parole e le cose (1966); né quest’ultimo coincide con l’autore de L’archeologia del sapere(1969) o di Sorvegliare e punire (1975) o de La volontà di sapere (1976). E pure i famigerati corsi al Collége de France (come, ad esempio, Bisogna difendere la società-1975/1976 o Nascita della biopolitica-1978/1979) sono altra cosa ancora. C’è da ammettere che la mutevolezza, o il tormento, non è da meno nelle vicende della carriera universitaria o dell’impegno pubblico: ambiti, entrambi, in cui Foucault sa essere eccentrico, urticante, antipatico, istintivo, politicamente scontroso e schierato, ambiguamente profetico, ma anche accomodante, ligio al dovere d’ufficio, instancabile nell’organizzazione e nell’aggregazione di persone e cose, cosciente del galateo istituzionale, strategico nelle conoscenze e nelle relazioni sociali, intelligentemente conservativo. Possono sembrare lineamenti di un profilo contraddittorio, talvolta opportunistico e talaltra passionale. In realtà sono aspetti che, nel racconto di Eribon, risuonano di libertà e indipendenza; di un’ambizione onnipresente, che non rinuncia mai alla peregrinazione, al viaggio, al confronto (dalle prime esperienze giovanili, svedesi, polacche e tunisine, alle grandi trasferte della maturità, in Brasile, Stati Uniti e Giappone). E che non rinuncia neanche all’azzardo (come nel caso del reportage in Iran e dei presentimenti sul futuro dell’Islam). In effetti Foucault è costantemente alla ricerca del luogo e della condizione congeniali, in cui specchiarsi ed essere riconosciuto. La scrittura fa parte dello stesso viaggio, visto che, come ricorda Eribon, secondo Foucault si scrive per essere amati. E anche la forma e la sequenza con cui un pensatore si esprime, già sul piano editoriale, non possono che riflettere questa istanza di rimodulazione e adeguamento progressivi (ne sono plastica espressione le riprogettazioni continue dei volumi dell’opera sulla Storia della sessualità).

La biografia, peraltro, riesce a isolare intuizioni ricostruttive e profili metodologici distintivi e costanti, e a restituire così il ritratto di uno studioso a suo modo esemplare. A Foucault, come è noto, si devono acquisizioni importanti: sui rapporti, nell’evoluzione del pensiero occidentale, tra normalità e patologia; sulla formazione, tra il Diciassettesimo e il Diciannovesimo secolo in particolare, della c.d. società disciplinare e della sua varia tecnologia di misurazione, valutazione, classificazione, controllo, inclusione/esclusione; sul rapporto tra pratica moderna delle pene e scienze umane; sulla natura e sull’origine del potere (che deriva dai molteplici effetti di divisione che percorrono l’insieme del corpo sociale: in questo senso, “il potere viene dal basso”); sull’indispensabilità, per ogni società, e per ogni sistema di giustizia, di un’interrogazione continua sulle proprie istituzioni; sul fatto che al governo delle persone è funzionale non solo l’obbedienza, ma anche la manifestazione piena, da parte dei governati, di ciò che si è; sulla remotissima nascita, nelle tecniche della cura di sé e nelle morali dell’antichità, dei laboratori in cui si forgiano specifici modi di assoggettamento; etc. Dell’esperienza foucaultiana, comunque, ciò che ancor più colpisce è la commistione strutturale tra riflessione teorica e indagine storica, quest’ultima effettuata sempre sul campo (negli archivi, con i documenti, con le testimonianze materiali di specifiche prassi e organizzazioni…): perché, per fare ricerca, “bisogna andare in fondo alla miniera”. In questo modo, la filosofia non solo si mescola alla storia, ma si imbatte (e si interroga, dialogando) con il diritto, con la psicologia, con la religione, con la letteratura, con l’economia. In un’età di forte enfasi sull’interdisciplinarità nella ricerca scientifica, tornare a Foucault è quanto mai formativo.

Recensioni (di S. Catucci; di M. Cicala; di M. Marchesini; di R. Ronchi)

L’Autore presenta il suo libro

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La Legislatura in corso prevede, tra i suoi appuntamenti più caldi, il dibattito sul cd. “premierato”, un disegno di legge costituzionale presentato al Senato nel novembre dello scorso anno e concernente l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri. Naturalmente la discussione è già montata e si è fatta presto arroventata, sia nel discorso pubblico (sono stati molti, ad esempio, gli editoriali sulle testate giornalistiche nazionali), sia nelle riflessioni strettamente giuridiche (a quest’ultimo riguardo v. i commenti e i contributi prodotti da un gruppo di lavoro formatosi in seno alla Fondazione Astrid; ma cfr. anche le audizioni svolte in Parlamento). Il libro di Michele Ainis, noto costituzionalista, saggista e romanziere, si pone un po’ a metà strada. Con lo stile arguto che lo contraddistingue, l’Autore non cerca solo di fornire ai comuni cittadini gli strumenti conoscitivi per collocare la proposta italiana di riforma nell’ambito delle diverse forme di governo che attribuiscono una diretta legittimazione democratica all’Esecutivo (il “modello statunitense”, la “variante francese”, il “brevetto israeliano”). Né si ferma a soppesare pregi e difetti delle possibili ricette presidenzialiste (rispettivamente, alle pp. 77 e 85). Non gli interessano i “figurini” della modellistica. Più che analizzare in dettaglio la “proposta italiana” (di cui si mettono in luce le imprecisioni, le aporie e le mancanze), gli preme porre in luce alcuni profili, metodologici come di tendenza. 

Dal primo punto di vista, Ainis invita a riflettere su come sia necessario, per poter fare realmente le riforme, riavvicinare i cittadini alla partecipazione politica. In proposito non rinuncia a qualche provocazione, immaginando, ad esempio, che si possa scegliere (eleggere? Sorteggiare?) un gruppo di persone comuni, cui affidare la formulazione di idee specifiche, ovvero che si possa anche costringere il circuito politico-rappresentativo e le sue articolazioni decisionali a raccogliere nel modo più diffuso, anche online, sollecitazioni o spunti utili al cambiamento. Oltre a ciò, Ainis descrive la tensione trasformativa verso modelli presidenziali come qualcosa di tipico nell’evoluzione più recente dei sistemi parlamentari. Così suggerendo, quasi, che sia quanto mai urgente riallineare la forma alla sostanza anche nel contesto nazionale, che pure, tuttavia, egli descrive in termini assai scettici e preoccupati, data l’onnipresenza – ad ogni livello – di una sfibrante cultura del capo. Se i rilievi concernenti la partecipazione paiono un po’ troppo ingenui, quelli sulla dilagante “capocrazia” – e sulla dubbia opportunità di assecondare un certo trend – oltre a palesarsi come parzialmente contraddittori, finiscono per generare una sorta di irrimediabile pessimismo (tradito in modo assai plastico dal sottotitolo del saggio: “Se il presidenzialismo ci manderà all’inferno”). Al punto che, in definitiva, il libro lascia il lettore con l’amaro in bocca e con la sensazione che la (lunga) rassegna degli intoppi e degli errori del passato (e del presente) sia destinata a completarsi e a consolidarsi anche nel prossimo futuro. Ma qualcosa di interessante, nei pensieri ad alta voce dell’Autore, rimane. Vale a dire il duplice insegnamento che le riforme che funzionano sono quelle che davvero si configurano come un meditato atto collettivo, e che quest’ultimo evento va in qualche modo promosso e coltivato con una seria consapevolezza dei fallimenti già sperimentati.

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Money, Mississippi. Un piccolo centro abitato. Uno sputo di case nel Sud che più Sud non si può. Dove, all’improvviso, vengono barbaramente e misteriosamente uccisi, uno dopo l’altro, due uomini bianchi. Accanto ai quali è rinvenuto il cadavere, anch’esso pesto e malridotto, di un piccolo uomo di colore. Sempre lo stesso: perché dopo il primo delitto è scomparso dall’obitorio ed è ricomparso, quasi fosse un fantasma, sulla nuova scena del crimine. Che cosa sta succedendo? Lo sceriffo locale e i suoi due stolidi aiutanti poco ci capiscono. Entra in scena allora una coppia di investigatori della polizia statale, Ed e Jim, due detective di colore spediti fino a lì dagli headquarters di Hattiesburg. Nel frattempo muore allo stesso modo anche il coroner, “reverendo” Fondle, capo (nemmeno troppo occulto) del locale Ku Klux Klan. D’altra parte si scopre subito che i primi delitti sono connessi, perché gli avi dei defunti erano stati autori, nel 1955, di un terribile linciaggio, quello di Emmett Till, un ragazzo accusato – sic – di aver salutato una ragazza bianca. Un fatto storico realmente accaduto. E a morire, nella fiction, è pure Nonna C, la ragazza bianca protagonista di quell’evento. È forse una qualche forma di vendetta? La vicenda, però, si fa ancor più complessa e inesplicabile, perché i morti, con analoghe scene del delitto, si moltiplicano: a Chicago, in California e in altri luoghi del Mississippi e di tutta l’America. Tanto che entra in scena pure l’FBI. Mentre si comincia a comprendere che tutto ciò che sta accadendo riguarda non solo la gente di colore, ma ogni soggetto gravato dal peso di una qualche diversità.

Percival Everett riesce sempre a sorprendere. In parte, per aver deliberatamente e scopertamente scelto la forma del romanzo impegnato. Che va alle radici dei linciaggi che scossero l’America del movimento dei diritti civili, per riaccendere le coscienze in un tempo, quello di oggi, in cui il razzismo pare riemergere, attecchire e rinsaldarsi alle esplicite posizioni di una certa classe politica repubblicana. Siamo oltre Black Lives Matter: è una chiamata espressa ad INSORGERE; e a farlo, con Billie Holiday, sulle note strazianti di Strange fruit (il chiaro riferimento da cui è tratto il titolo del libro: “Southern trees bear strange fruit / Blood on the leaves and blood at the root / Black bodies swinging in the southern breeze / Strange fruit hanging from the poplar trees”). In altra parte, tuttavia, l’effetto stupefacente di quest’ultima prova letteraria è l’opzione stilistica per una sorta di fumettone, sospeso tra il satirico, l’ironico e il grottesco. I personaggi sono così carichi che il lettore non può non pensare a una sceneggiatura alla Tarantino. Al di là di ciò – ma senza rivelare nulla di più di quanto si è già scritto – la sensazione, specie per il pubblico italiano, è di trovarsi di fronte a un’avventura alla Dylan Dog, in uno scenario – letteralmente – da notte dei morti viventi. Come se Everett avesse seguito le ispirazioni dei peggiori incubi di Tiziano Sclavi. Dunque si può fare memoria anche così, combinando impegno civile e proiezione fantastica. Del resto, più si moltiplicano gli zombies dei vendicatori, più si rinominano, e si fissano, nero su bianco, i tantissimi casi delle violenze subite nel tempo dalla gente di colore. Sono quelli che, nel romanzo, raccoglie e custodisce l’enigmatica Mama Z, e che neanche il più giovane e talentuoso studioso (il Damon Thruff cui Mama Z apre le porte del suo archivio) riesce a razionalizzare utilmente. Perché parlano da soli, in effetti. O, quanto meno, dovrebbero parlare da solo, seppure soltanto l’assurdo e l’impensabile – ecco la denuncia paradossale di Everett – possano creare la chance per renderli attivi e terrificanti nelle coscienze di tutti. E per rivelare il carattere lunatico e introverso di una società politica alla deriva.

Due libri di Percival Everett: qui e qui

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La tesi di questo saggio è anticipata sin dal principio: “in una società fondata sul rispetto dell’altro, le persone dovrebbero essere capaci di praticare un qualche grado di ipocrisia, di comprendere che la tensione verso l’autenticità di principi e di fedi non è sempre la migliore amica di chi ha principi e di chi crede”. Si capisce, quindi, che ciò che potrebbe usualmente apparire come un vizio può assumere, nella sfera pubblica, i contorni di una vera e propria virtù, che l’Autrice evoca in termini di civility, di urbanità: una postura funzionale a promuovere consapevolmente processi di riconoscimento reciproco. Certo la parola ipocrisia, nell’uso comune, porta con sé un carico negativo: richiama calcolo personale, studiata dissimulazione, se non menzogna. Tuttavia secondo la concezione delineata in questo libro – che del termine, come del concetto, rievoca puntualmente, nella sua prima parte, le origini antiche e le successive, rilevanti torsioni indotte con il cristianesimo – l’ipocrisia emerge quale linguaggio e competenza di una comunità orientata alla tolleranza e al rispetto dei diritti e delle libertà. Quella di cui Nadia Urbinati scrive, specie nella seconda parte del volume, è una traiettoria interpretativa che nasce, storicamente, con la secolarizzazione e con la separazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e cittadino. Non è un caso, quindi, che l’occasione sia buona per alcune belle pagine sullo sviluppo della diplomazia come sull’invenzione della persona statale, intesi entrambi come dispositivi – sorti nella medesima epoca – atti a simboleggiare i luoghi in cui l’ipocrisia in esame, rispettivamente, deve e non deve esprimersi. Allo stesso modo – sempre nella seconda parte del testo – si spiega in maniera assai efficace che la cornice istituzionale che è più congeniale a questa “virtuosa” ipocrisia è la democrazia rappresentativa. Dove la classe politica è esposta al giudizio degli elettori e del “pubblico”, pur dovendo praticare l’ineludibile arte del compromesso, e cercando, così, e istituzionalizzando, specifiche e ragionevoli zone di penombra. 

Il filo rosso che di questo contributo più convince è la tematizzazione per cui l’ipocrisia è strumentale a un contesto, come l’odierno, in cui quello delle relazioni sociali è un gioco libero e la stessa identità personale, lungi dall’essere un uni-verso, è un nucleo in faticosa e continua riformulazione. E così dev’essere. Perché, senza understatement, nel libero conflitto delle idee, fossero anche le più autentiche, nessuna socializzazione sarebbe realmente possibile. A patto che, poi, l’ipocrisia non occupi tutto lo spazio disponibile e rimanga proporzionata a una dimensione occasionale, governata dai singoli e dalle prassi comportamentali cui danno luogo; senza trasformarsi in conformismo radicale. Di qui la conclusione, per cui questo tipo di skill – per quanto si tratti di anglismo assai abusato, è di ciò che si discute – investe anche l’ambito del politicamente corretto: non nel suo “uso parossistico”, che finisce, al contrario, per diventare polarizzante e disaggregante; bensì nei limiti di ciò che può dirsi il “nuovo galateo”, utile a facilitare e coltivare pratiche di convivenza. Al termine della lettura le impressioni sono due. Da un lato, è facile constatare che Nadia Urbinati è riuscita a confermare che lo studio della storia, della filosofia, della politica (e, sia pur in parte, anche del diritto) non è soltanto affare degli specialisti, ma può sortire insegnamenti che cambiano la vita delle persone e ne orientano l’azione quotidiana. Dall’altro, viene da chiedersi quali siano i veicoli per la diffusione e l’assimilazione di una virtù che è tanto cruciale. C’è da scommettere che in tanti avrebbero già la risposta: se ne deve occupare l’istruzione! Il fatto è che, fortunatamente, questo libro, non solo non se ne occupa, ma, nel mettere in scena tutta la polivalenza del suo soggetto, dimostra ipso facto che, quando si discute di pratiche sociali, i responsabili sono molteplici e, soprattutto, si tratta semplicemente di cominciare, ciascuno per suo conto.

Un caffè con l’Autrice

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Francesco “Cesco” Magetti è un militare della Repubblica di Salò. Fa parte della guardia nazionale repubblicana ferroviaria, di stanza ad Asti. Il suo superiore gli ordina di trovare una carta ferroviaria del Messico. Nel pieno del freddo e malinconico  clima di disfacimento totale del febbraio 1944 la consegna suona in modo surreale. Dove mai si potrà trovare una mappa del genere? E Cesco, poi, ha anche un terribile mal di denti. Ad ogni modo la ricerca comincia, a partire dalla biblioteca comunale. Dove Cesco incontra l’enigmatica Tilde, viene a sapere che esiste una Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México e che questo fantomatico libro è in prestito. Da qui in avanti si avvia l’inseguimento di Cesco, la cui storia si accavalla con quella, al fine, tragica di Tilde; con quella, quasi fantastica, di Lito Zanon e del suo amico Mec, costruttori giramondo di reti ferroviarie; con quella di Ettore e Nicolao, strani frequentatori di un altrettanto misterioso night clandestino; con quella di un cartografo samoano trapiantato in Piemonte; con quella degli amici di Cesco, che si sono fatti disertori e partigiani; con quella della burocratica e surreale catena di comando che dal Führer è arrivata fino ad Asti, per disporre la caccia alla mappa ferroviaria; con quella di Steno, che si era promesso a Tilde e che si dà alla macchia; con quella di Gustavo Baez, l’autore del volume tanto agognato; con quella della povera Giustina, giovanissima prostituta, barbaramente condotta alla morte; con quella di don Tiberio, disperato parroco di Roccabianca… L’elenco, con i relativi intrecci, potrebbe continuare. Vi farebbe capolino anche Jorge Luis Borges. Fatto sta che nel vortice dell’Odissea in cui Cesco si ritrova immerso qualcosa scatta all’improvviso, conducendo il protagonista al drammatico, eppure liberatorio, epilogo.

Molto si è detto, e scritto, su questo romanzo (libro-mondo, romanzo totale…), tanto che, sia con il classico passaparola, sia per le molteplici segnalazioni online, è entrato anche nella dozzina dello Strega. È un dato che può sorprendere, perché si tratta di un libro-fiume: oltre 800 pagine, per di più articolate in capitoli dalla lunghezza irregolare, ciascuno dedicato a uno spezzone delle tante vicende che ne irrorano la trama. Non è un romanzo facile, quindi. E non è nemmeno il prodotto di un grande editore, suscettibile di essere spinto nelle case delle persone per la sola forza del marketing e delle reti distributive. Si aggiunga che nelle analisi dei lettori più forti Griffi viene variamente paragonato a Pynchon o a Bolaño: Autori mitici, capaci di conferire nel raffronto l’aura del capolavoro, ma non certo annoverabili tra quelli di più agevole frequentazione. Occorre pazienza e disciplina, virtù oggi rare. Infine c’è un altro fattore potenzialmente esiziale: il libro, spogliato del suo grande apparato narrativo e dell’effetto matrioska ingenerato dalle tante digressioni, racconta una vicenda oltremodo schematica. Un ragazzo trascinato per forza d’inerzia tra le fila della parte sbagliata si imbarca in un’avventura surreale e, proprio in quella corrente, pur commettendo un delitto (spoiler), fa giustizia, anche di se stesso. Il tutto in un itinerario che potrebbe banalmente dirsi di formazione. Insomma, il plot può non avvincere e a tratti le pagine (molte) possono farsi noiose. Qual è, dunque, il segreto del successo? 

Sicuramente gioca un qualche ruolo l’apparenza di libro un po’ underground, scelto da un nome cool (Giulio Mozzi) per la sua collana di nicchia. Anche la veste editoriale può avere le sue ragioni. Ferrovie del Messico, per indubbie motivazioni economiche, è un oggetto leggero, con un’impaginazione distesa, che dà l’illusione di sciogliere le complessità linguistiche e di percorrere il suo periodare ubriacante con una sorprendente velocità. Sicché navigare in questo romanzo, all’atto pratico, è meno complesso di quello che può apparire. Come se i modi del confezionamento cartaceo invogliassero a relativizzarne l’interna prospettiva, sofisticata e iperletteraria, rendendola, al contempo, godibile e meglio afferrabile. Qui si nasconde, già dal punto di vista meccanico, la chiave di volta del volume, ossia la commistione inestricabile tra tristezza e ironia, tra pesantezza assoluta e volatilità, tra orrori e speranze. C’è del Chaplin e dello Charlot, sotto la copertina. Perché a rigore è vero che il libro di Griffi, per argomenti e personaggi, se fosse paragonabile a qualcosa di precedente, andrebbe addirittura comparato a Horcynus Orca di D’Arrigo: opera potente e immaginifica, anch’essa viaggio iniziatico e durissimo, perché sovrastato dall’onnipotenza naturale di un destino cupo e avvolgente. Eppure, diversamente da quella prova, Ferrovie del Messico – anche in virtù dell’evidente e insistito flirt con le suggestioni della migliore tradizione sudamericana – è evasione e farmaco, prova tangibile che di fantasia e invenzione artistica si può dolorosamente guarire. Dunque affaticarsi in una lettura ipnotizzante può, alla fine, piacere? Diremmo di si, specie se comprendessimo che, in questo nostro tempo gelatinoso e giustificante, in cui tutto – ma proprio tutto – può accadere e diventare pure normale, Cesco Magetti è effettivamente uno di noi.

Recensioni (di P. Bianchi; di G. Cortassa; di S. Ditaranto; di A. Galetta; di F.M. Spinelli; di G. Tinelli; di C. Vescovi; di G. Vignanello)

Tre interviste all’Autore: qui, qui e qui.

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Nel quadro delle letture dell’anno, per quanto compiute finora, questa è stata la migliore. Una scoperta, si potrebbe dire, fatta sulla scorta dell’entusiasmo (ritrovato) per uno sport che sa dare grandissime soddisfazioni. Anche in quest’ultimo senso l’annata è stata più che mai proficua. E promette di continuare ad esserlo. Le NBA Finals hanno consacrato l’inarrestabile forza dei Denver Nuggets, vincitori dell’anello per la prima volta, e il ruolo di assoluto protagonista che da qualche tempo si è ritagliato Nikola Jokić (guardare per credere). I mondiali – che sono in corso tra Indonesia, Filippine e Giappone – forse non fanno presagire cose eccelse per la Nazionale italiana: ma il podcast allestito durante il ritiro da Gigi Datome e Niccolò Melli è assai divertente, ed è sempre bello soffrire partecipando agli alti e bassi del quintetto azzurro. Che per ora, comunque, ha saputo trasmettere emozioni inattese. Il fatto è – tornando al punto – che il libro di David Hollander non è necessariamente un testo per amanti della pallacanestro. È il laboratorio di una scuola di pensiero: un itinerario, scandito in 13 lezioni / principi, per sperimentare quanto la logica del playground possa fungere da stimolo per intuizioni e soluzioni utili ai fini del miglioramento della società. A suo modo, infatti, Come il basket può salvare il mondo è una proposta politica, ovvero, usando le parole assai esplicite dell’Introduzione, “una storia nuova, una nuova cornice in cui inquadrare il senso di quello che facciamo, un nuovo ismo”.

L’Autore gioca con alcune parole-chiave (collaborazione, equilibrio individuale e collettivo, equilibrio di forza e tecnica, non posizionalità, alchimia, inclusività, etc.) per scandire e illustrare una serie di insegnamenti. È il frutto che le origini, le evoluzioni, lo spirito, i protagonisti e alcune grandi culture del basket possono consegnare a chi volesse costruire, oggi, una leadership consapevole ed efficace. C’è un po’ di retorica, naturalmente, come è tipico di chi sia fortemente appassionato; e ci sono anche tutte le radicalità e ingenuità prospettiche – delle vere esagerazioni, talvolta – di una visione americana fino al midollo. Di un approccio che si esalta solo nell’essere larger than life. Ma non si può non restare catturati dal modo con cui Hollander dà corpo ai propri ragionamenti ricorrendo a episodi o vicende da assumere come metafore incisive ed ispiranti. In tanti casi chiama in causa le gesta, le qualità, il carattere e le imprese di eroi, vecchi o nuovi, della NBA (Wilt Chamberlain, Steve Nash, Larry Bird e Magic Johnson, Draymond Green…) o di alcune squadre (i Boston Celtics, i Philadelphia 76ers, I Golden State Warriors, gli Oklahoma City Thunder, i Toronto Raptors…). In altri casi, invece, trasla il succo, o il valore, che si può trarre da ogni singolo exemplum per provare l’universalità del linguaggio che va elaborando. Ad esempio, la parte dedicata all’alchimia umana (che si può riassumere con questa citazione: “Ogni persona e ogni istituzione deve impegnarsi a viso aperto con il mondo che cambia e mescolarsi coraggiosamente con esso, non per diventare migliori ma per diventare diversi”) funziona benissimo come una delle migliori introduzioni all’importanza dell’interdisciplinarità nella ricerca.

C’è un aspetto, però, più di tutti, che lega l’intero discorso di Hollander e che quasi al principio, in un paragrafo, è apertamente esplicitato. È il parallelo tra il passaggio critico dal XIX al XX Secolo e le lunghe e reiterate transizioni di cui è innervata la nostra epoca; tra una fase di intense trasformazioni economiche e di correlati conflitti sociali, con forte divaricazione di classe e di “ruoli”, e una fase in cui la combinazione di crisi ecologica e incombenti orizzonti di ulteriore rivoluzione tecnologica stanno generando dinamiche analoghe. In questo raffronto il basket, per Hollander, non può che rilanciarsi spontaneamente, perché inventato in un momento in cui vi era bisogno proprio di ciò che serve tuttora: un’occasione facilmente approcciabile per rieducarsi e avvicinarsi reciprocamente, e per scoprire uno scopo capace di stimolare empatia, idee nuove ed emancipazione. Non a caso, l’ultimo capitolo è intitolato alla trascendenza: perché “la fatica deve andare di pari passo con l’aspirazione”; e del resto “per segnare devi scendere lungo il campo ma poi devi anche salire!”. Ecco, Hollander, riannodandosi all’esperienza di James Naismith, il geniale creatore di questo sport, ci fa capire non tanto che alla base della rifondazione politica di cui il mondo ha bisogno ci dev’essere una radicale istanza etica, quanto che quest’ultima non può esistere se non per mezzo di infrastrutture concrete in cui metterla alla prova e assimilarla ex novo.

Recensioni (di M. Pettene; di U. Zapelloni)

Intervista all’Autore

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