La Legislatura in corso prevede, tra i suoi appuntamenti più caldi, il dibattito sul cd. “premierato”, un disegno di legge costituzionale presentato al Senato nel novembre dello scorso anno e concernente l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri. Naturalmente la discussione è già montata e si è fatta presto arroventata, sia nel discorso pubblico (sono stati molti, ad esempio, gli editoriali sulle testate giornalistiche nazionali), sia nelle riflessioni strettamente giuridiche (a quest’ultimo riguardo v. i commenti e i contributi prodotti da un gruppo di lavoro formatosi in seno alla Fondazione Astrid; ma cfr. anche le audizioni svolte in Parlamento). Il libro di Michele Ainis, noto costituzionalista, saggista e romanziere, si pone un po’ a metà strada. Con lo stile arguto che lo contraddistingue, l’Autore non cerca solo di fornire ai comuni cittadini gli strumenti conoscitivi per collocare la proposta italiana di riforma nell’ambito delle diverse forme di governo che attribuiscono una diretta legittimazione democratica all’Esecutivo (il “modello statunitense”, la “variante francese”, il “brevetto israeliano”). Né si ferma a soppesare pregi e difetti delle possibili ricette presidenzialiste (rispettivamente, alle pp. 77 e 85). Non gli interessano i “figurini” della modellistica. Più che analizzare in dettaglio la “proposta italiana” (di cui si mettono in luce le imprecisioni, le aporie e le mancanze), gli preme porre in luce alcuni profili, metodologici come di tendenza. 

Dal primo punto di vista, Ainis invita a riflettere su come sia necessario, per poter fare realmente le riforme, riavvicinare i cittadini alla partecipazione politica. In proposito non rinuncia a qualche provocazione, immaginando, ad esempio, che si possa scegliere (eleggere? Sorteggiare?) un gruppo di persone comuni, cui affidare la formulazione di idee specifiche, ovvero che si possa anche costringere il circuito politico-rappresentativo e le sue articolazioni decisionali a raccogliere nel modo più diffuso, anche online, sollecitazioni o spunti utili al cambiamento. Oltre a ciò, Ainis descrive la tensione trasformativa verso modelli presidenziali come qualcosa di tipico nell’evoluzione più recente dei sistemi parlamentari. Così suggerendo, quasi, che sia quanto mai urgente riallineare la forma alla sostanza anche nel contesto nazionale, che pure, tuttavia, egli descrive in termini assai scettici e preoccupati, data l’onnipresenza – ad ogni livello – di una sfibrante cultura del capo. Se i rilievi concernenti la partecipazione paiono un po’ troppo ingenui, quelli sulla dilagante “capocrazia” – e sulla dubbia opportunità di assecondare un certo trend – oltre a palesarsi come parzialmente contraddittori, finiscono per generare una sorta di irrimediabile pessimismo (tradito in modo assai plastico dal sottotitolo del saggio: “Se il presidenzialismo ci manderà all’inferno”). Al punto che, in definitiva, il libro lascia il lettore con l’amaro in bocca e con la sensazione che la (lunga) rassegna degli intoppi e degli errori del passato (e del presente) sia destinata a completarsi e a consolidarsi anche nel prossimo futuro. Ma qualcosa di interessante, nei pensieri ad alta voce dell’Autore, rimane. Vale a dire il duplice insegnamento che le riforme che funzionano sono quelle che davvero si configurano come un meditato atto collettivo, e che quest’ultimo evento va in qualche modo promosso e coltivato con una seria consapevolezza dei fallimenti già sperimentati.

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Il sottotitolo di questo saggio – il cui titolo proviene da un’espressione di Rossana Rossanda, utilizzata in un carteggio con l’Autore – è “Una storia delle Brigate rosse”. Tuttavia, a differenza di quanto la specificazione possa far presagire, Luzzatto non si occupa delle vicende, in generale, della nota formazione terroristica. Si concentra, invece, su nascita, evoluzione e parabola della sola colonna genovese. Allo scopo, però, di tracciare un metodo di indagine utilizzabile anche per altri contesti locali e di trarre – comunque – alcune riflessioni di sostanza, ipoteticamente valide a rivelare qualcosa di nuovo sul complessivo retroterra socio-culturale del fenomeno brigatista. O, più precisamente, sulla valenza non secondaria che specifici fermenti di esperienza, come di pensiero, avrebbero avuto nel lento apprendistato e nel radicamento delle convinzioni più profonde dei brigatisti, regolari e non. Per raggiungere questo obiettivo, l’Autore privilegia sin dall’inizio due scelte. Da un lato, si dedica soprattutto alla figura di Riccardo Dura – l’uccisore di Guido Rossa (cui Luzzatto ha da poco dedicato un altro volume) – qui definito come terrorista perfetto, perché rimasto sconosciuto ai più fino al drammatico scontro a fuoco di via Fracchia, dove ha perso la vita. Dall’altro, Luzzatto parte da lontano, ricostruendo l’interazione, in particolare, tra certe sensibilità della sinistra extraparlamentare e del mondo cattolico post-conciliare e l’esistenza di sacche di marginalità via via emergenti nelle compagini dei lavoratori emigrati dal Mezzogiorno e delle loro famiglie. Dopodiché si susseguono – o si inseguono – tante storie individuali e familiari, collettive e politiche: tutte rigorosamente mappate sulle strade, nei vicoli e sulle piazze del capoluogo ligure. Come in altre precedenti ricerche, lo storico genovese, oggi in forza alla University of Connecticut, si distingue per originalità di approccio, integrazione di fonti (quelle orali svolgono un ruolo significativo), capacità narrativa e attitudine a far discutere.

Non c’è dubbio che, nel suo itinerario, Luzzatto lascia fuori l’operaismo in senso stretto o le teorie sulle interferenze dei servizi di intelligence. E, al contempo, enfatizza il modus operandi e le traiettorie degli intellettuali di provenienza accademica (nel caso genovese, Enrico Fenzi e Gianfranco Faina), ma anche i cambiamenti di contesto e di sensibilità, e di critica alle vecchie istituzioni di discriminazione e segregazione sociale (carceri, manicomi, istituti di rieducazione). Su alcuni recensori la prospettiva seguita da Luzzatto ha sortito impressioni diametralmente opposte, eppure critiche: c’è chi considera la ricerca come la combinazione di lacune inescusabili e fuorvianti, avvinte da un percorso di pura immaginazione; altri, invece, lamentano un processo di sostanziale nobilitazione delle figure dei brigatisti e delle loro ragioni. Al lettore meno esperto questi giudizi non sono del tutto decifrabili. Ma è un po’ forzato attribuire all’Autore intenzioni cui egli manifestamente non è accostabile. È vero, ad esempio, che Luzzatto dà peso ai fermenti socio-culturali che animano gli anni Sessanta e Settanta, ma è altrettanto vero che non ne fornisce un quadro denigratorio, né segue (anzi, lo critica expressis verbis) il famoso teorema Calogero sul ruolo “direttivo” dei cc.dd. “cattivi maestri”. Pur ritenendo, simultaneamente, che alcune intuizioni delle indagini avviate dagli uomini del generale Dalla Chiesa fossero corrette. Ciò che, dopo tutto, è interessante, di Dolore e furore, è il tentativo – come è stato ben detto – di fornire un’antropologia del brigatismo; e di farlo – si può aggiungere – a partire da un’attenta ricognizione di luoghi, documenti e testimonianze, per ricavarne piste e metodi di approfondimento qualitativi capaci di attraversare trasversalmente, e così di testare, le interpretazioni finora più diffuse. È senza dubbio un libro su cui meditare a lungo.

Recensioni (di S. Calamandrei; di P. Persichetti)

Un’intervista all’Autore

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La tesi di questo saggio è anticipata sin dal principio: “in una società fondata sul rispetto dell’altro, le persone dovrebbero essere capaci di praticare un qualche grado di ipocrisia, di comprendere che la tensione verso l’autenticità di principi e di fedi non è sempre la migliore amica di chi ha principi e di chi crede”. Si capisce, quindi, che ciò che potrebbe usualmente apparire come un vizio può assumere, nella sfera pubblica, i contorni di una vera e propria virtù, che l’Autrice evoca in termini di civility, di urbanità: una postura funzionale a promuovere consapevolmente processi di riconoscimento reciproco. Certo la parola ipocrisia, nell’uso comune, porta con sé un carico negativo: richiama calcolo personale, studiata dissimulazione, se non menzogna. Tuttavia secondo la concezione delineata in questo libro – che del termine, come del concetto, rievoca puntualmente, nella sua prima parte, le origini antiche e le successive, rilevanti torsioni indotte con il cristianesimo – l’ipocrisia emerge quale linguaggio e competenza di una comunità orientata alla tolleranza e al rispetto dei diritti e delle libertà. Quella di cui Nadia Urbinati scrive, specie nella seconda parte del volume, è una traiettoria interpretativa che nasce, storicamente, con la secolarizzazione e con la separazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e cittadino. Non è un caso, quindi, che l’occasione sia buona per alcune belle pagine sullo sviluppo della diplomazia come sull’invenzione della persona statale, intesi entrambi come dispositivi – sorti nella medesima epoca – atti a simboleggiare i luoghi in cui l’ipocrisia in esame, rispettivamente, deve e non deve esprimersi. Allo stesso modo – sempre nella seconda parte del testo – si spiega in maniera assai efficace che la cornice istituzionale che è più congeniale a questa “virtuosa” ipocrisia è la democrazia rappresentativa. Dove la classe politica è esposta al giudizio degli elettori e del “pubblico”, pur dovendo praticare l’ineludibile arte del compromesso, e cercando, così, e istituzionalizzando, specifiche e ragionevoli zone di penombra. 

Il filo rosso che di questo contributo più convince è la tematizzazione per cui l’ipocrisia è strumentale a un contesto, come l’odierno, in cui quello delle relazioni sociali è un gioco libero e la stessa identità personale, lungi dall’essere un uni-verso, è un nucleo in faticosa e continua riformulazione. E così dev’essere. Perché, senza understatement, nel libero conflitto delle idee, fossero anche le più autentiche, nessuna socializzazione sarebbe realmente possibile. A patto che, poi, l’ipocrisia non occupi tutto lo spazio disponibile e rimanga proporzionata a una dimensione occasionale, governata dai singoli e dalle prassi comportamentali cui danno luogo; senza trasformarsi in conformismo radicale. Di qui la conclusione, per cui questo tipo di skill – per quanto si tratti di anglismo assai abusato, è di ciò che si discute – investe anche l’ambito del politicamente corretto: non nel suo “uso parossistico”, che finisce, al contrario, per diventare polarizzante e disaggregante; bensì nei limiti di ciò che può dirsi il “nuovo galateo”, utile a facilitare e coltivare pratiche di convivenza. Al termine della lettura le impressioni sono due. Da un lato, è facile constatare che Nadia Urbinati è riuscita a confermare che lo studio della storia, della filosofia, della politica (e, sia pur in parte, anche del diritto) non è soltanto affare degli specialisti, ma può sortire insegnamenti che cambiano la vita delle persone e ne orientano l’azione quotidiana. Dall’altro, viene da chiedersi quali siano i veicoli per la diffusione e l’assimilazione di una virtù che è tanto cruciale. C’è da scommettere che in tanti avrebbero già la risposta: se ne deve occupare l’istruzione! Il fatto è che, fortunatamente, questo libro, non solo non se ne occupa, ma, nel mettere in scena tutta la polivalenza del suo soggetto, dimostra ipso facto che, quando si discute di pratiche sociali, i responsabili sono molteplici e, soprattutto, si tratta semplicemente di cominciare, ciascuno per suo conto.

Un caffè con l’Autrice

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In questo piccolo libro si tracciano alcune coordinate per interpretare e gestire un ampio fenomeno, del quale l’Autrice cerca di offrire, innanzitutto, una mappatura sintomatica. Il fenomeno è quello della contestazione, distruzione o rimozione di monumenti. È ciò che accade quando non vengono più percepiti come simboli positivi e condivisi, ma, all’opposto, assumono la sostanza di disvalori da rigettare. Pensiamo alle statue dei dittatori o di chi ha combattuto dalla parte “sbagliata”, di chi si è arricchito con la tratta degli schiavi o di chi si è reso colpevole della dominazione e dell’estinzione di popoli interi; oppure, ancora, alle rappresentazioni magniloquenti di regimi oppressivi o alle architetture espressive di ideali altrettanto distruttivi. A volte si tratta di manufatti qualificabili (anche) come opere d’arte, a volte no. Comunque sia, sorge sempre un interrogativo: è giusto fare tabula rasa? Non occorre soltanto misurarsi con le declinazioni spaziali della cancel culture. Occorre ragionare, prima di tutto, su che cosa sia un monumento e sulle logiche che possono animarne conformazione, dimensione e collocazione. Lisa Parola prova a seguire sin dall’inizio questa traccia, guardando a basamenti e piedistalli come ai media perfetti delle politiche usualmente verticali, impositive e unilaterali – spesso di matrice etnica e “maschile” – che hanno promosso, innalzandolo, un certo simulacro a proprio simbolo. Poi il volume fornisce una sorta di galleria, un racconto dei tanti episodi (noti e meno noti) di crollo o trasformazione di alcuni monumenti. Quindi passa a un resoconto di come in diversi casi il monumento possa essere oggetto di riscoperta o riqualificazione per mezzo di operazioni artistiche di originale contestualizzazione. La convinzione che pagina dopo pagina si forma inevitabilmente il lettore è che la tesi sia questa: la via d’uscita non è l’eliminazione o l’abbattimento, bensì lo spostamento o lo slittamento di senso, attività che consentono di superare la prevaricazione dell’affermazione originaria, come la sua sopravvenuta caducità, con un gesto di stratificazione documentale. Con un gesto, cioè, che, non indulgendo nel puro e semplice, e di per sé logico, actus contrarius, non ripete a ritroso il metodo della monumentalizzazione e può, invece, fornire motivi per un momento di partecipazione, di dibattito e di apprendimento collettivi. È un approccio valido per ogni ipotesi di patrimonio dissonante. Un esempio interessante che mi viene subito alla mente – e che, non a caso, è richiamato anche dall’Autrice – è l’installazione realizzata a Bolzano sul fregio ornamentale di un grande palazzo concepito e costruito durante il fascismo. Essa consiste nella sovrapposizione al relativo bassorilievo – assai paradigmatico della retorica del Ventennio – di una scritta che la sera si illumina, recita “nessuno ha il diritto di obbedire” ed è proiettata in tre lingue (oltre all’italiano, il tedesco e il ladino). Un volta rivisto, il monumento, all’evidenza, diventa altro, pur non scomparendo e, anzi, riemergendo, in parte quale veicolo di un messaggio istituzionale nuovo, in parte quale testimonianza storico-culturale di un passato da conoscere, assimilare e superare. E il superamento non è damnatio memoriae, è processo di digestione culturale. In questa prospettiva, è vero che il testo di Lisa Parola – che forse a tratti è eccessivamente descrittivo – non aggiunge molto alla lezione già desumibile da alcune (poche ma lucidissime) pagine di Jacques Le Goff o dal famoso saggio di Alois Riegl sul culto moderno dei monumenti. Ha il merito, tuttavia, di lanciare un sasso per l’avvio, anche in Italia, di un dibattito più cosciente e, soprattutto, più sistematico, nel quale, come accade da tempo negli Stati Uniti, pure la competenza dei giuristi può scoprirsi più pertinente di quanto si possa immaginare.

Due interviste all’Autrice (qui e qui)

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Nel 2003 Alessandro Fontana – noto e apprezzato studioso, e sodale, di Michel Foucault, della cui opera è stato curatore ufficiale – tiene un ciclo di sei lezioni nel corso di Storia del diritto medievale e moderno presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania. La sbobinatura di quegli incontri, corredata di un utile apparato di note e di una preziosa introduzione, viene ora pubblicata in questo libro, per la cura di Ernesto De Cristofaro. È un volume che si legge d’un fiato, complice il mantenimento dell’itinerario felicemente erratico e del tono colloquiale dell’Autore. Il titolo centra il cuore dei ragionamenti che le lezioni sviluppano. Nel soffermarsi specialmente sul pensiero di Machiavelli e sul contesto in cui è sbocciato, Fontana argomenta attorno all’importanza della nascita della scienza della politica come disciplina della contingenza e dello stato di guerra. Così facendo, spiega il significato istituzionale, e l’onda lunga in Occidente, del passaggio dal paradigma medievale della salvezza dell’anima a un’epoca, quella moderna, il cui baricentro è la “potenza”, la sicurezza dello Stato, all’esterno come all’interno. Nello stesso tempo, Fontana – in un calembour di annotazioni e divagazioni sempre intelligenti e stimolanti – si sofferma su tanti altri aspetti. Accenna alla contemporaneità, come fase nella quale alla sicurezza si sostituisce la sopravvivenza della specie; analizza le grandi alternative alla via machiavelliana (che a suo giudizio si potevano intravedere nelle opere di Leon Battista Alberti e nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione); richiama la (ulteriormente) differente esperienza degli antichi, il cui sforzo filosofico è concentrato nell’elaborazione di una tecnica dell’esistenza; salta agli sviluppi novecenteschi della sicurezza e della complessa microfisica del potere che ne costituisce la declinazione pervasiva (con cenni all’importanza, terribile, che sul punto ha avuto la “scuola” di Cesare Lombroso e di Enrico Ferri). Più di tutto, Fontana – che post mortem sta conoscendo una stagione di vero e proprio rilancio: l’anno scorso Ronzani ne ha meritoriamente riproposto Il vizio occulto – cerca di dare un’esemplificazione pratica di che cosa possa essere il metodo foucaultiano. Nella prima lezione ne presenta la fisionomia e il lascito (non senza qualche spunto polemico su chi se ne vorrebbe fare variamente erede: il rilievo su Toni Negri è più che risoluto). Di lì in poi ne offre un suggestivo saggio concreto nella conversazione ricca e intensa in cui si articolano tutte le altre lezioni. Lo scopo – come osserva De Cristofaro – è testimoniare che “il sapere non ha una funzione ornamentale o consolatoria ma serve, essenzialmente, a prendere posizione”.

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Su DF, piccolo comune rivierasco che possiamo pensare collocato nel sud del nostro paese, si abbatte improvvisamente un fenomeno straordinario: dapprima in singole, poche unità, poi a vere e proprie ondate, migliaia di cadaveri, tutti uguali, invadono e sommergono ripetutamente il litorale e la città intera. Il romanzo racconta, con le voci dirette degli abitanti, che cosa accade a DF, e in particolare come reagisce la comunità, dal più umile pescatore al sindaco. Da questo punto di vista, la distopia messa in scena da Giulio Cavalli è tanto orribile quanto fin troppo prevedibile. Al cospetto dell’oscura minaccia, che rimane sempre costante, si attiva il più scontato ed esiziale bisogno di rimozione, con tutto ciò che ne consegue: il ripiegarsi di ciascuno, e del paese intero, su se stesso; la coltivazione di un impossibile sogno sovrano; la costruzione di una barriera sul mare; lo stoccaggio dei corpi in appositi magazzini e la loro successiva lavorazione a fini industriali; la censura di qualsiasi ricostruzione critica; l’eliminazione delle figure più scomode… Anche il finale, ai limiti dell’horror, non è nulla di nuovo: basta rivedere Alien3 (uno dei meno riusciti di quella serie, tra l’altro…) per afferrarne il senso profondo. Il valore aggiunto di questo romanzo, dunque, non è nel suo lato distopico; né, pertanto, nella feroce rappresentazione, a quel lato chiaramente sottesa, di quali siano le mostruosità che si possono intravedere nel modo con cui ci si rapporta alle grandi questioni delle migrazioni e del loro impatto. Carnaio è un libro da leggere soprattutto per tre ragioni: 1) perché è una sorta di originale e fedelissima Antologia di Spoon River del più tipico provincialismo italiano, con una carrellata di personaggi memorabili, campioni assoluti di una umanità che sa essere grande solo nella mediocrità e nella solitudine della sua ambizione; 2) perché grazie a questo bestiario Cavalli suggerisce efficacemente che alcune classiche dinamiche di abbrutimento sociale e di ulteriore e drammatico arretramento istituzionale non poggiano su mali facilmente identificabili, ma dimorano in paure ed egoismi elementari, tanto banali quanto sottovalutati o mal sorvegliati o, peggio ancora, assecondati con convinzione perché ritenuti naturali, se non sacrosanti; 3) perché, infine, lo stile segue rigorosamente e coerentemente il contenuto, per il tramite di una scrittura a briglia sciolta, che sembra sgorgare liberamente dalla mente e dal cuore dei vari protagonisti, con un risultato di disperante verosimiglianza. È il sempiterno, insuperabile e mortificante paesone nazionale a portare nel suo ventre inclinazioni terribili: a questo vuole arrivare Cavalli, e ci arriva fino in fondo.

L’Autore a Fahrenheit

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I primi due monologhi di questo piccolo libro (Ratatuja e L’antilingua) rappresentano in maniera molto efficace il conflitto tra la giocosa vitalità e nutriente corposità del veneto tradizionale, nelle sue parlate più diverse, e la soverchiante valanga del nostro barbaro dizionario quotidiano, tra acronimi, anglicismi vari e ritornelli da talk show. Il titolo del volume, così, si fa subito chiaro: è quasi un urlo, un grido di guerra, o anche un mantra, da opporre alle tante aggressioni, non solo linguistiche, che dobbiamo subire. E sia dunque, ra-ta-tu-ja! Ma la marea cui siamo esposti sembra davvero soverchiante. Maino allora le oppone la potente satira dei due pezzi successivi (Zaiazione finale e Crostolo). Uno è un viaggio surreale nell’omologazione imperante della gente veneta, ritratta in un’esilarante galleria di tipi umani, tutti diretti verso l’inarrestabile deriva finale: trasformarsi definitivamente nel nome e nel corpo di Luca Zaia, Governatore tanto Serenissimo quanto prototipo di un Veneto assai artificioso. Il testo successivo è la storia del naufragio giudiziario e della seguente trasfigurazione domiciliare di Giancarlo Galan, alias “Crostolo” (dal veneziano “galano”), maschera par excellence della società politica locale e nazionale. L’epilogo è così sconsolato che, anziché correre il rischio di affogare tra le maschere, anche Zacaria, marocchino d’origine e neocittadino italiano, vuole fuggire dal nostro paese. Il volume si chiude con Resnullius, intensa e tragica parodia dell’unica e dolorosa definizione possibile per una categoria, quella degli stranieri, in cui il Veneto, l’Italia e pure l’Europa non riescono malauguratamente a ritrovarsi, pur avendone un’occasione storica quasi salutare.

Nel Sillabario veneto di Paolo Malaguti si ricorda che ratatuja è parola che deriva “dal francese ratatouille, ossia pasticcio, piatto combinato con una miscellanea di ingredienti, per lo più vegetali”. La ratatuja che conosco io è proprio questa: un piatto di recupero che mio padre ha sempre fatto, il suo salva-pranzi più immaginifico e gustoso, per quanto apparentemente il più improbabile. È un buon esempio di quelle che si dicono radici: difenderle vuol dire anche lottare per le parole che le esprimono. E non c’è campo migliore per il tenace – e pugnace – autore di Cartongesso, che, come suggerisce il sottotitolo di questo nuovo libro, mette le “parole alla prova”, impegnandole, e impegnandosi, in autentici saggi di resistenza culturale. Da questo punto di vista, Ra-ta-tu-ja ci sembra la fabrica di un Autore che ha una fiducia estrema nella capacità catartica della parola e dei suoni in cui se ne articola la pronuncia: non a caso si tratta di testi che Maino sta facendo circolare anche in un Ratatour, uno spettacolo in cui la sua voce è alternata dai brani musicali degli Schrödinger’s Cat; ormai la salvezza di un paese del tutto anestetizzato può passare solo per un gesto ipnotico. Dei cinque monologhi, Zaiazione finale mi sembra il migliore: alla suggestione ritmica si aggiunge quella visuale, poiché per un attimo si riesce quasi ad intravedere l’immagine di un Leviatano farsesco (chi non ricorda la copertina del famoso testo di Hobbes?), composto dai corpi e dalle fisionomie delle figure che vi si sono integralmente immedesimate. Una nota conclusiva la merita la veste editoriale, raffinatissima nella carta come nel carattere e nelle illustrazioni d’arte di Franco Zabagli. D’altra parte, un’idea tanto nobile deve avere un corpus mechanicum all’altezza.

Una recensione (di Stefano Allievi)

Il sito dell’Autore

Il sito dell’Editore

Direttamente dal Ratatour: Resnullius recitato da Francesco Maino

Il Nuovo Sillabario Veneto di Paolo Malaguti

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Chi è Matteo Renzi? Ci hanno provato in tanti, finora, a capirlo, ad analizzarne il DNA sociale, politico e culturale, a ricostruirne la fisionomia e la genealogia. Di certo Renzi è uno che si trova perfettamente a suo agio in quello che volgarmente si chiama agone mediatico, sia perché non ci sono rivali (e neppure intervistatori…) degni di questo nome, sia perché ha l’abilità del boxeur: “è reattivo, facondo, sciolto, mai a corto d’idee”; e poi schiva le domande più rognose e attacca, col destro e col sinistro. Questa, per Claudio Giunta, è la chiave giusta. Per comprendere Renzi occorre analizzarne la strategia comunicativa. Perché il Matteo Nazionale “parla male, ma bene”. In che senso? In primo luogo, riesce a capitalizzare a suo favore tutti i più vecchi e infondati stereotipi, ma sempre ammiccanti e auto-assolutori, sul “Primato degli Italiani”; in secondo luogo, la sua innata “indole pop” e il suo entusiasmo neo-futurista si esprimono in una “affettuosa relazione con (…) tutte le cose che si trovano sotto il cielo”, suscitando empatia e compartecipazione. Del resto, Renzi “non vuole cambiare l’esistenza” degli italiani, anche perché “quasi tutti hanno troppo da perdere per volere davvero una rivoluzione”. Vuole solo spronarli a seguire collettivamente alcuni binari. Il suo ottimismo, spinto e concitato, da overachiever, si esprime con un linguaggio contaminato da più stili, che non distingue mai, ma unifica “e unificando, inevitabilmente, semplifica”; anche perché gli “è estranea, cattolicamente estranea, l’idea di conflitto”. Eppure non si può dire che sia populista: Renzi non è quello che “ascolta le parole che salgono dalla pancia dell’elettorato e le ripete”; Renzi “descrive l’elettorato attribuendogli virtù che quello in realtà non possiede; lo lusinga”. Da dove deriva, in definitiva, la sua energia? Dall’essere, forse, un seguace naturale di Napoleon Hill, intriso, per di più, dall’inesauribile afflato motivazionale dello scoutismo; o, ancor più semplicemente, un “quarantenne che conserva la mentalità, la frenesia, il linguaggio, la determinazione di quando aveva venticinque anni”, e che pertanto può essere, a seconda di ciò che la fortuna vorrà riservargli, “uno di quelli che si schiantano facendo bungee jumping” o “un condottiero”.

Quanto a contenuti, il pamphlet è molto divertente e raffinato. Quanto ad approcci, perfeziona il metodo analitico già anticipato in Una sterminata domenica e ne costituisce, se si vuole, una pillola aggiornata. Non è altro che un nuovo appuntamento con la filologia sociale 2.0 che quella prima raccolta ha inaugurato con ottimi riscontri. Essere #matteorenzi è anche ricco di spunti semi-seri particolarmente azzeccati: come quello sul confronto Renzi-Berlusconi (nel secondo, per Giunta, “c’è sempre stato qualcosa di teneramente passé“); o come quello sul rapporto tra Renzi, la cultura e gli intellettuali (“infatti venera, sentimentalmente, la Cultura, ma disprezza gli intellettuali, un po’ perché non capisce e non ama le sottigliezze, un po’ (ma soprattutto) perché detesta i mediatori”). Il pregio del libro, comunque, si apprezza specialmente nell’onestà della valutazione complessiva che il suo Autore dedica simultaneamente al proprio (s)oggetto di studio e a se stesso. Quando talvolta assume posizioni critiche ineccepibili e molto severe – come se dovesse interpretare il ruolo di un novello Adorno, scandalizzato dalla pochezza della cultura nazional-capitalistica che lo circonda -, Giunta si traveste da “amico snob”, facendoci comprendere che il giudizio negativo su Renzi è tanto fondato quanto troppo sofisticato e lontano dalla materia viva della gente. Perché è vero che, dietro questo fenomenale impasto di individualismo e buonismo, proprio la classe dei coetanei quarantenni “vede saltar fuori tutta un’atroce Italia in cartongesso”, la solita e tragica immagine della “Repubblica democratica fondata sulla Fuffa”; tuttavia, è altrettanto vero che – “come non ha mai veramente capito quel deficiente dell’amico snob” – le cose “cambiano più a forza di entusiasmo che a forza di minuti ragionamenti”. Ed è questo che dà ragione di un appeal così rischioso e così seducente.

Recensioni (di Carlo Pizzati, Annalisa Andreoni, Claudio Cerasa, Nello Barile)

Le prime pagine del saggio

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