Il 29 gennaio 1996 il Teatro La Fenice di Venezia è stato devastato da un rogo di matrice dolosa: un incendio appiccato da due giovani cugini, Enrico Carella e Massimiliano Marchetti, rispettivamente il titolare e un dipendente di una delle ditte che avevano in subappalto parte dei lavori di manutenzione del prezioso complesso. La ditta era in ritardo nell’ultimazione di ciò che avrebbe dovuto realizzare e pertanto si sarebbe trovata costretta a pagare una penale molto onerosa; troppo, per un imprenditore del tutto inesperto, viziato e inguaribilmente e costantemente pieno di debiti. E così il fuoco è sembrato l’unica soluzione, la fonte di una liberazione, come lo è anche per il protagonista del Padiglione d’oro di Mishima. Il parallelo rivela che con questo libro Giorgio Falco non si limita a raccontare la storia di un delitto. Ne studia e analizza – con intento autoptico – gli antefatti, le motivazioni, la progettazione e il contesto. Ma fa anche di più. Scava nella profondità del tipo antropologico e del modello socio-economico che hanno prodotto il drammatico evento. Una volta ricostruita, la genealogia della distruzione di un patrimonio tanto grande non è altro che il simbolo perfetto di una crisi e di una mutazione terribile, conclamata e apparentemente inarrestabile. Questo è anche il senso del titolo, perché tecnicamente, nel linguaggio dei pompieri, il flashover non è altro che la fase dell’incendio generalizzato, che segue all’ignizione e alla propagazione; è lo stadio in cui “tutti gli elementi bruciano all’unisono, il fuoco raggiunge la totalità delle superficie disponibili, ogni cosa non si rivela per come appariva pochi minuti prima, ma in quanto fuoco”. Quale sia la benzina di questa irresistibile transizione infuocata non è un mistero. La si afferma e metabolizza ripetutamente nelle riflessioni o divagazioni, molteplici, che fanno da intermezzo alla ricostruzione dei fatti, e nell’affondo conclusivo, dove si rivela anche il motivo del corredo fotografico di Sabrina Ragucci, che punteggia il volume sin dalle sue prime pagine. È la forza del capitale, della sua intrinseca vocazione profondamente sociale e culturale, della sua capacità di alimentare i desideri e di appagare le voglie di una borghesia che non è più confinabile in una classe definita, ma diventa paradigma condiviso di ricerca e consumazione assuefatte di un benessere illusorio e patogeno. È una corrente capace di plasmare le anime, di fornire loro qualsiasi alibi e ogni possibile strumento di autoconsunzione, di omologare e mascherare ogni individuo, e di nutrirsi delle sue macerie e di quelle che essa stessa produce. Il messaggio di Falco – pur scritto benissimo – non è certo nuovo e rischia di riuscire retorico, se non banale, e di suonare venato da un po’ di ressentiment. Certo, ha il coraggio di guardare dritto nel fuoco e nelle sue ceneri. Prova a dimostrare – come in un caso di scuola – che col capitale, definitivamente incarnato, o meglio combusto, non ci sono alternative facili; e mette in scena i movimenti di un’infezione psicologica collettiva, che ha molto a che fare con l’autobiografia del Paese, anche se risponde a logiche globali. Se c’è un punto, però, in cui quest’analisi risulta in difetto è nel fatto che in essa manca la sottolineatura specifica della grande e diffusa ignoranza che alimenta il fuoco. Non c’è dubbio, comunque, che Flashover, assieme ai romanzi di Bugaro e Maino, aggiunge un altro tassello alla composizione del quadro veneto contemporaneo, che nel passaggio tra i due secoli, purtroppo, assume veramente, e drammaticamente, il ruolo di guardia avanzata della nazione.

Recensioni (di S. Colangelo; di A. Cortellessa; di G. Galofaro; di N. Porcelluzzi; di G. Raccis; di D. Ronzoni)

L’Autore a Fahrenheit

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Il mistero di Tommaso Landolfi (da iltascabile.com)

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Kevin Joyce e Alexander Belov sono stati due protagonisti della finale olimpica di basket di Monaco 1972, nella quale l’Unione Sovietica ha sconfitto gli Stati Uniti per un solo punto. La partita si è decisa negli ultimi secondi, come spesso accade nella pallacanestro. Ma in quel caso proprio gli ultimi secondi si sono giocati per ben tre volte, con un clamoroso ribaltamento del risultato e con tutte le code polemiche che la sfida tra le superpotenze poteva stimolare. Nel 2006, mentre a Londra sta per cominciare l’Olimpiade, Kevin Joyce si trova a Losanna e sta osservando un quadro di Hopper. Il romanzo di Poddi parte da qui: dai pensieri-ricordi del cestista sconfitto e dal fortuito caso che lo fa incontrare con una giovane guida del museo; ma anche dalle associazioni spazio-temporali che la rievocazione della mitica partita provoca nello stesso Autore, perché quell’epico confronto ha significato molto anche per i suoi genitori. Prende avvio, così, una serie di narrazioni sovrapposte e alternate, che coinvolgono anche le vicende di Alexander Belov, prima, durante e dopo la grande vittoria, e che cercano di seguire il percorso delle due squadre verso l’epico scontro. Non manca, naturalmente, la tinta di contesto – Monaco 1972 è anche lo scenario del famoso raid terroristico antiistraeliano, terminato in massacro – anche se il motivo del racconto ruota tutto attorno all’ambiguità della vittoria: che può apparire tanto grande e importante, quanto scoprirsi amara e debilitante; del resto, si può essere irrimediabilmente perdenti, eppure risultare in più modi degli autentici vincitori.

Il romanzo ha tanti pregi. È una vera storia di sport, a tratti quasi emozionante. Dà realmente l’impressione che tra lo sport e la vita di chi lo pratica e lo ama ci siano delle segrete e potenti combinazioni. È anche una storia ben scritta, specie negli snodi apparentemente più improbabili: ad esempio, anche l’improvvisa liaison tra Joyce e la ragazza che lo stimola a portare fino in fondo i suoi propositi è definita in modo tanto leggero quanto efficace. Sembra che tutto si tenga in questo libro, che forse, sul piano compositivo, palesa soltanto un paio di punti deboli: lo squilibrio complessivo tra la parte occupata da Joyce e quella dedicata a Belov; l’alternarsi troppo frequente tra i fili, diversamente intrecciati, delle vicende narrate. Al termine della lettura, però, si fa strada un’altra sensazione: che il prodotto, di cui pur si avverte il carattere di genuina espressione del suo Autore, sia ottimamente confezionato, pronto per incontrare la soddisfazione del pubblico. È questa sua natura, di esercizio riuscito, a colpire più di ogni altro aspetto. Tanto che, in definitiva, ciò che tra le pagine palpitava si trasforma rapidamente, a libro riposto, in qualcosa di più asettico. Non è certo una percezione spiacevole. Ma c’è da chiedersi che cosa sia Le vittorie imperfette: se sia effettivamente un romanzo a tutto tondo, capace di ricordo, di emozione duratura, o una prova d’artista, un tassello più che promettente per un’opera che ancora attende di manifestarsi.

Recensioni (di M. Fontanone; di M. Gaetani; di M. Nesto)

Un estratto

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La storia di Vargas (da succedeoggi.it)

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Con l’8 settembre ‘43, in Italia, tutto finisce e, al contempo, tutto comincia. Il fascismo è caduto a luglio e la nuova fase è l’anticamera per un vuoto vero e proprio. La fuga del Re, la “svestizione” di larga parte dell’esercito e l’occupazione del suolo nazionale da parte delle grandi potenze in conflitto abbattono il vecchio Leviatano e lasciano spazio a una situazione di diffusa anomia. In questo contesto, per chi si fa partigiano, prendere le armi e far parte di una banda significa assumere il rischio della morte per affermare uno spazio di autonomia, partecipazione e libertà, in nome di una sovranità da ricostruire dal basso, su basi completamente diverse. Dietro questa ricerca di sovranità si prefigura il modello di un nuovo cittadino. Per una buona parte della guerra di Liberazione, infatti, la “Costituzione dei fucili” non si riduce ad una serie di piccoli eserciti di partito, ma dà vita a un originalissimo dinamismo istituzionale; un’esperienza che cerca di distinguersi e di legittimarsi anche mediante un’ossessiva e rigorosa ricerca della giustizia. Da questo punto vista, si tratta di un elemento da inserire senz’altro nella catena di fattori costituenti che porteranno alla fondazione dell’ordinamento repubblicano. Eppure, secondo l’Autore, si tratta anche di un’energia che tende gradualmente a spegnersi: in parte per la tendenza dei partiti antifascisti a coordinarne e assorbirne la forza; in parte per la parallela resurrezione della vecchia struttura dello Stato; in altra parte per la tensione normalizzatrice che anche nell’Assemblea Costituente privilegia il ruolo principale delle formazioni politiche. Oltre a ciò, a non cogliere la valenza ispiratrice della lotta partigiana sono anche i giuristi. Salva qualche rara eccezione (non solo Piero Calamandrei, ma anche il “primo” Vezio Crisafulli e il Giovanni Miele di Umanesimo giuridico), o tendono a interpretare quella lotta come espressione di un momento di “caduta” o si propongono espressamente di ricostituire una continuità “di apparato” e agevolare una ricostruzione ufficiale.

Storia partigiana della Costituzione è il sottotitolo di questo saggio intenso e originale. La specificazione, però, consente di anticipare soltanto in parte l’importanza dei contenuti del libro e del metodo di ricerca e di riflessione da cui è stato ispirato. Non si tratta di una storia della Resistenza, né del tentativo di riannodare i fili della guerra di Liberazione con le riflessioni e i “risultati” della Costituente. Anzi, per Filippetta quei fili risultano per larghi tratti interrati o addirittura interrotti. Il valore aggiunto del testo risiede, in primo luogo, nell’utilizzo della teoria dell’ordinamento giuridico per spiegare la rilevanza istituzionale delle scelte partigiane, individuali come collettive; in secondo luogo, nel recupero della memorialistica e delle fonti letterarie, unitamente ad una puntuale documentazione d’archivio; in terzo luogo, nella dimostrazione concreta che il dialogo interdisciplinare tra ricerca storica e scienza giuridica è particolarmente fruttuoso. In relazione a quest’ultimo profilo, il libro può considerarsi come una mappa capace di riunire in un legame sinergico i vari approfondimenti che negli ultimi anni sono stati compiuti sul rapporto tra Resistenza e diritto pubblico: di fatto, fa emergere gli snodi salienti di una tipica transizione, di una situazione che corrisponde anche ad una categoria di raccordo, conosciuta dalla storiografia, dalle scienze sociali e dagli studi giuridici. Da questa visuale l’Autore riesce sia a delineare la fenomenologia plurale – e pluri-potente, oltre che extravagante – del (di ogni) potere costituente, sia a spiegare il carattere ambiguo e mutante della (di ogni) dottrina giuridica della crisi, oscillante per definizione tra prospettive apocalittiche e sperimentazioni autoriflessive e pionieristiche. C’è poi un altro dettaglio: l’allusione conclusiva ad una forma di postura giuridica ideale della Resistenza, ad una “Resistenza giuridica perfetta”, che quasi traduce nella rievocazione dell’esperienza giuridica della transizione la lettura “normativa” avanzata da una efficace e conosciuta interpretazione storica. Così facendo, Filippetta prova che c’è sempre una scelta, anche per il giurista.

Recensioni (di A. De Benedictis; di S. Calamandrei)

Resistenza e Costituzione per Giovanni Filippetta

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Da creatore di miti a mito egli stesso: Roald Dahl (da quadernidaltritempi.eu)

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Sherlock Holmes: ombre cattoliche fuor di metafisica (da avvenire.it)

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Sereno è / dare un calcio ai grattacapi e poi (Giampiero Anelli)

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