The way that you wander is the way that you choose (Tim McIntire)

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In questo libro la sua figura non compare, ma il ricordo di Padre Benedetto Mathieu è la ragione concreta della curiosità che ha determinato l’acquisto del volume e ne ha accompagnato tutta la lettura. È un ricordo lontano, in verità, frammisto a immagini di altre estati, passate tra Marina di Massa, Viareggio, Pietrasanta e Sillico di Pieve Fosciana. Proprio in quest’ultimo e minuscolo borgo della Garfagnana l’ho incontrato per la prima volta: l’eremita francese – da cui è stato ispirato anche Romano Battaglia, recentemente scomparso – vi ha fondato un Centro Internazionale di Cultura e Spiritualità. Soltanto a coglierne lo sguardo, si perde subito qualsiasi stereotipo sugli eremiti o, in generale, sugli uomini di fede, che effettivamente, quando sono veramente tali, riescono sempre a spiazzarti.

Di esperienze di “spiazzamento” ci racconta anche Espedita Fisher, reduce dai successi del super-recensito Clausura (2007). Le parti più belle di Eremiti, infatti, non sono tanto le dirette e tante voci degli incredibili personaggi che popolano le pagine – nelle quali ogni incontro tende a chiudersi in una sorta di intensa e variabile autobiografia spirituale – quanto le impressioni di sorpresa e inadeguatezza costanti che l’Autrice vive di fronte ai suoi diversi interlocutori e che, nonostante ciò, paiono rafforzarla in un autonomo percorso di ricerca. Non è un caso che l’ordine degli incontri ci venga presentato come la successione “provvidenziale” di occasioni “fatali”, che dovevano verificarsi affinché la scrittrice stessa potesse compiere il suo itinerario. Il fatto, poi, che questo risulti spesso casuale o anche goffo è il frutto di un espediente narrativo certamente voluto e riuscito: non possiamo, cioè, non identificarci, e non possiamo, quindi, non finire per incappare negli stessi quesiti che si pone Espedita; in buona sostanza, non possiamo, al termine della lettura, non fare i conti, sia pur in parte, con gli interrogativi profondi che l’eremitismo impone.

“Nel merito”, l’inchiesta della Fisher ci offre un regalo inaspettato e una conferma importante. Il regalo consiste nella rivelazione di piccoli e splendidi luoghi della montagna e della collina italiane, per i quali pare che il romitaggio non sia soltanto cosa di scelte personali, ma sia soprattutto affare di paesaggi e di atmosfere irripetibili (in Molise come in Calabria, in Abruzzo come in Umbria, in Toscana o in Lazio come in Veneto o in Sicilia): apprendiamo, così, che, fortunatamente, anche il paesaggio in taluni casi si è fatto “eremita” e si è “salvato” dalla diffusa devastazione urbanistica dei territori.

La conferma riguarda il fatto che tutte le figure degli eremiti intervistati nel corso del viaggio sentimentale dell’Autrice, da un lato, sono tra loro molto diverse (vivono in grotte, ma anche nel bel mezzo delle città; sono in contemplazione, ma sono anche consapevoli dei problemi che vive la nostra società; sono uomini, ma sono anche donne), dall’altro, si assomigliano in modo decisamente evidente (conoscere se stessi è l’imperativo trasversale, che spiega, in questi “protagonisti”, il frequente sincretismo dell’approccio religioso e la comune insistenza sulla privazione delle cose del mondo e sull’esperienza dell’altro come vie privilegiate per l’accesso alla chiave nascosta del proprio equilibrio naturale). La via, dunque, non è unica e prestabilita; ma c’è un linguaggio segreto, universale e costante, cui ci si può avvicinare soltanto con grande umiltà e disciplina.

Intervista all’Autrice

Una recensione (di Alessandro Zaccuri)

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Per i costituzionalisti italiani, ma anche per gli studiosi del diritto pubblico, Michele Ainis rappresenta senza dubbio uno dei più accreditati “nomi” della dottrina. In questa sua veste di interprete privilegiato delle dinamiche più attuali e controverse delle istituzioni del nostro paese, è anche noto a larga parte dell’opinione pubblica: come autore di interventi ed editoriali sui più importanti quotidiani, ma anche come ospite ricorrente in alcuni dibattiti televisivi o in alcune trasmissioni radiofoniche. Nessuno, tuttavia, ne aveva potuto apprezzare, finora, anche le doti narrative.

Doppio riflesso è un libro difficile e “scivoloso”, dallo stile e dal fraseggio magmatici e disorientanti; quasi che la sua scrittura costituisca il frutto diretto dello stesso smarrimento di cui è vittima Arturo, colui che ci appare subito, dalla prima pagina, come protagonista. C’è da chiedersi, però, altrettanto presto, se sia vero che il personaggio principale di questo romanzo, così atipico, è realmente questo irresoluto e smemorato agente di commercio, perseguitato da un sosia che gli “occupa” all’improvviso la vita, ed impegnato a scrivere un diario in cui cercare di recuperare, nero su bianco, il bandolo della matassa in cui si è raggomitolato il suo ménage quotidiano.

Non c’è dubbio che una storia esiste e che Arturo incontra “sul suo cammino” molte altre figure (da Pietro a Gea; da Gea ad Armida; etc.); tuttavia, sono anch’esse enigmatiche, “doppie” e sfuggenti, come le prime pagine di un libro che si sta cercando di comporre, come le pagine del Necronomicon, testo leggendario, creazione essa stessa di un genio letterario (quello di Lovecraft) e in quanto tale destinato a risultare tutto e il contrario di tutto. Nel racconto, l’unica cosa certa è la ricerca di quest’opera, che si interseca alle vicende di altri “figuranti”; eppure, il racconto stesso non sembra mai possibile, poiché Arturo, nello scrivere il diario, modifica il mondo che lo circonda e finisce sempre per perdersi sulle rive di una spiaggia capace di restituire tanti piccoli relitti e di testimoniare il senso di un costante naufragio.

Se Arturo riesca a “salvarsi” è domanda che occorre lasciare inevasa: la lettura del libro offre, sul punto, la risposta che il suo Autore ha pensato migliore. Vero è che in quella risposta, tanto semplice, si nasconde il segreto del libro: che è “un racconto sui racconti”, un romanzo sui libri e sulla loro potenza, sulla loro funzione di farci sperimentare incessanti “re-incarnazioni” e di proporci, per ciò solo, inesauribili questioni. Sono i libri, alla fine, i veri protagonisti; ma sembra di poter affermare, in aggiunta, che per Ainis essi non sono solo i protagonisti del suo ultimo libro, ma i protagonisti di tutta un’esistenza.

Intervista all’Autore

Una recensione (di Gabriele Pedullà)

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La migliore spiegazione dell’atmosfera in cui si muovono i 91 epigrammi di questo raffinato interprete ci viene fornita dallo stesso autore, alla fine del volume: “Due i temi principali: l’insofferenza verso certi «ritornelli» modernisti, e il tema, caro ai malinconici, del desiderio inappagato/inappagabile, della nostalgia che ammala, anche nella forma, sottile, della nostalgia del desiderio: l’acedia dei medievali” (p. 113).

Non è solo l’atmosfera, tuttavia, ad essere chiara; anche l’intenzione lo è. In questo caso, sono le belle parole di Eraldo Affinati, nella sua prefazione, a riuscire calzanti, dal momento che è vero che per Furgeri riflettere sull’acedia significa coltivare “un sentimento antagonista rispetto a quello novecentesco” e farsi quindi alfiere della “letizia” (p. 7). Il dato interessante è che questa specie di fiera tenzone poetica non si nutre di facili ottimismi, ma assume le forme asciutte e rigorose di uno stile conciso, che esalta un’ironia altrettanto sottile e sofisticata, l’arma migliore per decostruire le tentazioni dello spleen quotidiano.

Lo stimolo, ad ogni modo, è di andare anche oltre l’ironia. In queste poesie c’è anche uno scudo di sereno realismo, indossato da un combattente (Furgeri stesso) perfettamente consapevole del fatto che, nella lotta con la vita, spesso è solo questione di spostare l’equilibrio, di assumere una postura corretta, di ricordarsi sempre, molto banalmente, che occorre accorgersi del bicchiere mezzo pieno. Sono fantastici, in questo senso, i due pezzi 0,1 (Angoscia e numeri decimali) e 0,1 (Sollievo e numeri decimali), posti l’uno di seguito all’altro (pp. 61 e 62): per un verso, Dal nulla / ci separa / una virgola; eppure, contemporaneamente, e lapalissianamente, Dal nulla / pur ci separa / una virgola. E quel “pur” è veramente un fattore discriminante! Coglierlo – ecco quello che ci sembra il fulcro dell’intera raccolta – non dipende da Parsifal; non dobbiamo attendere, come re Artù, l’eroe-cavaliere, per bere dal Santo Graal e per guarire dalla malattia che ci stringe d’assedio e che mette a rischio le sorti del nostro regno. Forse, la malattia, così come la cura, è dentro di noi: del resto, il mito di Parsifal proprio questo ci spiega. E tra la tentazione di cadere senza alcuna possibilità di rialzarsi e la possibilità di scoprirsi improvvisamente immuni anche dalla forza di gravità si può tranquillamente scegliere la seconda opzione, fidandosi di un’illuminazione improvvisa: la fonte del miracolo, in modo tanto inattendibile quanto felice, ci sorprenderà a balzi sulle acque, come i sassi (p. 110).

 

Inventario

Questo solo stanca:

inutilmente domandarsi

che cosa manca.

 

Numeri decimali periodici

Così è anche per noi:

non siamo interi mai.

 

Invito dell’arciere ad una maggiore

tolleranza (verso se stesso)

Perché biasimare chi fallisce

Il proprio bersaglio?

Ha pur avuto l’audacia di mirarlo.

Mirandolo, lo ha tolto dall’ombra.

Egli stesso anzi è uscito allo scoperto.

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Per chi ha ancora sei giorni da “spendere” al lavoro, prima di guadagnare un po’ di respiro e di concedersi la meritata vacanza, questo gioiellino può proprio essere indispensabile, una bevanda capace di conferire resistenza e fiducia: un po’ come il mate che don Isidro, ex barbiere e detenuto, si accinge a preparare quando i suoi sventurati e pittoreschi “clienti” gli chiedono soccorso e lo interpellano direttamente nella cella n. 273 del penitenziario, affinché risolva gli intrighi che li tormentano.

Però occorre fare attenzione. Il terreno è quello dell’apocrifo e del farsesco, e la scrittura è difficile e proporzionata alla dimensione volutamente caricaturale dei personaggi. La lettura, poi, si rivela sempre densa e l’attenzione si scopre costantemente divisa tra la volontà di comprendere l’enigma e il desiderio di intendere le tante citazioni e i tanti riferimenti incrociati. Tutta l’ironia e tutto il “mestiere” di Borges-Casares – o, meglio, di Honorio Bustos Domecq, colui che è indicato come il vero / fantomatico autore di queste indimenticabili prove d’artista – si esprimono al meglio, quasi senza freni. È quanto mai necessario, dunque, “allacciarsi” robuste cinture di pazienza.

Ma, come si suol dire, “il gioco vale la candela”. Per l’eleganza e l’asciuttezza delle rapide spiegazioni con cui don Isidro scioglie matasse che paiono inestricabili. Per lo studiato contrasto tra la semplicità di quest’eroe (suo malgrado) sedentario e la volgarità e la superficialità delle macchiette che con lui interagiscono. Per la satira che in questo modo Domecq mette in scena nei confronti di alcuni tipi sociali, delle loro fortune e della vacuità di cui finiscono per farsi (in)degni rappresentanti. Per il rincorrersi dei personaggi, alcuni dei quali compaiono “in varia foggia” e in contesti e momenti diversi.

Piace pensare, poi, alla fine della lettura, di poter indossare, anche solo per un attimo, le “lenti” di don Isidro e di riuscire, così, a dominare la pochezza dei nostri affanni quotidiani con la stessa pacatezza e con pari senso pratico. Quale altro libro potrebbe promettere le soddisfazioni di una simile illusione?

Un’intervista a Borges (di Fausta Leoni)

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… e diremmo anche “Storia di una passione personale ed autentica”, perché tutto il libro serve a giustificare, meravigliosamente, la confessione racchiusa nelle sue ultime righe: “Se potessi ricominciare oggi, sceglierei di nuovo la letteratura. Se le risposte esistono, in questo mondo o nell’universo, sono ancora convinta che le troveremo proprio là” (p. 302). Elif Batuman, posseduta “coi fiocchi”, ci racconta alcune delle sue esperienze letterarie preferite e ci ricorda quanto può essere intenso, oltre che indispensabile, il fuoco della curiosità intellettuale.

Ci sono, comunque, tre motivi specifici per leggere questo libro, a suo modo molto singolare. Il primo ha a che fare con gli aneddoti, le spigolature, le curiosità e le brillanti intuizioni su vita e opere di alcuni dei più grandi narratori dell’immensa tradizione russa tra Ottocento e Novecento. Da questo punto di vista i capitoli Babel’ in California e Chi ha ucciso Tolstoj? sono, semplicemente, squisiti. Del primo “gigante” la Batuman coglie perfettamente l’ostinazione nella vita: difficile trattenersi e non rileggere, ancora una volta, L’Armata a cavallo e i suoi strani e intensissimi racconti. Di Tolstoj, invece, e della mitica tenuta di Jasnaja Poljana, sentiamo persino il fiato, mai corto, sempre robusto e lussureggiante, sempre così irresistibilmente solido e catartico, e sempre così proteso alla ricerca di un equilibrio fecondo tra realtà e condizione ideale.

La seconda virtù del volume, invece, trascende la prospettiva della Wunderkammer bio-bibliografica (portata a vette difficilmente raggiungibili nel pezzo su Il Palazzo di ghiaccio) per manifestarsi sotto forma di profonda riflessione, un po’ meta-letteraria, un po’ intra-letteraria. Leggere o scrivere o interpretare storie, romanzi o novelle non è soltanto evasione. Da un lato, le parole nascondono misteri e allusioni profonde, e il loro uso si combina in meccanismi che vogliono essere immagine di situazioni e pensieri universali e totalizzanti: ragionarci sopra è come percorrere una parte di tutti e di noi stessi. Dall’altro, però, la comprensione di questa dimensione passa, sorprendentemente, anche attraverso ciò che le potrebbe apparire più estraneo, ossia il minuto, il dettaglio e l’interstizio; se possibile anche attraverso il respiro della stessa aria che ha inalato l’autore, l’analisi dei suoi luoghi, delle sue fonti di ispirazione, dei suoi difetti e della sua quotidianità, delle sue peripezie e dei suoi dolori.

Il terzo punto di forza consiste nella possibilità di saggiare che cosa può accadere ad un tipico profilo di giovane studioso “globale”, a contatto con le stranezze, le eccentricità, le avventure, le casualità e i paradossi del mondo accademico e degli imprevedibili percorsi della ricerca universitaria. Questa è costellata di incertezze e di irripetibili occasioni, di delusioni e di ineffabili speranze, grandi o piccole; ma è anche il modo per conoscersi meglio e per confrontarsi con tanti altri “posseduti”, per capire di volerli “avvicinare” e di volerli “evitare” allo stesso tempo, in un rapporto di “amore e odio” e di sensibilità sempre acuminate. In questa direzione, il resoconto, in tre parti, sull’Estate a Samarcanda è qualcosa di più di un’iniziazione metodologica o di un “romanzino” di formazione o di un viaggio nella memoria e nelle radici di una predisposizione irrefrenabile: è la somma delle tappe che un personaggio di un romanzo russo potrebbe ancora percorrere, per “uscire dal guscio” e ritrovarsi, finalmente e irrimediabilmente, convinti (non importa se vincitori o sconfitti) nella propria scelta di vita.

In conclusione, per questa giovane scrittrice di origine turca, non potrebbe esserci un omaggio migliore: anche per lei vale l’invito che Pietro Citati rivolge dalla quarta di copertina dell’edizione economica Adelphi de Il dono di Nabokov: «Dovunque siate, a casa o in ufficio, qualsiasi cosa stiate facendo… uscite subito e precipitatevi dal libraio. I posseduti è lì, e vi attende»!

Una recensione di Paolo Nori

Elif Batuman’s homepage

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Ogni tanto tornare a Philip Kerr non fa per niente male. Il ciclo Berlin Noir e il suo impareggiabile detective, Bernie Gunther, sono pietre miliari della “letteratura internazionale”, così come lo sono i “prodotti” di John Grisham, Wilbur Smith o Patricia Cornwell: il bestseller è il loro “luogo” più congenito. Con il vantaggio, però che l’ambientazione cui lo scrittore scozzese riesce a mettere mano di volta in volta è molto più solida e suggestiva, e che il protagonista è un concentrato di sfrontatezza-cuore-cinismo da far invidia al più classico degli investigatori da fumetto.

In questo libro Gunther è nella sua veste di detective d’albergo, una sorta di scafato “alligatore”, che ha il compito di tenere “puliti” i fondali dell’elegante e prestigioso Hotel Adlon di Berlino: l’avvento del nazismo lo ha allontanato dalla polizia criminale; occorre essere fedeli al partito, e uno come lui, fedele alla Repubblica di Weimar, proprio non ci riesce. In queste sue mansioni si imbatte in una serie di traffici poco chiari, che intrecciano la corruzione del neonato regime e le mire speculative dei peggiori gangster d’oltreoceano. È il 1934, e le Olimpiadi del 1936 sono una buona occasione per lucrare sugli appalti per le grandi opere pubbliche e sullo sfruttamento del lavoro di ebrei e perseguitati politici, ormai sistematicamente esclusi da qualsiasi occupazione dignitosa. Gunther si imbatte in un malavitoso americano e lì cominciano i suoi guai, che tra i pericolosi contatti con la Gestapo e uno sprazzo di vera storia d’amore con la bella Noreen culminano in modo drammatico ma enigmatico sul ponte di un battello. La storia, poi, si sposta nel 1954, nella Cuba di Batista, dopo la guerra e dopo le dolorosissime vicende che hanno spinto il nostro eroe a fuggire dalla Germania e a crearsi una nuova identità. Tutto sembra normale, ma Bernie rivede Noreen, e le vicende si susseguono fino all’epilogo chiarificatore.

Con Kerr, in verità, non c’è quasi mai da aspettarsi una conclusione del tutto compiuta, perché ad essere tale è la figura di Gunther, sempre e comunque “bastante” a se stessa, dall’inizio alla fine: votato al compromesso ed una sorta di sopravvivenza avventurosa e quasi causale, questo detective è alfiere di un fatalismo tragico che, senza nascondersi dietro particolari colpi di scena e senza ammiccare necessariamente all’idea di un poliziotto speciale, intellettualmente e fisicamente dotato, parla a tutti i lettori. La forza di Kerr è sempre l’umanità “estrema” e “condannata”, limitata, ma capace, proprio perché imperfetta, di ogni bassezza e di ogni sacrificio, ma anche di ogni nobile aspirazione e di ogni grande “gesto”.

Si può fare comunque un appunto, che non è, tuttavia, rivolto all’Autore, bensì all’editore italiano che lo rende noto anche al nostro pubblico. La traduzione, davvero, non sempre è all’altezza, ed anche alcune scelte stilistiche, o “di resa”, sono nettamente stonate. Quanto varrebbe Philip Kerr con un doppiaggio più sicuro?

Il sito dell’Autore

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Uno degli economisti italiani più noti e impegnati inaugura una nuova serie de il Mulino dedicata ad una interessante collaborazione tra questo editore e lavoce.info. Lo fa, nella specie, affrontando i mali del calcio italiano, in un’intervista che prende spunto dai tanti scandali degli ultimi anni (da Calciopoli alla recentissima vicenda, ancora pendente, delle scommesse) e che cerca di isolare i fattori che in Italia rischiano di inquinare sistematicamente, se non esaurire, le grandi risorse e le insospettabili potenzialità di questo sport.

La dimensione del libro (103 pp. in un formato più che tascabile) lo renderebbe particolarmente appetibile proprio per l’assolata giornata che sta per culminare in Italia-Spagna, attesissima finale degli Europei 2012, se non altro perché, al termine di riflessioni poco confortanti sul pianeta-calcio, c’è sempre la speranza di rinfrancarsi e di emozionarsi di fronte all’incontrollabile magia del gioco. Il fatto è, però, che la rassegna dei problemi / “vizi” analizzati da Boeri non ci rivela alcunché di particolarmente originale.

Da molto tempo, ormai, si discute, quanto al calcio italiano, della cronica incapacità di scoprire e lanciare nuovi e giovani talenti, o del patologico intreccio tra potere mediatico, disciplina dei diritti televisivi e scarsa solidità patrimoniale delle società sportive, o, ancora, del complesso reticolo che, anche nel “governo del pallone”, agevola e protegge conflitti di interessi e fenomeni più o meno macroscopici di “cattura” di quei soggetti istituzionali che, viceversa, dovrebbero essere il più indipendenti possibile. Non meno sperimentati sono i rilievi critici all’ampiezza della “forbice” che separa le grandi star dai giocatori delle serie minori. Analogamente, è da tantissimo tempo che si ragiona su quale possa essere il modo per rendere più sereni e “incorruttibili” gli esponenti della classe arbitrale, le cui aspirazioni di carriera – e di guadagno – sono sempre state il terreno di ogni possibile speculazione e di ogni relativo “scandalo” (estivo o meno). Certo, a quest’ultimo riguardo, ed anche per chi non consulta sempre l’home page di lavoce.info, il ragionamento di Boeri fornisce notizia di una bella ricerca empirica, che non può che suffragare ulteriormente le lamentazioni, spesso solo “sentimentali”, di appassionati e osservatori.

Ad ogni modo, la poca originalità del volume fa riflettere: in primo luogo, sulla circostanza che, forse, bene avrebbe fatto, lo stesso Boeri, a “non” parlare solo di calcio e, anzi, a saggiare le sue brillanti capacità analitiche proprio nella “metafora” cui dice espressamente di voler sfuggire, quella, cioè, tra i problemi del calcio italiano e i problemi del Paese; in secondo luogo, sulla questione, di ben maggiore portata, se l’apporto degli economisti ai dibattiti più cruciali e più sentiti dall’opinione pubblica debba concentrarsi, principalmente, non tanto sull’applicazione divulgativa del “metodo” che ne caratterizza l’expertise, quanto, piuttosto, sulla divulgazione “sostanziale” di dati, documenti, ricerche, studi e valutazioni che la loro scienza gli mette quotidianamente a disposizione (in altri termini: dobbiamo tutti “armarci” di una “tecnica” specifica e diventare, nel nostro piccolo, “economisti in provetta? O dobbiamo, meglio, conoscere effettivamente quali sono i risultati che lo studio dell’economia ci consegna e che ci permetterebbe di avere basi conoscitive ed istruttorie migliori per comprendere la realtà e per pensare, anche con l’aiuto di altre considerazioni, a qualche idea?). D’altra parte, i passaggi migliori di questo testo sono, guarda caso, quelli in cui si riferisce di indagini che non sono già disponibili al normale lettore delle pagine sportive dei principali giornali e che ne possono ampliare la “consapevolezza”, oppure quelli in cui si avanza qualche proposta operativa (come quella relativa ad una più netta “responsabilizzazione” dei dirigenti delle società).

Se c’è un aspetto, comunque, sul quale Boeri merita è un plauso è che ci ricorda che il calcio è una cosa maledettamente seria. Che cosa si può leggere, dunque, di serio, prima della partitissima? Ritrovo uno spunto di grande saggezza – quasi à la Montesquieu – in un classico pezzo dell’eterno Gianni Brera (Il più bel gioco del mondo, nel libro che porta lo stesso titolo e che raccoglie alcuni dei migliori articoli del grande giornalista, morto nel 1992: Milano, 2007, 409-410): “Il guaio è che il calcio è sempre maledettamente difficile da capire e da interpretare. Il fenomeno calcistico è vasto come il mondo ed esige conoscenze sportive non limitate affatto alla pedata, bensì fondate sullo studio dell’etnos, della psicologia razziale, dell’ambiente sociale ed economico. Quando un paese mezzo alpino e mezzo mediterraneo come l’Italia pretende di assumere gli usi e i costumi calcistici degli inglesi, immancabilmente si vota alla catastrofe; quando ripudia il proprio modulo ideale per adeguarsi a quello d’un popolo dalle caratteristiche quasi opposte, rivela altresì deleteria ignoranza. Questa verità critico-storica è oggi accolta da chiunque si interessi di calcio fra noi. Per giungere ad affermarla ci sono voluti quasi vent’anni, e fa molta specie ammetterlo, ma in fondo non meraviglia, perché la pigrizia mentale è sempre stata e rimane una delle più gravi jatture dell’uomo”.

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Stop, look, listen to my heartbeat (The Runaways)

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