Il commissario Charitos è appena tornato dalle vacanze, passate in montagna, dove con la moglie Adriana ha conosciuto e frequentato tre anziane signore di Atene, Tasia, Arghirò e Calliope. Si sono trovati bene, e l’accordo è di vedersi anche in città. Il rientro, peraltro, comincia nel modo migliore: Ghikas, che è stato il suo superiore per molti anni, va in pensione, e Charitos, che un po’ si scopre sperduto e un po’ sente odore di promozione, è chiamato temporaneamente a reggerne le funzioni. Ma la capitale greca è presto scossa dall’omicidio del ministro Rapsanis, un noto professore di filosofia del diritto, trovato avvelenato tra le mura della sua abitazione. L’assassinio viene rivendicato da una sorta di cellula terroristica, che si propone di punire tutti gli accademici che si sono lasciati attrarre dalle lusinghe della politica e hanno abbandonato la loro missione scientifica ed educativa. A Charitos, quindi, tocca la patata bollente di un’indagine insolita e molto complessa. Tanto più che non sa dove sbattere la testa, la stampa preme e i vertici della polizia gli stanno sul collo; e nel frattempo vengono uccisi altri due professori universitari, uno di lettere e uno di filosofia, entrambi coinvolti nell’esercizio di funzioni di governo. Mentre Adriana lo trascina in ripetute cene con le tre amiche dell’estate e con i parenti, il commissario tenta di sciogliere la matassa in più direzioni. Soltanto un caso gli permetterà di capire dove soffermarsi con maggiore attenzione, e la soluzione – mai tanto vicina… – sarà semplice e sorprendente allo stesso tempo.
Un Markaris val sempre la pena. In questo caso, per la verità, non si può dire che la sua forma sia particolarmente smagliante: dai tempi di Difesa a zona – lo seguo davvero da molti anni… – Charitos è decisamente invecchiato, come il suo Autore. Tuttavia l’incantesimo di uno stile diretto, chiaro e familiare rimane intatto, a prova testuale della rassicurante fedeltà del personaggio alle sue abitudini e ai suoi luoghi e numi tutelari. Ci si sente a casa, a leggere Markaris, e il commissario, come sempre, continua a cercare ispirazione nella lettura di un dizionario; forse invano, ormai. Come se la società in cui vive non rispettasse più il suo linguaggio naturale, e come se il principio di ogni devianza si nascondesse proprio lì. Anche in quest’ultima avventura, d’altra parte, il mondo si capovolge, perché – senza rischiare di violare la fisiologica riservatezza che il giallo esige… – ad essere armato e delittuoso, e a presentarsi addirittura come rivoluzionario, non è un sogno di matrice utopistica, ma è il braccio generazionale della nostalgia. Il romanziere greco coglie bene, rappresentandolo con semplicità ed efficacia, uno dei segni più caratteristici e ambigui del nostro tempo. Ed è una felice coincidenza, terminato il libro, imbattersi in un bell’articolo del Foglio (Paola Peduzzi, 3 giugno 2018) sulla “nostalgia tiranna” e sulla pericolosissima “arte di rifugiarsi in un passato dorato”, strategia che è oggi prediletta anche dagli istinti politici più radicali. Markaris riesce ancora a lanciare il suo sasso nello stagno.
Recensioni (di Fabio De Propris; di Matteo Nucci)