Ieri Linkiesta.it ha pubblicato un racconto di Jack London. Non l’ho ancora letto, in verità. Ero impegnato a finire La pelle dell’orso, che comincia con un tono da vecchia storia di montagna e termina, però, con immagini degne del grande cantore del Klondike e della forza severa della natura. Non sono molte pagine, pertanto decido di onorare subito il regalo ricevuto. Con buona soddisfazione. Ora, da qualche parte, in rete, vedo che Matteo Righetto è definito come il più americano dei nostri scrittori. Forse è vero. Le buie foreste e le mitiche vette dolomitiche che fanno da scenario a questo breve romanzo non profumano solo di Rigoni Stern o di Buzzati; c’è anche un pizzico del miglior Lansdale, quello de In fondo alla palude. Alla tipica novella invernale, da stufa e tisana calda, si accompagna uno spunto epico, che, anziché falsare il contesto, attribuisce alla scrittura una tinta decisamente vera e i ritmi di una sceneggiatura potenzialmente assai efficace.
L’azione si svolge nell’ottobre del 1963, nel bel mezzo della terra ladina. Il protagonista è il giovanissimo Domenico, che vive nel piccolo borgo di Colle Santa Lucia e viene coinvolto dal padre Pietro in una pericolosa caccia all’orso. Pietro è animato da un’insopprimibile voglia di riscatto; il figlio spera che, dopo la scomparsa prematura della madre, l’avventura lo possa finalmente legare al padre, divenuto scontroso e violento. E così accade, visto che la ricerca dell’enorme e diabolico plantigrade li affiata. Domenico scopre cose che non sapeva e si commuove, Pietro si comporta da vero padre e gli fa conoscere anche l’eccentrica e anziana figura di Pepi Zelger. Finché non arriva il momento che durante la caccia si fa lentamente attendere: lo scontro con la furia del terribile e grande carnivoro. Quello che succede da questo momento in poi è la parte americana del libro, tutta da scoprire, e senza che vi sia un epilogo lieto. Anche i giorni – le date – in cui i fatti si verificano acquistano all’improvviso un significato fondamentale. Domenico, così, si ritroverà immediatamente adulto, provato e sgomento, di fronte alla durezza della natura e di un destino tristissimo, certo, ma ancor più solo, scosso e disperato per la testarda stupidità degli uomini.
Si potrà dire che il libro è un po’ furbo, visto che gioca con le emozioni semplici e fortissime che solo alcuni eventi sono in grado di comunicare. Tuttavia bisogna anche riconoscere che siamo spesso assuefatti alle invenzioni più ricercate e che la grande letteratura non sta solo nel registro più difficile. Inoltre l’Autore è riuscito, simultaneamente, in tante e diverse cose: rievocare un mondo popolare affascinante e forse scomparso; descrivere colori, odori e suoni del bosco in modo particolarmente evocativo; collegare la favola alla storia, sulle orme di una tradizione italiana di tutto rispetto; sovrapporre la narrazione di un classico momento iniziatico alla rievocazione di un fatto collettivo tanto drammatico quanto decisivo per la formazione di un’intera identità territoriale. Non è poco.
Recensione (di Ferdinando Camon, di Paolo Perazzolo, di Roberto Alfatti Appetiti)
Dopo il fortunatissimo intermezzo de Se ti abbraccio non aver paura, Fulvio Ervas torna al suo amato commissario Stucky, della Questura di Treviso. L’avvio della lettura è direttamente in compagnia del morto, con un’anticipazione di ciò che dovrà accadere nel corso della storia e con l’entrata in scena del comandante Latinski. Stucky lo incontrerà in Croazia durante una vacanza sull’Adriatico, in un campeggio di naturisti. E lo sbirro è tale anche quando vorrebbe concedersi un meritato riposo estivo: così Stucky comincerà ad indagare, in parallelo con il collega della polizia croata, e vedrà anche un’altra vittima, fino all’epilogo in una piccola isola della Dalmazia. Come sempre, le vicende del commissario trevigiano sono alternate alla voce narrante del protagonista negativo, un pescatore chioggiotto di fede dannunziana, che in questo caso, però, pur essendo a capo di un’impresa dichiaratamente criminale, apparire quasi simpatico. Il marcio, infatti, si nasconderà anche altrove e Stucky, pure vittorioso, ne uscirà un po’ malconcio, ma con una inattesa e fascinosa conquista.
La trama è semplice e accattivante. E poi, come succede in tutti i romanzi di Ervas, ci sono sempre un bel po’ di temi sociali sullo sfondo, dalla crisi economica alla corruzione. La parte migliore del libro, tuttavia, viene prima, ossia subito dopo l’anticipazione che apre il volume e fino a p. 82. Perché Ervas non vuole perdere l’occasione di presentare Stucky nel suo ambiente, quello che nell’ultima avventura è destinato a restare un po’ da parte. Compaiono Sandra e Veronica, le sorelle di vicolo Dotti, estroverse ed irriducibili vicine di casa del nostro eroe; c’è la compagna, Elena, con il suo eccentrico figlio, Michelangelo; fanno capolino pure Spreafico e Landrulli, i due scalcagnati agenti della Questura; non manca il saggio e pacato Cyrus, lo zio iraniano che vende tappeti in centro a Treviso; e infine c’è anche il cane Argo, detto il salsiccio, che d’ora in poi diventa inseparabile scudiero di Stucky e primo interlocutore della sua frequente “Antimama!”, l’esclamazione con cui il commissario cerca di esorcizzare tutto ciò che gli accade. Le ho lette tutte, finora, le Stucky’s Tales, sin da Commesse di Treviso. È il mondo di Stucky: che in ogni episodio non tradisce, che suscita sorrisi e complicità, che produce un certo senso di identificazione; con la personalità, e l’umanità, di questo strano poliziotto, ma anche con i tanti spunti di leggerezza, gusto, amore e natura con cui l’Autore vuole pervicacemente adescarci.
Recensioni (di Mario Baudino e di Sara Salin)
Una breve intervista all’Autore
Scrittori per un anno: Fulvio Ervas (da letteratura.rai.it)
Fulvio Ervas e il Commissario Stucky (da reteuno.rsi.ch)