Todo un año del blog (da trotta.es)

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Prima avvertenza: è meglio se si riesce ad andarci in auto. È vero che per chi arriva in treno c’è l’apposita fermata in esatta corrispondenza del piccolo omonimo comune, raggiungibile senza disagi sulla tratta Milano-Pavia. Però, anche se si viene sbalzati dalla ferrovia in sorprendente prossimità del lunghissimo muro di cinta del monastero, possono presentarsi alcune difficoltà, specialmente per chi si muove con trolley, borse o valigie varie. C’è un percorso pedonale, teoricamente assai suggestivo, proprio lungo il muro; ma il terreno fangoso e le frequentazioni faunistiche del vicino canale potrebbero non costituire la migliore delle accoglienze. // Seconda avvertenza: la Certosa è ben connessa a tutte le vie di comunicazione. Eppure, salva la locale stazione dei Carabinieri, praticamente inglobata nell’ingresso, gli immediati dintorni del pur enorme complesso architettonico paiono colpiti dalla più classica delle desolazioni con cui sono costretti a convivere moltissimi dei patri monumenti. Escluderei da questo insopprimibile senso di disfacimento la stretta contiguità del monastero con il più famoso e storico stabilimento della Galbani (eh si, proprio quello del Bel Paese…). È un raffronto che suscita più di qualche rilievo, per nulla negativo (da una fabrica all’altra…).     

La visita: traguardati dal binario, i pinnacoli della Certosa spuntano in una leggerissima foschia. Ma non ci si sente nel XIV Secolo, anche se la posa della prima pietra risale all’agosto del 1396. I silos dell’industria del formaggio incombono e l’idea, oggi, è che, dietro l’alta parete di mattoni che protegge gli antichi poderi dei monaci, si stia innalzando un’eccentrica e avveniristica Metropolis padana. All’entrata del cortile antistante alla chiesa, Quattrocento, Cinquecento e Seicento si lasciano finalmente raggiungere, come in successione, anche se in rigoroso ordine inverso (prima il Seicento, per gli edifici che fanno da contorno al cortile, poi il Cinquecento, per il cortile stesso, quindi il Quattrocento per l’imponente struttura della chiesa). La facciata è policroma, anche se domina il bianco; è maestosa e connotata da un’unicità che è complice con quella dello sguardo inevitabilmente stupito di ogni singolo visitatore. Si comprende facilmente la stratificazione di stili, idee e lavorazioni, frutto di un cantiere secolare. Le immagini e le storie scolpite impongono attenzione, specialmente attorno al portale. È una fioritura di decorazioni, affiancate l’una all’altra.

Per entrare si passa dalla chiesa (S. Maria delle Grazie: il nome di tutto il complesso è Gratiarum Chartusia, da cui il GRA-CAR che si trova impresso in più luoghi e in più elementi della costruzione). Si deve attendere il proprio turno. La visita dura circa mezz’ora e la guida – che altri non è se non un monaco cistercense di origine brasiliana – finisce il proprio giro e torna a prendere il gruppo, che nel frattempo si è spontaneamente accalcato davanti al cancello che separa il transetto, il coro e l’altare dalla navata centrale. Nell’attesa il visitatore non trova alcun genere di supporto esplicativo. Il vuoto non disturba, fa rima con l’imponenza e l’incidenza dei volumi tardo-gotici, davvero sorprendenti e paralizzanti. E invita alla scoperta disorientante degli affreschi e delle vetrate. Ma i poli d’attrazione sono effettivamente nel transetto: il monumento funerario di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este; il sepolcro di Gian Galeazzo Visconti; il trittico in avorio. Da subito si capisce che l’illustrazione guidata corrisponde ad un testo recitato, imparato a memoria, concepito per essere ripetuto meccanicamente e, forse, di per sé poco interessante. È quasi una preghiera, un perdurante atto di riconoscenza agli Sforza e ai Visconti (finanziatori dell’opera), oltre che a Dio: nel centro del magnifico coro il monaco ci invita in modo disarmante alla recita collettiva del Padre Nostro. Capisco, tuttavia, che la visita di natura intimamente devozionale ha una sua precisa finalità e che, peraltro, colpisce veramente il piccolo pubblico dei turisti. E intuisco, allo stesso modo, che, se al posto del simpatico monaco brasiliano ci fosse un preparatissimo storico dell’arte, la comitiva non sarebbe altrettanto sopraffatta dalla dimensione della cosa. Il punto è che il rapporto con un bene culturale ha anche bisogno di ispirazione e di riverenza, e non solo se si tratta di un monumento di interesse religioso. La lezione ha una portata generale, per nulla scontata: nel patrimonio artistico c’è da comprendere e da approfondire, ma c’è anche da restarne avvolti. I due profili si sorreggono a vicenda.  

Il vero trionfo è nei due chiostri. Il primo, quello piccolo, che offre la vista più suggestiva alla cupola che sovrasta la chiesa e ai contrafforti che la sorreggono; e il secondo, quello grande, che fino al 1947 ospitava le celle dei certosini e che è il più autentico regno del silenzio. Del primo mi colpisce la raffinatezza del cotto lombardo, articolato in molteplici forme scolpite su tutti gli archi, oltre che sullo splendido fontanile laterale, cui i monaci si recavano per lavarsi. Il secondo è immerso nel pallido sole di dicembre, con un placido gatto che ne sorbisce il tepore vicino ad una della innumerevoli colonne: è come la piazza verde di una città ideale, uno spazio assoluto sul quale si affacciano, ad intervalli regolari, le casupole seriali dei monaci. In un angolo si può sbirciare sull’enorme distesa di campi recintati in dotazione al convento. La guida ripete compìta le regole e l’organizzazione della vita di ogni certosa (v., ad esempio, la semplice presentazione dei certosini di Serra San Bruno); poi si viene fatti entrare in una delle celle, raccolte e complete, con camino, studiolo e piccolo orto-giardino. 

I pensieri che mi vengono subito in mente sono apparentemente un po’ dissociati: devo rileggere Altissima povertà di Agamben; ho una voglia improvvisa della mia consueta quiete domestica. Così produco una riflessione forse troppo prosaica, ma tanto personale quanto sincera: in fondo, quando sono a casa, mi riposo e mi ricostruisco, e ciò non solo perché trovo un momento di pausa, ma anche perché posso informare lo spazio che mi circonda alle mie più spontanee e semplici esigenze, in senso alternativo a quella che è la vita che normalmente conduco all’esterno. Per questa ragione apprendo che la casa è, nella mia esperienza, lo specchio di un quotidiano e laico bisogno certosino. La visita termina nello shop della struttura, gestito dai cistercensi, attuali custodi della Certosa (ma lo sono stati anche in altre epoche, come è accaduto anche per i carmelitani). Ci scappa l’acquisto di una tisana confezionata sul posto e si esce nuovamente nel cortile di fronte alla facciata della chiesa, evitando (si sta facendo tardi…) l’attigua gipsoteca, che è gestita dalla locale Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio (e che si trova nell’antica Foresteria, poi Palazzo Ducale, residenza estiva dei Visconti). La nebbia comincia ad addensarsi; da queste parti è un copione pressoché fisso e molto suggestivo. Si riparte con l’immagine della Madonna del Garofano, ritratta nella Sala del Lavabo: un piccolo “santino” a mo’ di cartolina, per ricordare la leggerezza di questa visita imperdibile.

Il sito della Certosa

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Il punto di vista sul giornalismo sportivo (da francescocosta.net)

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“Il calendario dell’avvento” di Antonia Arslan (da ilfoglio.it)

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Ieri Linkiesta.it ha pubblicato un racconto di Jack London. Non l’ho ancora letto, in verità. Ero impegnato a finire La pelle dell’orso, che comincia con un tono da vecchia storia di montagna e termina, però, con immagini degne del grande cantore del Klondike e della forza severa della natura. Non sono molte pagine, pertanto decido di onorare subito il regalo ricevuto. Con buona soddisfazione. Ora, da qualche parte, in rete, vedo che Matteo Righetto è definito come il più americano dei nostri scrittori. Forse è vero. Le buie foreste e le mitiche vette dolomitiche che fanno da scenario a questo breve romanzo non profumano solo di Rigoni Stern o di Buzzati; c’è anche un pizzico del miglior Lansdale, quello de In fondo alla palude. Alla tipica novella invernale, da stufa e tisana calda, si accompagna uno spunto epico, che, anziché falsare il contesto, attribuisce alla scrittura una tinta decisamente vera e i ritmi di una sceneggiatura potenzialmente assai efficace.

L’azione si svolge nell’ottobre del 1963, nel bel mezzo della terra ladina. Il protagonista è il giovanissimo Domenico, che vive nel piccolo borgo di Colle Santa Lucia e viene coinvolto dal padre Pietro in una pericolosa caccia all’orso. Pietro è animato da un’insopprimibile voglia di riscatto; il figlio spera che, dopo la scomparsa prematura della madre, l’avventura lo possa finalmente legare al padre, divenuto scontroso e violento. E così accade, visto che la ricerca dell’enorme e diabolico plantigrade li affiata. Domenico scopre cose che non sapeva e si commuove, Pietro si comporta da vero padre e gli fa conoscere anche l’eccentrica e anziana figura di Pepi Zelger. Finché non arriva il momento che durante la caccia si fa lentamente attendere: lo scontro con la furia del terribile e grande carnivoro. Quello che succede da questo momento in poi è la parte americana del libro, tutta da scoprire, e senza che vi sia un epilogo lieto. Anche i giorni – le date – in cui i fatti si verificano acquistano all’improvviso un significato fondamentale. Domenico, così, si ritroverà immediatamente adulto, provato e sgomento, di fronte alla durezza della natura e di un destino tristissimo, certo, ma ancor più solo, scosso e disperato per la testarda stupidità degli uomini.

Si potrà dire che il libro è un po’ furbo, visto che gioca con le emozioni semplici e fortissime che solo alcuni eventi sono in grado di comunicare. Tuttavia bisogna anche riconoscere che siamo spesso assuefatti alle invenzioni più ricercate e che la grande letteratura non sta solo nel registro più difficile. Inoltre l’Autore è riuscito, simultaneamente, in tante e diverse cose: rievocare un mondo popolare affascinante e forse scomparso; descrivere colori, odori e suoni del bosco in modo particolarmente evocativo; collegare la favola alla storia, sulle orme di una tradizione italiana di tutto rispetto; sovrapporre la narrazione di un classico momento iniziatico alla rievocazione di un fatto collettivo tanto drammatico quanto decisivo per la formazione di un’intera identità territoriale. Non è poco.

Recensione (di Ferdinando Camon, di Paolo Perazzolo, di Roberto Alfatti Appetiti)

Il sito dell’Autore

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Oggetti d’infanzia. Il presepe (da doppiozero.com)

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La victoria y los secretos de los libros prohibidos (da elpais.com)

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Dopo il fortunatissimo intermezzo de Se ti abbraccio non aver paura, Fulvio Ervas torna al suo amato commissario Stucky, della Questura di Treviso. L’avvio della lettura è direttamente in compagnia del morto, con un’anticipazione di ciò che dovrà accadere nel corso della storia e con l’entrata in scena del comandante Latinski. Stucky lo incontrerà in Croazia durante una vacanza sull’Adriatico, in un campeggio di naturisti. E lo sbirro è tale anche quando vorrebbe concedersi un meritato riposo estivo: così Stucky comincerà ad indagare, in parallelo con il collega della polizia croata, e vedrà anche un’altra vittima, fino all’epilogo in una piccola isola della Dalmazia. Come sempre, le vicende del commissario trevigiano sono alternate alla voce narrante del protagonista negativo, un pescatore chioggiotto di fede dannunziana, che in questo caso, però, pur essendo a capo di un’impresa dichiaratamente criminale, apparire quasi simpatico. Il marcio, infatti, si nasconderà anche altrove e Stucky, pure vittorioso, ne uscirà un po’ malconcio, ma con una inattesa e fascinosa conquista.

La trama è semplice e accattivante. E poi, come succede in tutti i romanzi di Ervas, ci sono sempre un bel po’ di temi sociali sullo sfondo, dalla crisi economica alla corruzione. La parte migliore del libro, tuttavia, viene prima, ossia subito dopo l’anticipazione che apre il volume e fino a p. 82. Perché Ervas non vuole perdere l’occasione di presentare Stucky nel suo ambiente, quello che nell’ultima avventura è destinato a restare un po’ da parte. Compaiono Sandra e Veronica, le sorelle di vicolo Dotti, estroverse ed irriducibili vicine di casa del nostro eroe; c’è la compagna, Elena, con il suo eccentrico figlio, Michelangelo; fanno capolino pure Spreafico e Landrulli, i due scalcagnati agenti della Questura; non manca il saggio e pacato Cyrus, lo zio iraniano che vende tappeti in centro a Treviso; e infine c’è anche il cane Argo, detto il salsiccio, che d’ora in poi diventa inseparabile scudiero di Stucky e primo interlocutore della sua frequente “Antimama!”, l’esclamazione con cui il commissario cerca di esorcizzare tutto ciò che gli accade. Le ho lette tutte, finora, le Stucky’s Tales, sin da Commesse di Treviso. È il mondo di Stucky: che in ogni episodio non tradisce, che suscita sorrisi e complicità, che produce un certo senso di identificazione; con la personalità, e l’umanità, di questo strano poliziotto, ma anche con i tanti spunti di leggerezza, gusto, amore e natura con cui l’Autore vuole pervicacemente adescarci.

Recensioni (di Mario Baudino e di Sara Salin)

Una breve intervista all’Autore

Scrittori per un anno: Fulvio Ervas (da letteratura.rai.it)

Fulvio Ervas e il Commissario Stucky (da reteuno.rsi.ch)

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Il cruciverba compie 100 anni (da ilfattoquotidiano.it)

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Perché nessuno risponde? (da unita.it)

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