Giacomo è un dottorando dell’Università Statale di Milano, affidato alla guida dell’autorevole Prof. Briola. Nel bel mezzo del lockdown per Covid-19, il rapporto tra il giovane giurista e lo studioso ormai in pensione si intensifica, pur nel contesto delle rispettive solitudini, interrotte dai numerosi collegamenti online che scandiscono le giornate. Giacomo deve calibrare e finalizzare la sua ricerca e Briola sente che quello scelto dal giovane studioso può essere un campo di indagine assai interessante. La tesi di Giacomo, infatti, si propone di verificare sia quanto la giurisprudenza precedente all’epoca delle grandi codificazioni costituisse patrimonio comune dei giudici europei, sia quanto essa abbia proiettato la sua influenza sulle interpretazioni successive. Sarà necessario rimettersi sulle tracce delle riflessioni avviate da Gino Gorla, uno dei più importanti e stimati comparatisti. Sicché Briola aiuta il ragazzo a procurarsi un po’ di volumi, facendoglieli spedire direttamente dalla sede dell’UNIDROIT, a Roma, dove è collocato anche un apposito fondo, contenente libri e documenti donati dallo stesso Gorla. È in quel voluminoso pacco che Giacomo fa una scoperta potenzialmente sensazionale. Vi rinviene, infatti, appunti autografi e inediti del famoso comparatista, con una lista sostanziosa, e ragionata, di casi giurisprudenziali tratti dalle decisioni di corti sparse per tutta l’Europa e operanti nel corso dell’Ottocento. La chance come il rischio di valorizzare espressamente un filone di ricerca così originale, ma minoritario, sono evidenti. Che cosa farà Giacomo? Sarà in grado il Prof. Briola di dargli il consiglio migliore? La conclusione non è per nulla scontata e a molti, anzi, potrà sembrare – senza alcuna contraddizione – tanto lucida e realistica quanto triste e spiazzante.

Questo è un romanzo atipico. Lo è, in primo luogo, per la tensione narrativa, che si carica nel susseguirsi di moltissime pagine, all’apparenza lente e sovrabbondanti, per poi sciogliersi in modo rapido, quasi contratto, nell’epilogo. Qualcosa evidentemente deve scatenarsi, come in una classica relazione tra potenza e atto, con un effetto che materialmente può dirsi drammatico e amaro. Ma l’atipicità si misura anche sul piano dell’oggetto: Obiter dicta – che per i giuristi è espressione tecnica e nota, e vale a identificare gli insegnamenti o i principi che sono occasionalmente espressi nelle sentenze, pur senza costituire la base delle relative decisioni – è un singolare esperimento di fiction accademica. Non, semplicemente, nel senso di un racconto ad ambientazione universitaria. Qui il tema è la ricerca stessa, con il suo disorientante apprendistato e con la strutturale incertezza esistenziale che avvince i suoi adepti, specie all’inizio del loro percorso. Anche se va aggiunto che la peculiarità è ulteriore: anzitutto, le vicende sono una scusa per divulgare qua e là, a mo’ di pensierose digressioni, frammenti ragionati di cultura giuridica; nello stesso tempo, poi, Annunziata non rinuncia al brivido dell’invenzione, mettendo in gioco ritrovamenti mai avvenuti o congetture tuttora non interamente dimostrate. Dunque si può dire molto, del diritto, anche per mezzo di un’opera di fantasia. Al di là di ciò c’è da segnalare un altro profilo, che contribuisce a spiegare l’andamento imperscrutabile di buona parte della narrazione. È l’isolamento dell’accademico, il suo usuale confinamento, che nel libro va ovviamente oltre il proscenio delle restrizioni legate alla pandemia. E di cui l’Autore riesce a mettere efficacemente in luce il peculiare, costante dis-equilibrio, tra vertigine del percorso scientifico personale e istanze di conformità e normalizzazione. D’altra parte – come il lettore potrà verificare – in Obiter dicta, come nel tragitto di ogni studioso, la vita è sempre la posta in gioco.

Recensione (di T. dalla Massara)

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Money, Mississippi. Un piccolo centro abitato. Uno sputo di case nel Sud che più Sud non si può. Dove, all’improvviso, vengono barbaramente e misteriosamente uccisi, uno dopo l’altro, due uomini bianchi. Accanto ai quali è rinvenuto il cadavere, anch’esso pesto e malridotto, di un piccolo uomo di colore. Sempre lo stesso: perché dopo il primo delitto è scomparso dall’obitorio ed è ricomparso, quasi fosse un fantasma, sulla nuova scena del crimine. Che cosa sta succedendo? Lo sceriffo locale e i suoi due stolidi aiutanti poco ci capiscono. Entra in scena allora una coppia di investigatori della polizia statale, Ed e Jim, due detective di colore spediti fino a lì dagli headquarters di Hattiesburg. Nel frattempo muore allo stesso modo anche il coroner, “reverendo” Fondle, capo (nemmeno troppo occulto) del locale Ku Klux Klan. D’altra parte si scopre subito che i primi delitti sono connessi, perché gli avi dei defunti erano stati autori, nel 1955, di un terribile linciaggio, quello di Emmett Till, un ragazzo accusato – sic – di aver salutato una ragazza bianca. Un fatto storico realmente accaduto. E a morire, nella fiction, è pure Nonna C, la ragazza bianca protagonista di quell’evento. È forse una qualche forma di vendetta? La vicenda, però, si fa ancor più complessa e inesplicabile, perché i morti, con analoghe scene del delitto, si moltiplicano: a Chicago, in California e in altri luoghi del Mississippi e di tutta l’America. Tanto che entra in scena pure l’FBI. Mentre si comincia a comprendere che tutto ciò che sta accadendo riguarda non solo la gente di colore, ma ogni soggetto gravato dal peso di una qualche diversità.

Percival Everett riesce sempre a sorprendere. In parte, per aver deliberatamente e scopertamente scelto la forma del romanzo impegnato. Che va alle radici dei linciaggi che scossero l’America del movimento dei diritti civili, per riaccendere le coscienze in un tempo, quello di oggi, in cui il razzismo pare riemergere, attecchire e rinsaldarsi alle esplicite posizioni di una certa classe politica repubblicana. Siamo oltre Black Lives Matter: è una chiamata espressa ad INSORGERE; e a farlo, con Billie Holiday, sulle note strazianti di Strange fruit (il chiaro riferimento da cui è tratto il titolo del libro: “Southern trees bear strange fruit / Blood on the leaves and blood at the root / Black bodies swinging in the southern breeze / Strange fruit hanging from the poplar trees”). In altra parte, tuttavia, l’effetto stupefacente di quest’ultima prova letteraria è l’opzione stilistica per una sorta di fumettone, sospeso tra il satirico, l’ironico e il grottesco. I personaggi sono così carichi che il lettore non può non pensare a una sceneggiatura alla Tarantino. Al di là di ciò – ma senza rivelare nulla di più di quanto si è già scritto – la sensazione, specie per il pubblico italiano, è di trovarsi di fronte a un’avventura alla Dylan Dog, in uno scenario – letteralmente – da notte dei morti viventi. Come se Everett avesse seguito le ispirazioni dei peggiori incubi di Tiziano Sclavi. Dunque si può fare memoria anche così, combinando impegno civile e proiezione fantastica. Del resto, più si moltiplicano gli zombies dei vendicatori, più si rinominano, e si fissano, nero su bianco, i tantissimi casi delle violenze subite nel tempo dalla gente di colore. Sono quelli che, nel romanzo, raccoglie e custodisce l’enigmatica Mama Z, e che neanche il più giovane e talentuoso studioso (il Damon Thruff cui Mama Z apre le porte del suo archivio) riesce a razionalizzare utilmente. Perché parlano da soli, in effetti. O, quanto meno, dovrebbero parlare da solo, seppure soltanto l’assurdo e l’impensabile – ecco la denuncia paradossale di Everett – possano creare la chance per renderli attivi e terrificanti nelle coscienze di tutti. E per rivelare il carattere lunatico e introverso di una società politica alla deriva.

Due libri di Percival Everett: qui e qui

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Franco Gavaglià è sindaco di un piccolo comune. Viene da una frazione di montagna, dove è cresciuto in baita, sopportando le difficoltà di una vita, e di una natura, aspra e le continue violenze, terribili, del padre. Soltanto negli anni dell’università è riuscito a realizzare il suo sogno di fuga e a costruirsi uno spazio autonomo di riconoscimento sociale. Ora si avvicina una nuova campagna elettorale e, a quanto dice il suo vice, occorre inventarsi qualcosa di efficace per continuare a convincere gli elettori e contrastare le mire dell’altro candidato, il temibile Ursini. È questa la scena in cui si articola la storia che le stesse parole di Gavaglià percorrono passo dopo passo, nel suo rivolgersi, un po’ pacato e sollecito, ma anche un po’ disilluso, alla figlia Leda. Ed è una storia che, in parte, è buia come la conca in cui il piccolo Franco cercava rifugio, sui monti, lontano dalle angherie paterne; e in altra parte, invece, è semplicemente trista, perché disseminata da un sentimento diffuso di soffocato rancore e di reiterato fallimento. Il fatto è che, al termine di un farsesco e calcolato tentativo di comunicazione elettorale – nel quale il protagonista cerca di ripescare l’anziano padre e farne l’esempio inverosimile di antiche e formidabili virtù, e di un rapporto filiale autentico – il disastro, per Gavaglià, si presenta in tutta la sua inevitabile dimensione.

Quello di Morandini è libro duro, che macina dentro. Inoltre, contiene moltissime sollecitazioni. Non è soltanto un antidoto alle troppo facili idealizzazioni di certi ambienti, considerati sempre, romanticamente, come primigeni e fortificanti. È anche una somma di parabole: sul rapporto padri-figli, come, più in generale, sulle relazioni, e incomprensioni, tra generazioni diverse; sulla pochezza di un modo ben noto di fare politica; sulle insidie delle ambizioni e dei traumi più radicati e irrisolti; sull’ostinata, ma terribile, tendenza a restare pur sempre vincolati a un’idea troppo personale delle proprie origini; sul bisogno, reale, di interlocuzioni più umane e comprensive. La conca buia, poi, è anche il trattamento perfetto per una commedia nera, che funzionerebbe molto bene sia in teatro, sia al cinema. Più di tutto, però, a stupire è lo stile o, meglio, il tono della narrazione. Che si tiene sul registro agro e disincantato della nevrosi; dell’amara consapevolezza, cioè, che solo chi è davvero afflitto o malato sa provare fino in fondo. Ci troviamo, dunque, di fronte a una scrittura molto più studiata ed elaborata di quanto possa apparire: un esperimento di sintonia – tra verbo e argomento – che può dirsi riuscito.

PS: a conferma della lungolatenza delle suggestioni che questo romanzo sa imprimere su chi lo legge, non resisto a esprimere la sensazione che questo Autore abbia una spiccata sensibilità leopardiana. Anche la Natura di Morandini non si arresta, né si accomoda, di fronte a nulla…

Recensioni (di S. Bonazzi; di G. Gala; di G. Montieri; di A. Pisu)

L’Autore racconta il suo libro

Due intervista a Claudio Morandini: qui e qui

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In una sorta di lungo monologo, interrotto solo dalle necessarie cadenze dei pasti e del riposo notturno, un anziano reduce della Guerra Civile americana racconta uno spezzone della sua esperienza bellica. È stimolato da una giovane studentessa universitaria. Lo ha trovato dopo una lunga ricerca: vuole sapere, dalla viva voce di un testimone diretto, se è vero, o meno, che, durante una certa battaglia, l’esercito sudista si è reso colpevole di un orrendo crimine di guerra nei confronti di un ampio gruppo di persone di colore. Di quei negri, cioè, che hanno osato prendere le armi contro i propri padroni. Non è un’intervista facile. Da un lato, infatti, il vecchio Dick Stanton si perde in aneddoti e storie di vario genere, e fatica ad arrivare al punto, che alla fine si rivela comunque in tutta la sua durezza. Dall’altro, poi, l’intervistatrice, che pure proviene dal sud, si sente a disagio, perché capisce di avere radici intrise nella stessa cultura. A leggere i commenti che alcuni lettori hanno lasciato sulle principali piattaforme di vendita online, si resta un po’ spiazzati. Non sono pochi – anche tra coloro che si dichiarano affezionati fans del Barbero storico e saggista – a esprimere una qualche delusione. I motivi della critica, per lo più, sono questi: la trattazione dell’eccidio teoricamente posto al centro della trama arriva troppo tardi; il resoconto in prima persona è prolisso, perché affidato al flusso di coscienza dell’ex soldato; i grandi temi sottesi alla dinamica dello schiavismo e del conflitto socio-economico vengono disciolti nei ricordi rapsodici della voce narrante; etc. 

Ciò premesso, occorre affermare, invece, che Alabama è un testo assai riuscito. Chi, in Italia, volesse studiare la guerra di secessione in modo approfondito non potrebbe che prendersi l’ormai classico (ma equilibrato e assai completo) libro di Luraghi. Chi, viceversa, volesse immergersi in una prova letteraria sottilmente allusiva, ma non meno efficace – se si vuole anche a mera preparazione suggestiva di un successivo lavoro di scavo – dovrebbe sicuramente affidarsi a questo romanzo di Barbero. Che rievoca molto bene un contesto, una memoria, un’abitudine, un tessuto di credenze e di pratiche, facendolo, peraltro, con un andamento faulkneriano, in tutto e per tutto adatto al soggetto. Peraltro l’Autore non è mai indulgente, non segue – in altri termini – le posizioni (discusse, quanto argomentate) di Shelby Foote: in proposito, la lunga attesa dell’episodio centrale, disseminata da digressioni disorientanti, non è altro che un espediente per enfatizzare una climax, un crescente trascorrere all’evento per il tramite dello stratificarsi, via via più evidente e conseguente, suoi presupposti morali e materiali. Ma l’aspetto che più convince è il progredire del turbamento ambiguo della studentessa, con un’intenzione (propria dello scrittore) che vuole indirettamente spiegare anche a noi lettori, contemporanei, e come tali apparentemente lontani da quegli scenari, la genesi incrementale e apprenditiva dei sentimenti e delle azioni collettivi più oscuri e violenti. In definitiva, anche quando si cimenta con il genere del romanzo, Barbero non smette di raffigurare in modo convincente e performativo interi spaccati del passato. Dimostrando, in tal modo, che il suo segreto è una fortissima, e invidiabile, capacità di immedesimazione.

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La signora Janina vive sola in una piccola casa di un villaggio di montagna, non lontano da Kłodzko, al confine tra Polonia e Repubblica Ceca. Ha qualche acciacco, ma è comunque molto attiva. È appassionata di astrologia. D’inverno sorveglia e custodisce alcune abitazioni, utilizzate come seconde case. Insegna anche un po’ di inglese in una scuola vicina e di sera aiuta un suo vecchio alunno, Dyzio, a tradurre alcuni versi di William Blake. Lo scenario può sembrare quieto, e rasserenato, tanto più, dalla costante presenza della Natura. Tuttavia la storia comincia con un evento tragico: il rinvenimento di un cadavere, quello di un vicino di Janina, da lei chiamato Piede Grande. Di lì a poco tocca anche al Comandante della polizia locale, trovato morto in un pozzo. Per quanto Janina cerchi di convincere gli inquirenti che sono stati gli animali i veri autori dei delitti – si sarebbero vendicati delle violenze commesse dai deceduti – le indagini non riescono a condurre ad alcun risultato. Intanto, mentre le stagioni si accavallano, altre persone muoiono ancora, misteriosamente. E Janina – che nel frattempo vive pure un’inattesa avventura… – diventa la prima sospettata. Le vittime, infatti, erano tutte cacciatori, una categoria contro cui proprio la stessa protagonista, che a tutti pare sempre più eccentrica, comincia ad assumere clamorosi e pubblici atteggiamenti ostili. È il perfetto capro espiatorio di una comunità interamente corrotta? O c’è qualcosa di più complicato da scoprire?

Questo romanzo – uno di quelli più famosi della scrittrice vincitrice del Nobel 2018 – si presta a molteplici letture. Lo si può considerare, a suo modo, un manifesto delle concezioni animaliste, che pure, tuttavia, sono portate all’estremo. Tanto che si può immaginare che, almeno in parte, l’Autrice abbia voluto giocare su due piani, mettendo in scena una parabola simile a quella che potrebbe suggerire la nota vicenda di Unabomber. Anche se il finale è diverso, visto che (senza anticipare nulla…) c’è qualcuno che si prende carico, e positivamente, del destino personale della signora Janina. Perché è personaggio che non può non suscitare empatia (non la vedremmo male a prendere un tè con la portinaia de L’eleganza del riccio). In fondo è dura comprendere da che parte stia Tokarczuk. Tanto più che, a rovesciare ulteriormente la prospettiva, è il titolo stesso del libro. “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti”, infatti, è un verso di Blake. È dato senz’altro coerente con qualcosa di cui si racconta nel testo. Però è indubitabile che esso allude direttamente alla grande pericolosità delle determinazioni che si alimentano ai pensieri più profondi… e dunque alla vertigine che questi possono produrre quando diventano ossessioni. E ciò anche quando portano alla luce le contraddizioni e la povertà di molte istituzioni sociali. Il punto è che con i romanzi di questa abilissima narratrice ci si deve semplicemente liberare di ogni ricerca soggettiva di senso. L’Autrice ci conduce, parola per parola, nella sfida irriducibile della realtà e dell’esistenza, che possono insegnarci qualcosa soltanto se abbracciate in tutta la loro complessità.

Recensioni (di S. Ciavolella; di G. Maurovich; di M. Piccone)

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Il mago di Emanuele Trevi è suo padre Mario, famoso psicanalista. E la casa in questione, dunque, è la casa paterna: quella che allo scrittore è rimasta in eredità e che ospitava anche lo studio dove Mario riceveva i pazienti, al di qua di una poderosa scrivania di legno. Emanuele vi si trasferisce, quasi fosse alla ricerca dei segreti di Mario, tanto bonario e tranquillo quanto taciturno, enigmatico e pensieroso. Anche la madre, del resto, glielo diceva: “Lo sai come è fatto”. Giusto per alludere ad una personalità irriducibile. Ad ogni modo, nella casa, i talismani per sintonizzarsi a dovere con lo spirito del mago non mancano: una coperta bucata, quaderni e appunti, l’I King, alcune pietre levigate e, su tutti, una copia di Simboli della trasformazione di Jung, debitamente studiata e spietatamente annotata. L’Autore comincia a leggerla, immergendosi – assieme al padre e allo psicanalista svizzero – nell’osservazione dei prodromi schizofrenici di Miss Miller. Nel frattempo accadono molte cose, piccole eppure significative. Mentre una misteriosa Visitatrice notturna si aggira per le stanze della casa, lasciando segni visibili della sua presenza, la vita di Emanuele viene invasa dalle scorribande della colf peruviana, che gli presenta l’avvolgente Paradisa. La donna, alla fine della storia, lascerà Roma, e così anche la casa. Ma la relazione, per quanto breve e improbabile, consente allo scrittore – come se fosse guidato dall’ispirazione di una figura mitologica – di abbandonarsi e, al contempo, di ripercorrere la giovinezza di Mario, la fuga dalle Langhe, le avventure partigiane, la malattia creativa, l’insegnamento, l’iniziazione alla psicanalisi da parte di Ernst Bernhard. Le abilità narrative di Trevi sono sperimentate e note, specie per la capacità evocativa dello stile. Luoghi e oggetti si animano, stimolano suggestioni potenti e si fanno medium di ricordi, esperienze e cognizioni. Al romanziere riesce, per questa via, un’operazione molto difficile: farsi egli stesso cavia per una traduzione concreta del metodo psicanalitico e per la dimostrazione di quali siano le strade lungo le quali l’io si forma, si orienta e si ritrova.

Recensioni (di M. Belpoliti; di A. De Simone; di D. Matronola; di M. Oliva; di G. Silvano; di G. Simonetti)

Tre interviste a Emanuele Trevi: 1, 2 e 3

Antonio Gnoli intervista Mario Trevi

Luigi Zoja su Carl Gustav Jung

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Francesco “Cesco” Magetti è un militare della Repubblica di Salò. Fa parte della guardia nazionale repubblicana ferroviaria, di stanza ad Asti. Il suo superiore gli ordina di trovare una carta ferroviaria del Messico. Nel pieno del freddo e malinconico  clima di disfacimento totale del febbraio 1944 la consegna suona in modo surreale. Dove mai si potrà trovare una mappa del genere? E Cesco, poi, ha anche un terribile mal di denti. Ad ogni modo la ricerca comincia, a partire dalla biblioteca comunale. Dove Cesco incontra l’enigmatica Tilde, viene a sapere che esiste una Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México e che questo fantomatico libro è in prestito. Da qui in avanti si avvia l’inseguimento di Cesco, la cui storia si accavalla con quella, al fine, tragica di Tilde; con quella, quasi fantastica, di Lito Zanon e del suo amico Mec, costruttori giramondo di reti ferroviarie; con quella di Ettore e Nicolao, strani frequentatori di un altrettanto misterioso night clandestino; con quella di un cartografo samoano trapiantato in Piemonte; con quella degli amici di Cesco, che si sono fatti disertori e partigiani; con quella della burocratica e surreale catena di comando che dal Führer è arrivata fino ad Asti, per disporre la caccia alla mappa ferroviaria; con quella di Steno, che si era promesso a Tilde e che si dà alla macchia; con quella di Gustavo Baez, l’autore del volume tanto agognato; con quella della povera Giustina, giovanissima prostituta, barbaramente condotta alla morte; con quella di don Tiberio, disperato parroco di Roccabianca… L’elenco, con i relativi intrecci, potrebbe continuare. Vi farebbe capolino anche Jorge Luis Borges. Fatto sta che nel vortice dell’Odissea in cui Cesco si ritrova immerso qualcosa scatta all’improvviso, conducendo il protagonista al drammatico, eppure liberatorio, epilogo.

Molto si è detto, e scritto, su questo romanzo (libro-mondo, romanzo totale…), tanto che, sia con il classico passaparola, sia per le molteplici segnalazioni online, è entrato anche nella dozzina dello Strega. È un dato che può sorprendere, perché si tratta di un libro-fiume: oltre 800 pagine, per di più articolate in capitoli dalla lunghezza irregolare, ciascuno dedicato a uno spezzone delle tante vicende che ne irrorano la trama. Non è un romanzo facile, quindi. E non è nemmeno il prodotto di un grande editore, suscettibile di essere spinto nelle case delle persone per la sola forza del marketing e delle reti distributive. Si aggiunga che nelle analisi dei lettori più forti Griffi viene variamente paragonato a Pynchon o a Bolaño: Autori mitici, capaci di conferire nel raffronto l’aura del capolavoro, ma non certo annoverabili tra quelli di più agevole frequentazione. Occorre pazienza e disciplina, virtù oggi rare. Infine c’è un altro fattore potenzialmente esiziale: il libro, spogliato del suo grande apparato narrativo e dell’effetto matrioska ingenerato dalle tante digressioni, racconta una vicenda oltremodo schematica. Un ragazzo trascinato per forza d’inerzia tra le fila della parte sbagliata si imbarca in un’avventura surreale e, proprio in quella corrente, pur commettendo un delitto (spoiler), fa giustizia, anche di se stesso. Il tutto in un itinerario che potrebbe banalmente dirsi di formazione. Insomma, il plot può non avvincere e a tratti le pagine (molte) possono farsi noiose. Qual è, dunque, il segreto del successo? 

Sicuramente gioca un qualche ruolo l’apparenza di libro un po’ underground, scelto da un nome cool (Giulio Mozzi) per la sua collana di nicchia. Anche la veste editoriale può avere le sue ragioni. Ferrovie del Messico, per indubbie motivazioni economiche, è un oggetto leggero, con un’impaginazione distesa, che dà l’illusione di sciogliere le complessità linguistiche e di percorrere il suo periodare ubriacante con una sorprendente velocità. Sicché navigare in questo romanzo, all’atto pratico, è meno complesso di quello che può apparire. Come se i modi del confezionamento cartaceo invogliassero a relativizzarne l’interna prospettiva, sofisticata e iperletteraria, rendendola, al contempo, godibile e meglio afferrabile. Qui si nasconde, già dal punto di vista meccanico, la chiave di volta del volume, ossia la commistione inestricabile tra tristezza e ironia, tra pesantezza assoluta e volatilità, tra orrori e speranze. C’è del Chaplin e dello Charlot, sotto la copertina. Perché a rigore è vero che il libro di Griffi, per argomenti e personaggi, se fosse paragonabile a qualcosa di precedente, andrebbe addirittura comparato a Horcynus Orca di D’Arrigo: opera potente e immaginifica, anch’essa viaggio iniziatico e durissimo, perché sovrastato dall’onnipotenza naturale di un destino cupo e avvolgente. Eppure, diversamente da quella prova, Ferrovie del Messico – anche in virtù dell’evidente e insistito flirt con le suggestioni della migliore tradizione sudamericana – è evasione e farmaco, prova tangibile che di fantasia e invenzione artistica si può dolorosamente guarire. Dunque affaticarsi in una lettura ipnotizzante può, alla fine, piacere? Diremmo di si, specie se comprendessimo che, in questo nostro tempo gelatinoso e giustificante, in cui tutto – ma proprio tutto – può accadere e diventare pure normale, Cesco Magetti è effettivamente uno di noi.

Recensioni (di P. Bianchi; di G. Cortassa; di S. Ditaranto; di A. Galetta; di F.M. Spinelli; di G. Tinelli; di C. Vescovi; di G. Vignanello)

Tre interviste all’Autore: qui, qui e qui.

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Per fortuna che d’estate si trova quasi sempre un Faulkner da leggere. Questa volta è l’ultimo romanzo, dato alle stampe nel 1962, l’anno della morte del grande scrittore. Lo ripropone La Nave di Teseo in una edizione leggibilissima (una rarità: caratteri ampi, spaziature altrettanto ariose, una pagina che scorre e si fa bere con gusto). Di questo romanzo si possono sapere facilmente molte cose: che tra tutti quelli del Premio Nobel di Oxford (Mississippi), è stato a lungo considerato come uno dei meno riusciti; che ha fornito la materia per un film del 1969, con Steve McQueen, a quanto pare anch’esso poco apprezzato; e che ripropone i consueti topics dell’universo faulkneriano (l’epos della contea di Yoknapatawpha, il rapporto tra “bianchi e neri”), in una trama avventurosa e in parte tragicomica, sulle orme dell’Huckleberry Finn di Twain. In effetti la prima impressione può essere proprio questa. Il protagonista è Lucius Priest, che racconta al nipote ciò che gli è accaduto quando aveva undici anni, nel 1905. Cioè quando, assieme a Boon Hogganbeck e a Ned (un meticcio di origine chickasaw e un lavorante di colore), sottrae al nonno (il Padrone) la sua nuova automobile, finendo prima a Memphis, in una casa di piacere, e poi a Parsham, nella fattoria del vecchio Zio Possum, all’insaputa di tutta la famiglia. E restando coinvolto in furti, sortite notturne, corse clandestine di cavalli, scommesse, improbabili storie d’amore: in altre parole, vivendo un’avventurosa e perturbante occasione per diventare adulto. L’apparenza, dunque, è quella di un classicissimo romanzo di formazione, calato nel mondo e nello stile lussureggianti e inconfondibili di un maestro della narrazione.

Fosse solo questo, il libro si distinguerebbe già dal canone cui potremmo ricondurlo. Perché è un plot che Faulkner restituisce in modo magistrale. La voce del ragazzo, i suoi pensieri, il suo percorso psicologico, l’ingenuo trasporto, il divertimento e il disorientamento… Tutto è reso nel modo migliore. C’è piena immedesimazione da parte dell’Autore, il lettore lo sente rapidamente e si immedesima a sua volta. Per chi volesse approfondire, poi, c’è un sofisticato sottotesto, che – come rivela anche la nota del traduttore, in chiusura del volume, rimandando ad un recente studio – coincide con il tema iniziatico delle Metamorfosi di Apuleio. Lucius è come il Lucio di quell’antica storia, ed anche qui è una figura femminile (Miss Corrie come la dea Iside) a farsi mediatrice del rito di passaggio (che è tale anche per Boon Hogganbeck, che di Corrie è innamorato). È senz’altro una prospettiva interessante, che forse spiega anche il mood sotteso alla scelta del titolo: the reivers, i saccheggiatori, i picari che se ne approfittano, ma cui per definizione è concesso superare il confine; non meri ladruncoli, dunque, come invece potrebbe apparire superficialmente, se ci soffermasse solo sulla sgangherata fisionomia dell’improbabile banda che lo scrittore mette sulla scena. Ma più che per simili raffinatezze, il racconto faulkneriano è impagabile per altri fattori, di immediata, istintiva percezione: la caratterizzazione perfetta dei personaggi (la saggezza sfrontata e lo slang di Ned non si dimenticano facilmente, come il temperamento di Miss Reba, la stoica tenutaria); l’umanità assoluta e nobile di alcune immagini (Zio Possum, l’anziano ex schiavo che al cospetto degli altri si staglia come giudice e patrizio); il tratto argutamente pedagogico di certe divagazioni (i passi sull’intelligenza degli animali, tra pag. 152 e pag. 155, sono iconici quanto quelli di un Fedro o di un La Fontaine); il dualismo implicito, quasi cavalleresco, tra eroi ed antieroi (Lucius vs. Otis; Boon vs. Butch). Insomma, con Faulkner si respirano letteratura e vita allo stato puro. È una bella boccata d’ossigeno.

Un breve sommario

Perché William Faulkner?

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Finita l’Università, Matteo è rimasto a Roma. Si mantiene con piccole collaborazioni editoriali ed è appassionato di cose arcane. Un giorno riceve un messaggio sul cellulare: viene convocato, non si sa da chi, in un luogo preciso, al tramonto, sulla terrazza sopra il Tabularium. Da lì assiste a una strana rappresentazione, che si svolge nel foro sottostante, svanendo all’improvviso. Non riesce a comprenderne il senso. Tuttavia in un successivo sopralluogo scopre che sul punto esatto in cui aveva intravisto la misteriosa cerimonia si trova una pietra, che reca scolpite le lettere F C S, iniziali per Fulgur Conditum Summanium. Capisce, allora, che lì era caduto anticamente un fulmine e che l’evento era stato segnato dalla rituale sepoltura del fulmine stesso, secondo una tradizione che i romani avevano mutuato dagli etruschi. Nel frattempo Matteo conosce Silvia, una ragazza che si occupa di beni culturali. Lo coinvolge in una relazione magnetica, capace di evocare strani, realistici fantasmi; ma anche di metterlo sulla strada giusta, perché è Silvia a stimolarne ulteriormente la curiosità. Tanto che Matteo decide di rivolgersi al Prof. Mulini, l’anziano e autorevole docente con cui si è laureato. L’avventura prende presto una piega sempre più enigmatica: a Matteo appare addirittura il suo doppio; poi parte una ricerca metodica delle tombe dei fulmini, per capire se la loro collocazione sia capace di rivelare un senso recondito; si avverte anche che Mulini nasconde più di qualche segreto, specie quando muore e lascia a sua casa e la sua enorme biblioteca (con la sapienza che essa occulta) proprio a Matteo… Altro non si può dire, per non togliere il piacere della lettura a chi voglia sperimentarla direttamente. I nodi verranno comunque al pettine e il protagonista saprà di esserlo stato, sin dall’inizio, anche nei pensieri di qualcun altro.

Il romanzo è del 2017, libro d’esordio dell’Autore e prima puntata di una trilogia (completata dal Libro del sole e dal Libro del sangue). Nel Matteo-personaggio c’è molto, evidentemente, del Matteo-scrittore, che pure si occupa di filosofia, esoterismo e magia in quel di Roma. È una formula che gli consente di scrivere di quello che sa, in un approccio, peraltro, che stimola facilmente immedesimazione. Lo fanno sempre i motivi centrati sull’iniziazione, e qui ve ne sono almeno due (quello del passaggio dalle Marche a Roma, in viaggio col padre; ma soprattutto quello della transizione a una maturità diversa e ad un grado superiore di coscienza). Poi – con la facile scorta della mappa che apre il volume – Trevisani spinge anche all’esplorazione dei tesori della città ipogea e di siti storici e archeologici non sempre al centro dell’attenzione turistica (come la Basilica dei Santi Quattro o la Domus Fulminata di Ostia Antica). Anche questo è qualcosa che suscita curiosità. Ma non c’è dubbio che gli spunti autobiografici e topografici sono solo la miccia per una sublimazione letteraria vera e propria, e ben riuscita. Lo si può dire non tanto per il senso della trama: il mistery è abbastanza schematico, anche dove rimette in gioco una suggestione simile a quella del famoso romanzo di Cazotte, Il diavolo innamorato, con il quale c’è più di un’assonanza (ed è un merito). Il punto di forza è la scrittura: precisa, elegante ed efficacemente evocativa di luoghi e sensazioni; densa, ma a suo modo delicata, non pesante, specie perché ripartita opportunamente in capitoli agili. A tratti si ha l’impressione che sia uno stile del tutto inadatto ad avvincere il lettore nel thrilling di un indagine da compiersi in segreti millenari. È così, in effetti, visto che Trevisani non insegue Dan Brown. Pertanto è giusto che le sue parole siano quelle di un viaggio interiore, di una meditazione che rivela la vera natura – classica in senso proprio – del racconto e dell’intenzione che lo percorre. Pierre Hadot avrebbe apprezzato.

Recensioni (di L. Alvino; di S. Bachechi; di O. Labbate; di M. Manon; di M. Nucci; di C. Taglietti)

L’Autore a Radio Radicale

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Joseph Ponthus, laureato in lettere che cerca di convivere con l’instabilità della sua condizione di insegnante precario, lascia Parigi per seguire la compagna in Normandia. Deve trovare una nuova occupazione e così si affida a un’agenzia di lavoro interinale, che lo fa debuttare nel mondo della fabbrica – alla linea di produzione – e nello specifico in quelli che si rivelano subito i gironi dell’industria agroalimentare. Comincia in uno stabilimento che lavora molluschi e pesce. Orari terribili, pause rarefatte, freddo pungente e odori altrettanto penetranti, con un incombente e costante rischio di infortunio. Stare alla linea, dunque, è come stare in trincea. Non a caso si apre con Apollinaire che scrive dal fronte (“È incredibile tutto quello che riusciamo a sopportare”). Ma che cosa si apre? La forma è quella della poesia. Può sembrare anzi quella di un poema, la saison en enfer del prototipo del lavoratore sfruttato, eppure consapevole, arrabbiato e triste allo stesso tempo. E tuttavia Alla linea si presenta al pubblico come un “romanzo”, un racconto in versi i cui capitoli sono iconiche raffigurazioni di situazioni tipiche: di stordimento, fatica, speranza, intimità e tenerezza familiare e, a tratti (si direbbe), orgoglio e coscienza di classe. Tutto scandito al ritmo delle canzoni di Brel e Trenet. La discesa di Ponthus, peraltro, non ha fine: approda al mattatoio, al lavaggio dei locali imbrattati di sangue e di scarti, al faticoso e pericoloso spostamento di carcasse congelate. 

Se la parola romanzo, a questo punto, ha un senso, ce l’ha per la facilissima e spontanea associazione alle ambientazioni più dure di Zola. Ma il fatto è che non ci troviamo nella seconda metà dell’Ottocento (e nemmeno sul fronte occidentale, sebbene, puntuale, arrivi sempre il solito Apollinaire: “Impossibile da descrivere. È inimmaginabile”). La tragedia individuale e collettiva del lavoro e delle sue estreme spremiture si svolge ai giorni nostri. E le settimane di Ponthus si susseguono eguali, spietate, ma anche disperate e coraggiose, quasi fossero dei tunnel senza soluzione di continuità; spesso all’interinale conviene lavorare anche il sabato, per arrotondare il già magro compenso. Non c’è posto per nulla di diverso. Nulla che non sia la pur difficile scrittura, un atto di resistenza morale e di salvezza interiore. Con la fabbrica come elemento totalizzante, luogo di pena, ma anche occasione di introspezione e di confronto con il proprio essere, mente e corpo. È evidente che questo è un testo per lettori determinati. Perché ci vuole forza vera per sostenere l’efficacia, la verità, la cultura e, in definitiva, la grandezza di una voce come questa. Specie sapendo, per di più, che è l’opera prima, e unica, di un Autore quarantenne che, di lì a poco, è morto per un tumore. Eppure ci troviamo di fronte ad un testo necessario: non solo per la denuncia e la dignità che manifesta; ma soprattutto perché capiamo che ad essere scomparso è un vero, indispensabile poeta, tanto tagliente quanto raffinato e innamorato: di sua moglie, di sua madre, dei suoi compagni, della vita.

Recensioni (di M. Aubry-Morici; di F. Camminati; di M. Moca; di D. Orecchio; di A. Prunetti; di E. Todaro)

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