Coltivo da anni quella che considero una buona abitudine. Se viaggio verso un luogo, tanto più se mi devo impegnare in una qualche attività di riflessione, confronto o discussione critica, cerco di sintonizzarmi con alcuni demoni di quel luogo. Specialmente se figurano tra i protagonisti del dibattito. Così è stato qualche giorno fa, nell’itinerario per un bel convegno che si è tenuto a Cagliari: l’occasione perfetta per leggere un breve, ma intenso, racconto di Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo. È un piccolo capolavoro. Si tratta di una storia di caccia, scritta tra il 1936 e il 1938, come Un anno sull’Altipiano, e pubblicata, però, solo nel 1967. Durante una battuta al cinghiale, gli anziani del gruppo, stimolati dai ripetuti, inspiegabili, errori dei tiratori più abili, rievocano attorno al fuoco una misteriosa vicenda sepolta nel passato. E quasi celebrano, in questo modo, un vero e proprio rito apotropaico, di rispettoso ricongiungimento agli spiriti profondi dei loro avi e della natura più segreta e avvolgente. Tutto funziona in questa prova letteraria, che tiene in equilibrio temi e toni alla Rigoni Stern – citato anche da Lussu nel suo commento introduttivo – con un’atmosfera weird degna di Lovecraft. Il confezionamento complessivo dell’edizione ha meriti ancor maggiori, che vanno oltre l’utilissima digressione antropologica offerta dall’Autore nelle pagine che precedono il racconto. Il volume, nella riedizione di Ilisso, raccoglie, infatti, altri cinque testi: sulla cultura paterna e familiare, sulle origini del Partito Sardo d’Azione, sul futuro dell’isola, sul brigantaggio e su di un episodio puntuale di vita politica e parlamentare. Sono pezzi interessanti, ma, nella sua essenziale incisività, quello di apertura – La mia prima formazione democratica – è formidabile. Perché ricorda le lezioni ricevute dal padre, “un provinciale semplice, senza nessuna cultura”. Eppure capace di comunicare coraggio e integrità, spirito critico e realismo, riconoscimento e rispetto, umiltà e dignità. A dimostrazione che il rapporto con le radici, proprio quando sa farsi veicolo di una trasmissione dialettica e metabolizzata, è capace di custodire le virtù che meglio alimentano ogni stabile progresso.

Condividi:
 

Franco Gavaglià è sindaco di un piccolo comune. Viene da una frazione di montagna, dove è cresciuto in baita, sopportando le difficoltà di una vita, e di una natura, aspra e le continue violenze, terribili, del padre. Soltanto negli anni dell’università è riuscito a realizzare il suo sogno di fuga e a costruirsi uno spazio autonomo di riconoscimento sociale. Ora si avvicina una nuova campagna elettorale e, a quanto dice il suo vice, occorre inventarsi qualcosa di efficace per continuare a convincere gli elettori e contrastare le mire dell’altro candidato, il temibile Ursini. È questa la scena in cui si articola la storia che le stesse parole di Gavaglià percorrono passo dopo passo, nel suo rivolgersi, un po’ pacato e sollecito, ma anche un po’ disilluso, alla figlia Leda. Ed è una storia che, in parte, è buia come la conca in cui il piccolo Franco cercava rifugio, sui monti, lontano dalle angherie paterne; e in altra parte, invece, è semplicemente trista, perché disseminata da un sentimento diffuso di soffocato rancore e di reiterato fallimento. Il fatto è che, al termine di un farsesco e calcolato tentativo di comunicazione elettorale – nel quale il protagonista cerca di ripescare l’anziano padre e farne l’esempio inverosimile di antiche e formidabili virtù, e di un rapporto filiale autentico – il disastro, per Gavaglià, si presenta in tutta la sua inevitabile dimensione.

Quello di Morandini è libro duro, che macina dentro. Inoltre, contiene moltissime sollecitazioni. Non è soltanto un antidoto alle troppo facili idealizzazioni di certi ambienti, considerati sempre, romanticamente, come primigeni e fortificanti. È anche una somma di parabole: sul rapporto padri-figli, come, più in generale, sulle relazioni, e incomprensioni, tra generazioni diverse; sulla pochezza di un modo ben noto di fare politica; sulle insidie delle ambizioni e dei traumi più radicati e irrisolti; sull’ostinata, ma terribile, tendenza a restare pur sempre vincolati a un’idea troppo personale delle proprie origini; sul bisogno, reale, di interlocuzioni più umane e comprensive. La conca buia, poi, è anche il trattamento perfetto per una commedia nera, che funzionerebbe molto bene sia in teatro, sia al cinema. Più di tutto, però, a stupire è lo stile o, meglio, il tono della narrazione. Che si tiene sul registro agro e disincantato della nevrosi; dell’amara consapevolezza, cioè, che solo chi è davvero afflitto o malato sa provare fino in fondo. Ci troviamo, dunque, di fronte a una scrittura molto più studiata ed elaborata di quanto possa apparire: un esperimento di sintonia – tra verbo e argomento – che può dirsi riuscito.

PS: a conferma della lungolatenza delle suggestioni che questo romanzo sa imprimere su chi lo legge, non resisto a esprimere la sensazione che questo Autore abbia una spiccata sensibilità leopardiana. Anche la Natura di Morandini non si arresta, né si accomoda, di fronte a nulla…

Recensioni (di S. Bonazzi; di G. Gala; di G. Montieri; di A. Pisu)

L’Autore racconta il suo libro

Due intervista a Claudio Morandini: qui e qui

Condividi:
 

La signora Janina vive sola in una piccola casa di un villaggio di montagna, non lontano da Kłodzko, al confine tra Polonia e Repubblica Ceca. Ha qualche acciacco, ma è comunque molto attiva. È appassionata di astrologia. D’inverno sorveglia e custodisce alcune abitazioni, utilizzate come seconde case. Insegna anche un po’ di inglese in una scuola vicina e di sera aiuta un suo vecchio alunno, Dyzio, a tradurre alcuni versi di William Blake. Lo scenario può sembrare quieto, e rasserenato, tanto più, dalla costante presenza della Natura. Tuttavia la storia comincia con un evento tragico: il rinvenimento di un cadavere, quello di un vicino di Janina, da lei chiamato Piede Grande. Di lì a poco tocca anche al Comandante della polizia locale, trovato morto in un pozzo. Per quanto Janina cerchi di convincere gli inquirenti che sono stati gli animali i veri autori dei delitti – si sarebbero vendicati delle violenze commesse dai deceduti – le indagini non riescono a condurre ad alcun risultato. Intanto, mentre le stagioni si accavallano, altre persone muoiono ancora, misteriosamente. E Janina – che nel frattempo vive pure un’inattesa avventura… – diventa la prima sospettata. Le vittime, infatti, erano tutte cacciatori, una categoria contro cui proprio la stessa protagonista, che a tutti pare sempre più eccentrica, comincia ad assumere clamorosi e pubblici atteggiamenti ostili. È il perfetto capro espiatorio di una comunità interamente corrotta? O c’è qualcosa di più complicato da scoprire?

Questo romanzo – uno di quelli più famosi della scrittrice vincitrice del Nobel 2018 – si presta a molteplici letture. Lo si può considerare, a suo modo, un manifesto delle concezioni animaliste, che pure, tuttavia, sono portate all’estremo. Tanto che si può immaginare che, almeno in parte, l’Autrice abbia voluto giocare su due piani, mettendo in scena una parabola simile a quella che potrebbe suggerire la nota vicenda di Unabomber. Anche se il finale è diverso, visto che (senza anticipare nulla…) c’è qualcuno che si prende carico, e positivamente, del destino personale della signora Janina. Perché è personaggio che non può non suscitare empatia (non la vedremmo male a prendere un tè con la portinaia de L’eleganza del riccio). In fondo è dura comprendere da che parte stia Tokarczuk. Tanto più che, a rovesciare ulteriormente la prospettiva, è il titolo stesso del libro. “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti”, infatti, è un verso di Blake. È dato senz’altro coerente con qualcosa di cui si racconta nel testo. Però è indubitabile che esso allude direttamente alla grande pericolosità delle determinazioni che si alimentano ai pensieri più profondi… e dunque alla vertigine che questi possono produrre quando diventano ossessioni. E ciò anche quando portano alla luce le contraddizioni e la povertà di molte istituzioni sociali. Il punto è che con i romanzi di questa abilissima narratrice ci si deve semplicemente liberare di ogni ricerca soggettiva di senso. L’Autrice ci conduce, parola per parola, nella sfida irriducibile della realtà e dell’esistenza, che possono insegnarci qualcosa soltanto se abbracciate in tutta la loro complessità.

Recensioni (di S. Ciavolella; di G. Maurovich; di M. Piccone)

Condividi:
 

Quando un Pardini si affaccia in libreria, la lettura è d’obbligo. Perché ci si trova di fronte a un autentico, spontaneo narratore (per altre precedenti letture v. qui, qui e qui). Anche Il valico dei briganti non fa eccezione a questo standard. È la storia di Vlademaro Taddei, un fuorilegge che cresce selvaggio e si forma nei boschi e nei pascoli attorno a Bagni di Lucca e diviene bandito a tutti gli effetti in America, sulla costa del Pacifico, dove emigra per sfuggire alle inevitabili conseguenze di un delitto. Lì si arruola – assieme a Jodo Cartamigli, un conterraneo che pare avere pulsioni decisamente opposte alle sue – in una squadra di guardie armate. Ma le tradisce ben presto, per schierarsi volontariamente con un gruppo di spietati malviventi. Viene iniziato alla più dura vita da criminale ed è catturato da una tribù di nativi, ma superata la durezza di questo apprendistato riesce ad accumulare un ottimo bottino e rientra così in patria. Tra i suoi monti cerca di vivere in modo riservato e decide di fare famiglia, assieme ad Angiolina, dalla quale ha due figli. Eppure l’istinto predatorio non lo abbandona e lo spinge a diventare il leader di una banda di briganti, impegnati in furti e rapine di ogni genere. Riesce a farla franca a lungo. Tuttavia, quando i suoi vengono catturati, processati e condannarti alla ghigliottina, capisce che deve darsi alla macchia. Comincia in questo modo una vera caccia, una sfida di cui sarà co-protagonista Jodo Cartamigli, che da tempo lo stava inseguendo per catturarlo e ucciderlo. La lotta proseguirà senza tregua, sino alla fine.

Si può dire ancora molto di questo romanzo. Ad esempio, sottolineando che ricompare Jodo Cartamigli, eroe di altre avventure western. Che l’Ottocento rimane una delle cornici predilette dell’Autore. O che, nuovamente, come in tutti i lavori di Pardini, ci si trova di fronte a una scrittura che per la sua estrema naturalezza non può che definirsi sorgiva. Tanto da comporre una sorta di sceneggiatura, pronta per un film che soltanto un novello Sergio Leone saprebbe dirigere e che, comunque, interpretato in salsa diversa, appassionerebbe senz’altro anche Quentin Tarantino. A volersi spingere un po’ più in là, dovrebbe riconoscersi che Pardini è il degno erede di un filone glorioso, che è quello di Salgari, e che ha avuto tra i suoi protagonisti, sia pur a suo modo, e con spiccato eclettismo, un grande dimenticato, Gian Dauli. Con questi antenati, Pardini condivide un ingrediente segreto. Gusto per la trama e per la singola scena, per la descrizione della natura e degli stati d’animo, per l’equilibrata ricostruzione del profilo e dell’animo dei personaggi: è questo il propellente, tutto istintivo, che permette a Pardini di far calare il lettore nel bel mezzo delle vicende che racconta, in presa diretta; e di avvicinarsi, dunque, ai suoi importanti predecessori. Poi, certo, qualcuno potrà aggiungere che ne Il valico dei briganti si affrontano questioni che rendono il romanzo ancor più meritevole, visto che vi si intrecciano i grandi temi della povertà e dell’emigrazione, e delle strutturali prevaricazioni della giustizia dei potenti. Il fatto è che ciò che pare interessare veramente a questo scrittore – ciò per cui è doveroso essergli grati – è rappresentare, come in un quadro, la fisica invariabile dei sentimenti e delle singole traiettorie esistenziali che essi agitano, anche quando sono dominate da un destino dannato. Come a dire che il mondo degli uomini, a patto di guardarlo per come esso è, sa darci da solo le più efficaci lezioni.

Recensioni (di M. Baldrati; di D. Bregola; di O. Di Monopoli; di S. Gambacorta)

L’Autore presenta il suo libro

Un’intervista

Condividi:
 

La voce che dà corpo alle poesie di questa raccolta disegna i pensieri di un uomo, pensieri che provengono dalla sua vita e che, però, si soffermano sulla vita in generale, e sul mondo. È un uomo anziano, che sa di essere solo, e che percepisce e soppesa: i suoni del mattino, le sagome nere delle montagne, il potere intrinseco delle parole, le aggressioni del vociare televisivo, il passare degli anni e delle stagioni… Le sue frasi sono pacate, tristi e felici allo stesso tempo, e talvolta ironiche. Di fronte a tutto ciò che incontra, l’uomo alterna riflessioni amare, qualche sorriso e ricordi lontani, quasi cercando momenti di sollievo – un resiliente sollievo – nell’eco di grandi poeti e nell’elogio di ciò che è più piccolo, più laterale, meno appariscente; o più fisiologico, come sono i costumi di un tempo, oggi perduti, o la pura natura delle cose, la più semplice e spontanea. Sembra che tra certe cose e certi costumi vi sia un nesso, uno snodo in cui si custodiscono la verità e l’onestà, una forza che si anima per contrasto: “Mentre i potenti pensano gli affari / (da farsi in altre sedi, non vicino a noi), l’uomo considera il vecchio pentolino / e più lo guarda più lodando ammira” (p. 47). I migliori compagni di quest’uomo, alla fine, non sono gli altri uomini, sono gli animali, la cui sofferenza lo fa star male. Non lo attirano soltanto le creature più domestiche o consuete, il merlo Cantovivo, ad esempio, o il cane incontrato a passeggio in città. Anche un verme gli suscita empatia. E così la betulla, il ciliegio, i vegetali dell’orto, il biancospino, un pino, il tarassaco, un pesco, l’albero di natale. 

Come suggerisce la chiusa della prefazione che introduce questo libro, il mondo descritto da Daniele Gorret è quello migliore che esisterebbe se gli uomini avessero compiuto, à la Borges, un adeguato “abuso di letteratura”. Ciò significa, innanzitutto, che l’Autore di questa silloge – che di letteratura vive per lungo, costante e disciplinato esercizio: ne ha senz’altro “abusato” – è dotato di una speciale ipersensibilità. È una capacità che lo mette facilmente a contatto con la realtà. Che gli consente, come è proprio di un sacerdote di un culto, di sintonizzarsi meglio di chiunque altro con l’essenziale, e di indicare una strada, una via da percorrere per un’esistenza buona. Tanto che a primavera, verso pasqua, pensa di risorgere, nel senso che “gli è lecito sperare: in sogno di tentare / cambio di specie per una notte o due; / farsi albero o fiore o addirittura / ape che impollina, rondine che vola” (p. 21). Si può anche affermare che Gorret è poeta per eccellenza. Il suo verso, per nulla scontato, conduce a un pacato disorientamento, intimo ma quasi filosofico, premessa creativa di interrogazioni profonde come di intuizioni consolatorie. È tanto più vero quanto semplici e ordinarie sono le immagini evocate. Al poeta, d’altra parte, come ricordava anche Orazio, difficile est proprie communia dicere. Ebbene, in Gorret non si avverte alcuna difficoltà. E questa è davvero una bella scoperta.

L’Autore a Il posto delle parole

Condividi:
 

Genly Ai è stato inviato dall’Ecumene – enorme alleanza che riunisce più di ottanta mondi – sul pianeta Inverno, così definito perché interessato da una glaciazione pressoché globale. La sua missione è creare un contatto pacifico e convincere i Getheniani (questo il nome che si danno gli abitanti di Inverno) a far parte di Ecumene. È un compito davvero impegnativo, poiché la civiltà di Inverno è molto singolare e spiazzante. Inoltre, mentre l’inviato ha la fisiologia e la sessualità tipiche delle stesse genti che popolano la Terra, i Getheniani, anche se simili agli umani, in certi periodi possono costantemente virare dal genere maschile a quello femminile. Ai loro occhi, pertanto, l’inviato assume le sembianze di qualcosa di strano, di pervertito. Genly, ad ogni modo, si trova sul pianeta Inverno da diverso tempo. In particolare è sbarcato nel regno di Karhide, uno degli “stati” presenti su Gethen. Pur essendo entrato nelle grazie di Estraven, il ministro più autorevole, potente e vicino al re, non è ancora riuscito a persuadere i suoi interlocutori sulla bontà di un dialogo con l’Ecumene. Le cose, tra l’altro, si mettono improvvisamente male. Estraven viene accusato di tradimento e condannato all’esilio. Genly, allora, si rivolge a un’altro stato, Orgoreyn, rivale di Karhide e dotato di un’organizzazione politica del tutto diversa. Ma anche lì la sua missione rimane ostaggio delle dinamiche di potere interne alla classe dirigente, tanto che Genly viene addirittura catturato e costretto, di fatto, a lavori forzati. Tutto sembra perduto, ma Estraven ricompare proprio su Orgoreyn, salva Genly e lo guida in un’epica e lunghissima traversata sul ghiaccio. Comincia un viaggio avventuroso, che costituisce il vero centro del romanzo e, in una sorta di diario in cui le voci dei due protagonisti si alternano, conduce all’epilogo della storia e fa da sfondo a un processo di reciproca e profonda comprensione. Al termine, gli emissari di Ecumene sbarcheranno a Karhide e Genly Ai racconterà le gesta di Estraven alla famiglia e alla tribù che, dopo la condanna del re, lo avevano bandito.

Si tratta di uno dei libri più famosi di una celebrata “maestra” della letteratura di fantascienza. E non c’è dubbio che contribuisce a dimostrare il motivo di tanta autorevolezza. La Nota dell’autrice, che fa da schietta e lucida premessa, contiene una dichiarazione di poetica: “La fantascienza non prevede; descrive”. Il senso di tale proposizione lo spiega Nicoletta Vallerani nella sua Postfazione: “È  questo che insegna la creazione immaginaria: ipotizzare mondi che potrebbero insegnarci qualcosa sul nostro”. Da un lato, dunque, l’universo di questa scrittrice è – con rigorosa attinenza al mainstream del genere letterario in questione – inequivocabilmente tutto inventato, e lo è meticolosamente. La tecnica di affiancare alla storia vera e propria brevi capitoli con la narrazione di leggende o miti della tradizione getheniana amplifica la sensazione di immersione in una realtà così lontana, eppure quasi afferrabile. Nonostante ciò, il racconto, remotissimo, e collocato per lo più in un tempo futuro ma irriconoscibile, esprime situazioni che non riescono mai ad esserci veramente estranee. La missione di Genly Ai e il suo incontro con Estraven ci parlano direttamente. Svelano, in un crescendo, che nella relazione intersoggettiva le differenze si abbattono e la virtù, il coraggio, l’onore, la paura ci rendono tutti più simili di quanto non possa sembrare. Più di tutto, Le Guin dimostra che – usando sempre le parole di Nicoletta Vallorani – “le categorie che intendiamo come determinanti non lo sono affatto, ed è possibile progettare una cultura che da esse prescinda”. È questo l’umanesimo assoluto della scrittrice americana. Che, sintomaticamente, si distingue dalle trame di palazzo e si alimenta nel confronto con le potenze molto più estreme della natura. Non c’è da dubitare che, nel 1969, anno della sua pubblicazione, questa prospettiva significasse qualcosa di rivoluzionario, specialmente per quelle che oggi si definiscono pacificamente questioni di genere. Letto oggi, La mano sinistra del buio – come è tipico della migliore letteratura – espande la propria forza anche oltre, in numerose e proficue direzioni.

Recensioni (di P. Matarazzo; di M. Morellini; di M. Tagliaferri)

Worlds of Ursula K. Le Guin (di A. Curry)

I libri di Ursula K. Le Guin (da esquire.com)

Condividi:
 

Il protagonista di questo romanzo è l’ultimo rampollo dei Cimamonte, un’antica casata nobiliare. È un giovane adulto che ancora non sa che cosa fare veramente della sua vita. Decide di vendere il palazzo avito e lasciare la città di Berua. Si trasferisce a Vallorgana, la vicina località montana da cui la gloriosa storia di famiglia ha preso le mosse nel XIII secolo e in cui si trova ancora una grande villa. La gente del paese lo chiama Duca, anche se a rigore il suo titolo sarebbe quello di Conte. Per quanto cerchi un dialogo diretto e ispirante, e liberatorio, con la natura che lo circonda, il Duca è inquieto, attratto com’è, in modo irresistibile, dalle vicende della sua stirpe. Da un lato questo sentimento è risvegliato dalla lettura assidua di vecchie carte che sono stipate in un misterioso studiolo e di una suggestiva Chronica, che ripercorre alcuni secoli di avventure, soprusi e disgrazie dei Cimamonte. Ma, oltre a ciò, nel Duca la tensione, quasi violenta, a riscoprirsi degno e risoluto discendente di una stirpe mai domita è risvegliata anche dalle temibili manovre di Mario Fastreda, un allevatore particolarmente influente. A nulla vale la presenza saggia di Nelso Tabiona, fido e abilissimo boscaiolo. Né pare determinante, almeno in prima battuta, l’apparizione della bella e intelligente Maria, che pure stimola, nel Duca, sensazioni insperate. Fastreda, del resto, condiziona e controlla tutto il paese, e ha occupato proditoriamente una parte dei boschi dello stesso Duca. È così che si scatena rapidamente una vera e propria faida, in un crescendo di emozioni ed eventi, di macchinazioni e accuse, di scoperte e colpi di scena, fino a quella che si potrebbe definire l’illuminazione conclusiva: che dà ragione di un antagonismo apparentemente inspiegabile e apre la via, per il Duca, ad un futuro che è tanto segnato quanto definitivamente scelto.

Matteo Melchiorre è, da tempo, un autentico aedo dei luoghi, della loro energia pedagogica. Sa quanto siano importanti, se non – addirittura – esistenzialmente decisivi. Il suo percorso di scrittore – da La banda dell’autostrada Fenadora-Anzù a La via di Schenèr fino a Storie di alberi e della loro terra (il testo più bello) – lo prova appieno e Il Duca ne è una conferma ulteriore, forgiata, questa volta, in una forma letteraria forse più riconoscibile e meglio spendibile. Occorre chiarire subito che, a rigore, proprio la forma letteraria in questione penalizza un po’ il valore del libro. Ha la tipica progressione lineare che induce il lettore ad attendersi evoluzioni e sorprese, che però sono, rispettivamente, lente e talvolta prevedibili (come lo è quella che porta il Duca a capire chi è veramente Fastreda: già prima della metà del libro, il sospetto emerge di forza propria). Nonostante ciò Il Duca è romanzo che si distingue per tre virtù. La prima è la lingua. Non vi sono invenzioni particolarmente eclatanti, ma l’incrocio tra la costanza di un tono assai compassato e stilisticamente nobile e la diffusa contaminazione con espressioni italianizzate della tipica parlata della Valbelluna (il luogo dell’Autore) esalta il tempo magico del racconto. La seconda virtù è il modo con cui si propongono il bosco, la montagna, gli elementi (come la tempesta Vaia, ad esempio). Non sono idealizzati, sono rappresentati nella loro normale ambivalenza: se diventano riferimenti, per così dire, morali, ciò accade per via delle interazioni – positive o negative – cui uomini e donne possono dare sostanza. La terza virtù de Il Duca è che la sua pubblicazione conclama di per sé il consolidamento, nel salotto buono dei bestseller, di una famiglia di solidi scrittori veneti di terra (come Matteo Righetto, Paolo Malaguti e, per l’appunto, Matteo Melchiorre), che sul motivo delle radici sanno costruire i più vari percorsi narrativi, senza mai allontanarsi dallo spirito che li muove.

Recensioni (di R. Barilli; di L. Oliveto)

Condividi:
 

Tra aprile e maggio di quest’anno sono stati pubblicati due piccoli libri, che potrebbero dirsi quasi gemelli: Nei luoghi ideali per la camporella di Davide Bregola, uscito per Avagliano; e Pane e noci di Lucio Montecchio, edito da Ronzani. In entrambi i casi ci si trova di fronte a raccolte di prose brevi. Ciascuna – a volte si tratta di un racconto, a volte di un’istantanea di situazioni o di luoghi presenti o passati – è un esercizio di rabdomanzia sentimentale, una chiave d’accesso per un mondo di ieri, che gli Autori rievocano oggi al fine di esprimerne e rilanciarne un senso complessivo, e di farne motivo ispiratore per riflessioni di più ampio respiro. Il mondo di Bregola è quello della Bassa par excellence, tra Emilia, Lombardia e Veneto, dove aggirarsi alla ricerca delle “potenze remote” che “facevano crescere”: ricordi di avventure di ragazzi, voci di testimoni che furono (contadini e operai), argini, strade, fossi, in cui “c’era tanta di quella roba da stare lì all’infinito”. Con Sermide (Leonessa del Po) a fungere da epicentro, fisico, storico e psicologico, convergenza geografica di più territori e dialetti, come di rivolgimenti sensazionali. Perché alla magia, e all’epica, del fiume e delle sue genti, e delle loro piccole, grandi storie, si è sostituita quella dell’hangar, della mecca selvaggia della produzione e della logistica, ammantata da una lunga e irrimediabile stagione di abbandoni.

Il mondo di Montecchio non è così diverso. Anche qui si parla di una “bassa”, quella padovana. E anche qui aleggia un tono che solo in apparenza potrebbe dirsi ambiguamente nostalgico, e che, come nell’altro volume però, non è ripiegamento, ma suggerimento di restituzione (parola che offre anche il titolo ad uno dei capitoli). Oltre a far riemergere luoghi, storie e usi di una civiltà paesana e biologica – che, a ben vedere, non è troppo lontana, visto che i nostri diretti progenitori le sono appartenuti – Pane e noci segna anche le tappe, individuali e collettive, della traiettoria straniante che, dagli anni del boom in poi, è stata impressa per effetto di un’industrializzazione onnivora. A legare i due testi, inoltre, non c’è soltanto una fenomenologia critica del presente. C’è pure molta qualità espressiva. Da questo punto di vista Bregola non stupisce. Chiunque abbia letto Fossili e storioni sa della grande abilità suggestiva, della malìa, di uno scrittore che padroneggia tutti i ferri del mestiere, e che sa analizzare ipnotizzando (come in Pozzo o Argini o Fossi) e commuovere raccontando (come in Acquaragia o in Cavie), e infine anche inveire (come in Hangar), a mo’ di tragica, ma necessaria, maschera teatrale. Montecchio – che tuttavia scrittore propriamente non è, pur essendo dotato di uno specifico canale di comunicazione cosmica, per nobile e tecnico mestiere – colpisce in alcune pagine narrative molto felici (nella spontanea e semplice invenzione di Gelso e Liana, ad esempio, o in El Beljo o, ancora, in Zia Luisa) ovvero in pezzi tanto brevi quanto vitali (come nei poeticissimi Un po’ (di buonsenso) e Orologio agreste, che paiono quasi filastrocche). Certamente Nei luoghi ideali per la camporella e Pane e noci si accreditano quali guide, affatto scontate, di ri-orientamento ecologico e morale. Ma il loro valore aggiunto – ciò che davvero non guasta – è che in quest’estate caldissima si rivelano come estratti rinfrescanti e rigeneranti di semplice e buona letteratura, da assumere lentamente, sotto un albero o ai bordi di un orto.

Condividi:
 

L’io narrante di questa nuova storia di Pardini è un giornalista, che vive in presa diretta lo strano e progressivo aggravarsi di una drammatica crisi, prima locale e poi globale. Un misterioso uccello, di specie mai vista, attacca gli uomini, per cavarne gli occhi e cibarsene. L’Accecatore – così viene presto chiamato – colpisce chiunque e ovunque, senza preavviso. In tutto il mondo le autorità cominciano a prendere alcune misure, tra cui quella di obbligare i cittadini a indossare speciali occhiali protettivi. Le ipotesi sull’origine del flagello sono molte, le più disparate, ma lungi dal risolversi il caso si complica. Le istituzioni e i loro gangli più segreti si attivano e si fanno anche minacciosi, preoccupati più di salvare se stessi che le persone. Agli attacchi dell’Accecatore, inoltre, si aggiungono le incursioni terribili di altri uccelli, che non risparmiano nulla e nessuno, e che paiono riprodursi costantemente e inesorabilmente. Sono dei veri e propri Assalitori, dinanzi ai quali si cerca di proteggere case, persone e spazi pubblici con reti metalliche e inferriate. Laddove risulti necessario per salvare gli uomini colpiti da improvvisi assedi, non si esita a sacrificare bovini, maiali o animali domestici, appositamente raccolti per ogni evenienza. Anche il narratore, alla fine, barricato nella sua abitazione, deve fare i conti con l’insolita e fatale mostruosità: “Gli uccelli hanno cominciato ad entrare, li ho di fronte, mi sono a petto. Debbo impugnare le armi. Mio Dio, aiutami”.

A leggere L’Accecatore non si può non pensare al Covid-19, anche se le immagini evocate da Pardini hanno un tenore molto più biblico di quello che si può registrare nelle cronache quotidiane di questi ultimi due anni. Anziché letterario, tuttavia, l’accostamento che riesce immediato è cinematografico: L’Accecatore richiama inevitabilmente alla memoria Gli uccelli di Hitchcock, con il duplice senso di inspiegabile catastrofe e crash psicologico che sa comunicare quel famoso film. Ma con una certa differenza, non secondaria. Il masterpiece del maestro del brivido poggia tutto sulla non razionalizzabilità di un evento, sulla rappresentazione di qualcosa di letale, crescente e suscettibile di farci letteralmente impazzire. Il romanzo di Pardini, invece, aggiunge qualcosa. Mette innanzitutto in scena un processo di tragico adattamento collettivo, in cui la serietà del rischio non sembra fronteggiata in un rigurgito di ritrovata coralità sociale, risultando piuttosto ribaltata su di una serie di iniziative variamente autoreferenziali e per ciò solo insufficienti. In tale quadro, di sproporzionata ed egoistica frammentazione, il protagonista-narratore è destinato a ritrovarsi solo, fino alla fine, come sono condannati ad esserlo tutti, soprattutto quando la natura si dimostra nella sua veste di forte e implacabile matrigna. Eppure in Pardini è sempre l’uomo ad essere manchevole. E in effetti, anche in quest’ultima prova – che Pequod ha il merito di seguire, sia pur con qualche piccolo difetto di editing – è implicito un dolente richiamo alla necessità, tanto più in situazioni di emergenza così complessa, di riscoprire un’essenziale, e animale, spirito di comunità di specie. L’alternativa è la folle, impari e disperante lotta individuale.

Una recensione (di B. Di Monaco)

Un’intervista all’Autore

Un ritratto di Pardini (di D. Bregola)

Condividi:
 

Simon Sunderson è un forte e dedito bevitore, assomiglia moltissimo a Robert Duvall ed è un ex poliziotto del Michigan, fresco di pensione. Decide di dare la caccia ad un ambiguo santone, il Grande Capo, che si sposta di stato in stato e si fa chiamare in molti modi, anche Re Davide. Sunderson sospetta che questo personaggio approfitti della sua setta per abusare di ragazze adolescenti, ma gli mancano le prove decisive. Ne segue le tracce fino in Arizona, dove si reca per andare a trovare la madre ultra-ottantenne. Si fa aiutare da Mona, una giovane hacker che abita accanto a lui e che gli sollecita sensazioni contrastanti: da un lato, ne è irresistibilmente attratto; dall’altro, prova sentimenti paterni. Sunderson, infatti, dopo il divorzio da Diane, è rimasto solo, ed è costantemente in cerca di avventure e di relazioni umane più o meno solide. Le uniche cose che paiono dargli equilibrio sono la pesca al salmerino, le lunghe camminate nella natura più selvaggia e la compagnia dell’amico Marion, che fa il preside di una scuola ed è di origini indiane. La cultura e le tragiche vicissitudini dei nativi americani hanno sempre affascinato Sunderson, che ha un passato di brillante laureato in storia. Ora ritiene che queste conoscenze gli possano essere utili per il caso, e che – complici le suggestioni prodotte dallo studio di un fortunato saggio accademico: Sunderson acquista e legge molti libri – lo possano aiutare a capire il sincretismo religioso e la psicologia distorta di Re Davide e dei suoi accoliti. Proprio qui si manifesta il vero cuore del romanzo e della ricerca di Harrison. La detective story è solo un pretesto, destinato a sciogliersi tra vagabondaggi, piccole peripezie e qualche intermezzo erotico, con un epilogo tanto scontato quanto casuale e addirittura goffo. Quello che conta, invece, è il viaggio, il disorientamento, con la dinamica autoriflessiva generata nell’anziano protagonista e nella sua lotta con i fantasmi personali e con quelli della nazione bianca. Sunderson-Harrison fa i conti con la vecchiaia, con la sua biografia e con quella del Paese, e così facendo si immerge e si perde nel paesaggio e si spoglia del proprio io, cercando di mettersi in contatto con le radici dell’America per integrarsi in un ordine spontaneo e istintivo. La caccia all’uomo, quindi, diventa una caccia rituale, iniziatica, animata anche da simboliche opposizioni letterarie: tra una consolidata immagine posticcia (il mito suggestivo ma artefatto dei Classici americani di D.H. Lawrence) e un’esperienza di fiduciosa adesione alla natura primigenia e avvolgente delle cose (seguendo i passi di Gary Snyder). Questo Harrison è lo stesso di Ritorno sulla terra. Chi ha amato quelle atmosfere, amerà mettersi anche sulle orme del Grande Capo.

Recensione (di P. Dexter)

Un profilo dell’Autore

Condividi:
© 2024 fulviocortese.it Suffusion theme by Sayontan Sinha