Coltivo da anni quella che considero una buona abitudine. Se viaggio verso un luogo, tanto più se mi devo impegnare in una qualche attività di riflessione, confronto o discussione critica, cerco di sintonizzarmi con alcuni demoni di quel luogo. Specialmente se figurano tra i protagonisti del dibattito. Così è stato qualche giorno fa, nell’itinerario per un bel convegno che si è tenuto a Cagliari: l’occasione perfetta per leggere un breve, ma intenso, racconto di Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo. È un piccolo capolavoro. Si tratta di una storia di caccia, scritta tra il 1936 e il 1938, come Un anno sull’Altipiano, e pubblicata, però, solo nel 1967. Durante una battuta al cinghiale, gli anziani del gruppo, stimolati dai ripetuti, inspiegabili, errori dei tiratori più abili, rievocano attorno al fuoco una misteriosa vicenda sepolta nel passato. E quasi celebrano, in questo modo, un vero e proprio rito apotropaico, di rispettoso ricongiungimento agli spiriti profondi dei loro avi e della natura più segreta e avvolgente. Tutto funziona in questa prova letteraria, che tiene in equilibrio temi e toni alla Rigoni Stern – citato anche da Lussu nel suo commento introduttivo – con un’atmosfera weird degna di Lovecraft. Il confezionamento complessivo dell’edizione ha meriti ancor maggiori, che vanno oltre l’utilissima digressione antropologica offerta dall’Autore nelle pagine che precedono il racconto. Il volume, nella riedizione di Ilisso, raccoglie, infatti, altri cinque testi: sulla cultura paterna e familiare, sulle origini del Partito Sardo d’Azione, sul futuro dell’isola, sul brigantaggio e su di un episodio puntuale di vita politica e parlamentare. Sono pezzi interessanti, ma, nella sua essenziale incisività, quello di apertura – La mia prima formazione democratica – è formidabile. Perché ricorda le lezioni ricevute dal padre, “un provinciale semplice, senza nessuna cultura”. Eppure capace di comunicare coraggio e integrità, spirito critico e realismo, riconoscimento e rispetto, umiltà e dignità. A dimostrazione che il rapporto con le radici, proprio quando sa farsi veicolo di una trasmissione dialettica e metabolizzata, è capace di custodire le virtù che meglio alimentano ogni stabile progresso.

Condividi:
 

François è un abile e affermato chirurgo di mezza età. Figlio a sua volta di un apprezzato medico di paese, è l’azionista di controllo di un’importante clinica. Ama passare molto tempo nella avita casa di montagna, al confine tra Francia, Svizzera e Italia. Lì può darsi al suo hobby preferito, la caccia. La storia – non per caso dunque – comincia dal momento in cui François, dopo una posta assai lunga e impegnativa, ha finalmente nel mirino un cervo maestoso. Riesce solo a ferirlo. Lo insegue, ma non lo finisce: lo carica nel suo pick up, ancora vivo, per portarlo a casa, curarlo e liberarlo. Questa è la base di partenza per una vicenda che viene raccontata in quattro parti. Le prime tre sono ciascuna l’approfondimento progressivo dell’altra. Scopriamo, passo dopo passo, che il figlio di François, consulente finanziario, è passato a trovarlo, e che, però, se ne vuole andare presto, per raggiungere la compagna, un’affermata modella. La moglie di François – avvinta da sempre in una totale venerazione del figlio e in una altrettanto ambigua tendenza negativa nei confronti della figlia – si trova in un convento per un ritiro spirituale, dal quale tuttavia si allontana senza avvisarlo, in preda ad una delle sue consuete crisi. Nel frattempo la figlia, che da qualche giorno è nei pensieri di François, piomba all’improvviso, con la prima neve dell’anno, alla casa di montagna: è accompagnata da Loïc, il suo misterioso compagno, che, proprio mentre arriva, spara al cervo che François aveva accudito, uccidendolo. Loïc, peraltro, è gravemente ferito, abbisogna di un intervento urgente e François, su richiesta della figlia, prova a tamponare la situazione. Ma è evidente che i due sono nei guai, che sono seguiti da qualcuno che intende eliminarli ad ogni costo e che Loïc, in particolare, è una figura quanto mai equivoca e spregiudicata. L’accelerazione sarà repentina e il protagonista si vedrà presto travolto, con tutto il suo mondo, da rivelazioni sconvolgenti, e risucchiato in un incubo sempre più intenso. Verrà gettato in una inattesa fuga nel bosco, su cui si chiude, nella quarta e ultima parte, tutto il racconto.

Di questo libro qualcuno potrebbe dire ciò che di solito si pensa di molti classici film francesi: che sono troppo lenti e “psicologici”. È un’opinione che la scrittura dell’Autore – nella sua insistita esattezza descrittiva e nell’incedere ossessivamente autoanalitico che conferisce ai pensieri di François – rischia di incoraggiare. Tuttavia, a leggerlo con la giusta concentrazione, e lasciandosi trasportare, il romanzo può stimolare l’idea della sceneggiatura ideale per un thriller ben più movimentato, con Jean Reno nelle parti del medico protagonista e Vincent Cassel nel ruolo di Loïc. C’è una tensione fortissima nella narrazione, una forza che in un eventuale progetto cinematografico non potrebbe che riflettersi nella scelta dei volti più risoluti del cinema d’Oltralpe. Eppure anche questa è un’impressione sbagliata. Non che non potrebbe funzionare, ma sarebbe un altro film, mentre l’Autore ne vorrebbe uno ancora diverso. Il centro della storia non è il colorito thriller che la trama dimostra di assumere nella sua progressione: è il crollo di un’intera esistenza e di un quadro familiare affetto da patologie di più lungo periodo. A François, sbattuto violentemente in una spirale che mai avrebbe sospettato di percorrere, verrebbe da dire, forse banalmente: “Si raccoglie quanto si semina”. Ciò che illustra Lang, però, è tanto più sottile. Se a François riesce di curare meticolosamente e accudire il cervo che egli stesso ha ferito, riprendere le redini di un arido e scostante discorso familiare, anch’esso colpito ab origine, è operazione che gli risulta ormai inaccessibile. È questa medesima malattia, in fondo, ad essere il primo antecedente causale della morte del cervo miracolosamente guarito. Quindi anche l’apparente purezza della natura – che è il luogo della redenzione di François, nobile ed esperto (ex) cacciatore – non può resistere al guasto affettivo che l’uomo ha compiuto. La conclusione non è completamente tragica: l’efferatezza generata dagli eventi, e respinta con pari violenza dal protagonista, apre la via del bosco, dell’ignoto che disorienta; di un inseguimento che – senza che nulla sia garantito – offre la speranza per ricominciare, sia pur da zero, e creare nuovi legami.

Una recensione (di A. Pisu)

Condividi:
 

Ad aprire il lungo racconto in cui si snodano le oltre 550 pagine de Il figlio è la voce del centenario Elli McCullogh, registrata a futura memoria nel 1936. Per tutti è “il Colonnello”, in Texas una figura quasi mitologica, il capo riconosciuto di un clan familiare altrettanto famoso, ricco e temuto. La sua è la storia delle origini, del tempo in cui è stato rapito bambino da una banda di indiani comanche, delle tante terre di cui è entrato in possesso e di come ha costruito la sua immensa fortuna. Questa voce si alterna alla narrazione di ciò che nel 2012 ricorda l’anziana pronipote Jeanne Anne, colta negli ultimi istanti della sua vita. Si ripercorrono, così, in un susseguirsi di flashback, le esistenze di altri personaggi, ma anche l’educazione solitaria e l’apprendistato sentimentale di una donna di successo, destinata a guidare la florida azienda dei McCullogh dall’era del bestiame a quella del petrolio. Jeanne, tuttavia, è ultimo baluardo di un ceppo che è andato via via indebolendosi e che ha maturato ormai la certezza di scomparire. Alla voce del Colonnello e alla storia di Jeanne si frappongono, come un fastidioso contrappunto, anche numerosi estratti, presi tra il 1915 e il 1917, del diario di Peter, il terzo figlio di Elli, la mela marcia o, per meglio dire, “la Grande Onta”. Perché Peter, in effetti, è sempre stato del tutto estraneo al nerbo della sua stirpe, incarnandone la coscienza critica, lo scrupolo mai assimilato. Proprio in Peter si deve ravvisare l’incubatore del seme che causerà la naturale estinzione della splendida progenie. Questo verrà dal mondo dei morti e dei vinti, quasi per un’insopprimibile inclinazione, per suggellare tragicamente il superamento di un’epopea familiare a lungo ritenuta invincibile e per riaffermarne paradossalmente tutti gli agghiaccianti presupposti.

MeyerIl figlio porta con sé il fascino violento e avventuroso della Frontiera, della leggendaria fondazione del Texas, delle lotte per i pascoli e dei conflitti con i nativi, con i messicani e con la più antica proprietà ispanica, della Guerra di Secessione e della costituzione della potente oligarchia terriera che saprà capitalizzare le scoperte tecnologiche della fine del XIX Secolo e che condurrà gli Stati Uniti nella battaglia mondiale per le risorse petrolifere. Soprattutto, però, questo romanzo mette in scena l’essenziale fisiologia di un sopruso socio-culturale, di una conquista che non si è posta alcun limite e che, come tale, ha formato la dura e spietata spina dorsale di un intero carattere nazionale. Le parole di Toshaway, guerriero comanche, sono eloquenti: “Non sono per niente pazzo. Pazzi sono i bianchi. Vogliono essere ricchi, proprio come noi, ma non ammettono a se stessi che ti arricchisci solo a spese degli altri. Pensano che quando non vedi le persone che stai derubando, o non le conosci o non ti somigliano, non è proprio come rubare”.

Ma Il figlio va anche oltre. La sua, infatti, è una sferzante condanna dell’etica individualista ed egoista che ha forgiato un certo spirito nordamericano, di una fame nella cui sfrenata ambizione si devono intravedere sia le ragioni di successi imprenditoriali tanto significativi, sia le cause di un imminente e inarrestabile declino. In quest’ottica si può affermare che Meyer ha voluto essere senz’altro epico. Sarebbe sbagliato, tuttavia, paragonarlo – come pure molti fanno – a Faulkner o a McCarthy. Meyer è molto più situato, molto più statunitense, molto meno vicino all’afflato profondamente universale degli altri e più autentici classici, che pure hanno un’indiscutibile base territoriale di partenza. Ciò non significa che Il figlio non sia un’opera di valore; tutt’altro. Forse, a tratti, Meyer si può confondere addirittura con Steinbeck. E forse qualche spezzone sa anche di Jack London: non certo, però, di quello di Zanna Bianca e dei racconti del Grande Nord, bensì dell’altro London, e cioè di quello dell’impegno socio-politico, arricchito, in aggiunta, da un pizzico di Dickens. La sua prospettiva, dunque, pur risultando antropologica e psicologica, ci sembra prevalentemente confinata, e il suo scopo dichiaratamente pedagogico e, a suo modo, diversamente patriottico. Perché se il cittadino americano continuerà a credere che fagocitare i suoi simili sia indispensabile – questa è la morale – non potrà che perire della stessa drammatica sorte.

Recensioni (di Caterina Bonvicini, di Roberto Concu, di Francesco Longo, di Luca Crovi, di Livia Manera, di Antonio Scurati, di Silvio Bernelli)

Altre recensioni in english (dal sito dell’Autore)

Tre film (a mo’ di esempio) sull’epopea texana: La valle dell’Eden (1955), Il Gigante (1956; è citato anche nel romanzo…), Comanche (1956)

Condividi:
 

Non lontano da Fort Kent, nel Maine, in una baracca le cui pareti interne sono foderate da 3282 libri lasciatigli in eredità dal padre, vive Julius Winsome (nomen omen…), in completa solitudine. È sempre rimasto lì, in compagnia del fuoco della stufa, del tè e dell’aiuola di fiori che coltiva di fronte all’ingresso. Ama ripassare le parole che ha imparato dalle opere di Shakespeare. Da un po’ di tempo ha anche un grande amico, il suo cane Hobbes. Un pomeriggio, però, alle soglie della stagione più fredda, mentre è assorto nella lettura, Julius sente uno sparo. L’istinto gli dice di uscire e di richiamare Hobbes, che tuttavia non si fa più vedere. Il presentimento si fa ansia e diventa presto certezza: qualcuno ha ucciso Hobbes. Chi è stato? Chi ha potuto compiere un gesto simile? Julius comincia ad interrogarsi, a cercare qualche spiegazione, a battere i boschi circostanti. Nelle sue parole – perché è Julius in prima persona a raccontare la storia – impariamo a conoscerlo meglio, a capire le ragioni del suo affetto per il cane, ad apprendere le vicende lontane che, forse, hanno portato il padre e il nonno a ritirarsi in quei luoghi. E così, allo stesso tempo, assistiamo alla sua lenta e cosciente metamorfosi, che lo porta a condurre una caccia fredda e spietata, eppure naturale, quasi scontata e inevitabile, fino all’epilogo più drammatico.

In questa rapida ricostruzione mancano alcuni tasselli, quelli centrali, che portano il nome di Claire e Troy, e che possono contribuire ad aiutare il lettore a dare un significato, il più comune e comprensibile, alla parabola di Julius. Si tratta di scoprirlo, nella sua banalità, tra le pagine del libro. Ma l’impressione generale è che in questo breve romanzo lo scrittore irlandese sia riuscito in modo estremamente efficace a fondere in un’unica voce, quella del protagonista, l’imprevedibile sintetizzarsi di umori, emozioni e temi diversi. E che la banalità, dunque, sia solo apparente. È come se il nostro Winsome fosse il prodotto eccentrico e anche paradossalmente amabile di una catena sinergica di fatti violenti, nel passato lontano e in quello più vicino. Julius, peraltro, è quasi saggio, è dotato di una consapevolezza profonda, è capace di stupore e di affetto, si è abbeverato – sul modello del buon selvaggio – al migliore distillato della cultura anglosassone e suscita una strana simpatia, che però, alla fine, ci sorprende, perché i suoi atti non sono certo espressione di un sano equilibrio. Nessuno, in quest’opera, si salva: né il solitario, che non è mai immune da qualsiasi forma di corruzione; né, tanto meno, la terribile normalità, storica e attuale, che giustifica e rende nobile quello stesso isolamento, a patto che si riesca a frapporvi una giusta distanza. In definitiva, Donovan si dimostra in grado, da un lato, di interpretare al meglio il profilo più classico della pazzia, dall’altro, di provare che questa pazzia non è sempre come ce la immaginiamo: può coltivare, infatti, anche i traguardi più dolci della nostra sensibilità e indicarci i limiti di tutto quello che pensiamo essere sano. Non è un romanzo di cui, in Italia, si sia parlato molto; merita, invece, grande attenzione, non solo perché riesce a commuovere, ma anche perché rivela un Autore di statura.

Recensioni (di Michael Faber, Christoph Schröder, Diana Evans)

La home page di Gerard Donovan

Un’animazione liberamente tratta dal romanzo

Condividi:
 

È rimasto a riposo per molto tempo, questo libro; prima di scrivere queste osservazioni, ma anche prima della sua stessa lettura. La ragione ha un nome, anzi, un titolo: Stoner. Che è il primo dei romanzi di Williams tradotti da Fazi per il pubblico italiano, con un successo che ha motivato l’editore a creare un vero e proprio blog. Il fatto è che si tratta di uno dei romanzi intoccabili per eccellenza, perché sa suscitare un turbamento che poche opere riescono a risvegliare. Certo, la storia di quel normalissimo professore universitario è lontana anni luce da Butcher’s Crossing, che sin dal principio assume la forma di un Bildungsroman ambientato nel più classico Far West. Ma è tutta apparenza, visto che anche la vicenda del giovane William Andrews, studente di Harvard catapultatosi nel bel mezzo della prateria più selvaggia, si alimenta di una fortissima tensione tragica, ben oltre la metafora (fin troppo scontata) sulle ambiguità del sogno americano. L’Autore ci avverte subito, già dalle citazioni che offre in testa al volume, una di Emerson e una di Melville: di fronte alla Natura l’esperienza umana che ne fa inevitabilmente parte è drammaticamente chiamata ad oscillare tra la potenza delle suggestioni trascendentaliste e la sovrana e infine soverchiante dominanza di una Legge spietata e inspiegabile. Ecco, Williams è il campione assoluto di quest’ultima, destinata ad avere sempre la meglio.

“Ciò che cercava era l’origine e la salvezza del suo mondo, un mondo che sembrava sempre ritrarsi spaventato dalle sue stesse origini, piuttosto che ricercarle come la prateria lì intorno, che affondava le sue radici fibrose nella nera e fertile umidità della terra, nella natura selvaggia, rinnovandosi proprio in questo modo, anno dopo anno”. È con questi pensieri che William Andrews arriva all’estremo avamposto di Butcher’s Crossing. Conosce Mc Donald, un commerciante di pelli, e si invaghisce di Francine, una prostituta dell’unico saloon del paese. La voglia di gettarsi in una grande caccia al bisonte prende il sopravvento e William si aggrega alla squadra guidata dall’esperto Miller e composta da Schneider e da Charley Hoge. Il viaggio è duro, ricco di nuovi insegnamenti, e anche la caccia fa crescere William, in un susseguirsi di esperienze e di emozioni, di possibili certezze e di improvvisi contrasti. Qui la grande maestria pittorica di Williams esplode e raggiunge un apice cromatico di tutto rispetto, uno stile che sembra placido e che è capace di ipnotizzare e tranquillizzare. Gli elementi, però, all’improvviso, si scatenano. L’avventura e la paura non mancano, e così anche i colpi di scena, sia sulla strada del ritorno, sia nelle scoperte che il protagonista, diventato ormai adulto, compie in una Butcher’s Crossing quasi irriconoscibile. Il tempo della consapevolezza è ormai arrivato ed è terribile, anche per i compagni superstiti. E i lettori? Sono davvero sicuri di essere tutti pronti a questo tempo?

Recensioni (di Chiara Biondini, di Nicholas Lezard)

Da Stoner a Augusto, la vita anonima di un genio letterario perduto e ritrovato (di Matteo Nucci)

Condividi:
 

Ieri Linkiesta.it ha pubblicato un racconto di Jack London. Non l’ho ancora letto, in verità. Ero impegnato a finire La pelle dell’orso, che comincia con un tono da vecchia storia di montagna e termina, però, con immagini degne del grande cantore del Klondike e della forza severa della natura. Non sono molte pagine, pertanto decido di onorare subito il regalo ricevuto. Con buona soddisfazione. Ora, da qualche parte, in rete, vedo che Matteo Righetto è definito come il più americano dei nostri scrittori. Forse è vero. Le buie foreste e le mitiche vette dolomitiche che fanno da scenario a questo breve romanzo non profumano solo di Rigoni Stern o di Buzzati; c’è anche un pizzico del miglior Lansdale, quello de In fondo alla palude. Alla tipica novella invernale, da stufa e tisana calda, si accompagna uno spunto epico, che, anziché falsare il contesto, attribuisce alla scrittura una tinta decisamente vera e i ritmi di una sceneggiatura potenzialmente assai efficace.

L’azione si svolge nell’ottobre del 1963, nel bel mezzo della terra ladina. Il protagonista è il giovanissimo Domenico, che vive nel piccolo borgo di Colle Santa Lucia e viene coinvolto dal padre Pietro in una pericolosa caccia all’orso. Pietro è animato da un’insopprimibile voglia di riscatto; il figlio spera che, dopo la scomparsa prematura della madre, l’avventura lo possa finalmente legare al padre, divenuto scontroso e violento. E così accade, visto che la ricerca dell’enorme e diabolico plantigrade li affiata. Domenico scopre cose che non sapeva e si commuove, Pietro si comporta da vero padre e gli fa conoscere anche l’eccentrica e anziana figura di Pepi Zelger. Finché non arriva il momento che durante la caccia si fa lentamente attendere: lo scontro con la furia del terribile e grande carnivoro. Quello che succede da questo momento in poi è la parte americana del libro, tutta da scoprire, e senza che vi sia un epilogo lieto. Anche i giorni – le date – in cui i fatti si verificano acquistano all’improvviso un significato fondamentale. Domenico, così, si ritroverà immediatamente adulto, provato e sgomento, di fronte alla durezza della natura e di un destino tristissimo, certo, ma ancor più solo, scosso e disperato per la testarda stupidità degli uomini.

Si potrà dire che il libro è un po’ furbo, visto che gioca con le emozioni semplici e fortissime che solo alcuni eventi sono in grado di comunicare. Tuttavia bisogna anche riconoscere che siamo spesso assuefatti alle invenzioni più ricercate e che la grande letteratura non sta solo nel registro più difficile. Inoltre l’Autore è riuscito, simultaneamente, in tante e diverse cose: rievocare un mondo popolare affascinante e forse scomparso; descrivere colori, odori e suoni del bosco in modo particolarmente evocativo; collegare la favola alla storia, sulle orme di una tradizione italiana di tutto rispetto; sovrapporre la narrazione di un classico momento iniziatico alla rievocazione di un fatto collettivo tanto drammatico quanto decisivo per la formazione di un’intera identità territoriale. Non è poco.

Recensione (di Ferdinando Camon, di Paolo Perazzolo, di Roberto Alfatti Appetiti)

Il sito dell’Autore

Condividi:
 

Il libro della giungla è anche la nostra storia: sotto molti aspetti, anche noi, come Mowgli, siamo stati educati dagli animali selvatici. L’idea che siano stati gli animali a insegnarci a leggere può apparire paradossale, ma ascoltare dei cacciatori esperti che analizzano il segno di una tigre non è così diverso dall’ascoltare degli specialisti di letteratura che decostruiscono un racconto” (p. 282). Questa è solo una delle tante osservazioni “ficcanti”, e stimolanti, che sono disseminate nel non-fiction di John Vaillant, un libro pluripremiato che finalmente si offre anche al pubblico italiano.

Alla base c’è un fatto realmente accaduto, una caccia alla tigre, avvenuta nel dicembre 1997 nel territorio del Primorje (nell’estremo lembo orientale della Russia, a nord di Vladivostok). Il terribile felino dell’Amur ha aggredito e ucciso due cacciatori, e l’Ispettorato Tigre, una sorta di guardia forestale iper-specializzata, indaga sulle ragioni degli attacchi e sul modo con cui prevenire ulteriori pericoli per la popolazione locale: raramente la tigre attacca gli uomini, all’origine della sua improvvisa “pazzia” ci dev’essere qualcosa, forse l’episodica alterazione di un ordine ancestrale…

Vaillant, però, non si è limitato a raccontare l’indagine. Ne ha raccolto e tradotto il contesto, quello di una regione unica al mondo, di una terra di frontiera in cui non solo uomini e animali, ma anche popoli e culture, si sono sempre scontrati. Si susseguono, così, pagine ricche di osservazioni antropologiche, etologiche, geografiche, geopolitiche e storiche; ma anche di testimonianze, interviste, racconti, profili di esploratori e cacciatori leggendari, scorci suggestivi di paesaggi e di caratteri, di usanze e stili di vita, di orgoglio e di miseria. E, naturalmente, di tigri e di grandi felini, non solo siberiani, ma di tutto il globo: perché il loro rapporto con l’uomo può essere un ottimo modo per addentrasi nei misteri dell’evoluzione e per comprendere che la sopravvivenza di talune specie è inestricabilmente connessa con le ragioni che hanno reso egemone il nostro genere.

Il libro può sortire una conseguenza inaspettata: per tutti coloro che, come me, hanno cominciato la loro esperienza di lettori proprio sulle pagine delle grandi avventure del bosco e della foresta, l’ultima pagina del libro di Vaillant è sola la prima di tante possibili ed avvincenti riscoperte. Una su tutti: J.O. Curwood, Cacciatori di lupi (Giunti-Marzocco, 1984; certo, forse le poche edizioni ancora disponibili sono reperibili solo nelle biblioteche, ma è sempre possibile leggerne gratuitamente l’originale inglese, scritto nel 1908).

Di che cosa stiamo parlando: la tigre dell’Amur

Il libro presentato dal suo Autore

Condividi:
 

Il 23 agosto 1990 ho avuto la fortuna di incontrare Mario Rigoni Stern, velocemente, alla presentazione di un suo libro.

Ero reduce dalla lettura di Storia di Tönle, forse il suo romanzo più bello, e alla fine dell’incontro mi sono avvicinato a lui e gli ho avanzato la più classica delle richieste, una dedica. “A Fulvio, cimbro dell’Altopiano, con amicizia”… Nonostante la banalità della cosa, conservo ancora gelosamente quel volume. Ora mi accorgo che la grafia scattosa di quell’autografo è una delle migliori immagini che io conosca, oggi, per rappresentare in modo così efficace i profili delle montagne.

Il segreto di Rigoni Stern, in effetti, è l’essere “montagna”. Esteriormente, in primo luogo, come una specie particolare di medium per afferrare tutto ciò che di semplice e di maestoso la vita ha da offrirci. Ma anche interiormente, come altezza e nobiltà dello spirito, nel senso di un’innata capacità a percepire la comunanza, la solidarietà e la proporzione cui dovrebbe indurci la consapevolezza della nostra umanità.

Quando si è tra l’autunno e l’inverno, allora, è la stagione migliore per rileggere Il bosco degli urogalli, il secondo libro di Rigoni Stern, quello che ha composto nel 1962, raccogliendo alcuni racconti, dopo Il sergente nella neve. È stato il mio primo libro di Rigoni Stern, la chiave della scoperta.

In questo libro c’è tutto: la caccia, la bellezza della natura, l’amicizia, la guerra, i ricordi. Soprattutto, sempre, la montagna. C’è il senso di un andamento ciclico ed eterno, con un inizio, insperabilmente nuovo, e con una fine, anch’essa nuova, perché destinata comunque a riprodursi (il primo racconto, Di là c’è la Carnia, e l’ultimo, Chiusura di caccia). Ci sono immagini che si potrebbero ripetere, quasi mimare, in continuazione e con compiacimento, davanti al fuoco, o dopo una passeggiata sulla neve (La vigilia della caccia; Oltre i prati, tra la neve; Dentro il bosco). Ci sono frasi e parole genuine, pulite, così come lo sono le storie che vengono narrate, ci parlino di incontri improvvisi e sorprendenti (Incontro in Polonia) o ci dicano di due cani (Alba e Franco) o ci insegnino, letteralmente, “sentimenti” ed “esperienze” reali ma assoluti (Una lettera dall’Australia; Vecchia America; A caccia con l’Australiano).

Sembrerà un’associazione di idee completamente strana, ma ho sempre pensato che questa pulizia sia la stessa che Peter O’ Toole, nei panni di Lawrence d’Arabia, attribuisce al deserto, nel bellissimo e lunghissimo film di David Lean. In questa prospettiva, probabilmente, il racconto Esame di concorso non è un corpo estraneo; è la testimonianza, un po’ desolata, di una frattura, della distanza che purtroppo esiste tra la pulizia delle cose e le cose della vita pubblica.

Per certi versi, quindi, Il bosco degli urogalli ci offre la grammatica di una pulizia “estrema”, tanto essenziale quanto diretta e primigenia; ci indica la necessità di non accontentarci delle sole soddisfazioni dell’intelligenza e della fantasia, ma di riconoscere, nella perizia dei gesti più antichi e delle azioni più tradizionali, innate regole di equilibrio (Le volpi sotto le stelle).

Come gli aborigeni, anche noi abbiamo le “vie dei canti”: ma non dobbiamo pensare di dover leggere Chatwin e di immaginarle; ci basta leggere Rigoni Stern. Di cosa, ancora, abbiamo realmente bisogno?

La voce di Mario Rigoni Stern

Condividi:
© 2024 fulviocortese.it Suffusion theme by Sayontan Sinha