Franco Gavaglià è sindaco di un piccolo comune. Viene da una frazione di montagna, dove è cresciuto in baita, sopportando le difficoltà di una vita, e di una natura, aspra e le continue violenze, terribili, del padre. Soltanto negli anni dell’università è riuscito a realizzare il suo sogno di fuga e a costruirsi uno spazio autonomo di riconoscimento sociale. Ora si avvicina una nuova campagna elettorale e, a quanto dice il suo vice, occorre inventarsi qualcosa di efficace per continuare a convincere gli elettori e contrastare le mire dell’altro candidato, il temibile Ursini. È questa la scena in cui si articola la storia che le stesse parole di Gavaglià percorrono passo dopo passo, nel suo rivolgersi, un po’ pacato e sollecito, ma anche un po’ disilluso, alla figlia Leda. Ed è una storia che, in parte, è buia come la conca in cui il piccolo Franco cercava rifugio, sui monti, lontano dalle angherie paterne; e in altra parte, invece, è semplicemente trista, perché disseminata da un sentimento diffuso di soffocato rancore e di reiterato fallimento. Il fatto è che, al termine di un farsesco e calcolato tentativo di comunicazione elettorale – nel quale il protagonista cerca di ripescare l’anziano padre e farne l’esempio inverosimile di antiche e formidabili virtù, e di un rapporto filiale autentico – il disastro, per Gavaglià, si presenta in tutta la sua inevitabile dimensione.

Quello di Morandini è libro duro, che macina dentro. Inoltre, contiene moltissime sollecitazioni. Non è soltanto un antidoto alle troppo facili idealizzazioni di certi ambienti, considerati sempre, romanticamente, come primigeni e fortificanti. È anche una somma di parabole: sul rapporto padri-figli, come, più in generale, sulle relazioni, e incomprensioni, tra generazioni diverse; sulla pochezza di un modo ben noto di fare politica; sulle insidie delle ambizioni e dei traumi più radicati e irrisolti; sull’ostinata, ma terribile, tendenza a restare pur sempre vincolati a un’idea troppo personale delle proprie origini; sul bisogno, reale, di interlocuzioni più umane e comprensive. La conca buia, poi, è anche il trattamento perfetto per una commedia nera, che funzionerebbe molto bene sia in teatro, sia al cinema. Più di tutto, però, a stupire è lo stile o, meglio, il tono della narrazione. Che si tiene sul registro agro e disincantato della nevrosi; dell’amara consapevolezza, cioè, che solo chi è davvero afflitto o malato sa provare fino in fondo. Ci troviamo, dunque, di fronte a una scrittura molto più studiata ed elaborata di quanto possa apparire: un esperimento di sintonia – tra verbo e argomento – che può dirsi riuscito.

PS: a conferma della lungolatenza delle suggestioni che questo romanzo sa imprimere su chi lo legge, non resisto a esprimere la sensazione che questo Autore abbia una spiccata sensibilità leopardiana. Anche la Natura di Morandini non si arresta, né si accomoda, di fronte a nulla…

Recensioni (di S. Bonazzi; di G. Gala; di G. Montieri; di A. Pisu)

L’Autore racconta il suo libro

Due intervista a Claudio Morandini: qui e qui

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Il protagonista di questo romanzo è l’ultimo rampollo dei Cimamonte, un’antica casata nobiliare. È un giovane adulto che ancora non sa che cosa fare veramente della sua vita. Decide di vendere il palazzo avito e lasciare la città di Berua. Si trasferisce a Vallorgana, la vicina località montana da cui la gloriosa storia di famiglia ha preso le mosse nel XIII secolo e in cui si trova ancora una grande villa. La gente del paese lo chiama Duca, anche se a rigore il suo titolo sarebbe quello di Conte. Per quanto cerchi un dialogo diretto e ispirante, e liberatorio, con la natura che lo circonda, il Duca è inquieto, attratto com’è, in modo irresistibile, dalle vicende della sua stirpe. Da un lato questo sentimento è risvegliato dalla lettura assidua di vecchie carte che sono stipate in un misterioso studiolo e di una suggestiva Chronica, che ripercorre alcuni secoli di avventure, soprusi e disgrazie dei Cimamonte. Ma, oltre a ciò, nel Duca la tensione, quasi violenta, a riscoprirsi degno e risoluto discendente di una stirpe mai domita è risvegliata anche dalle temibili manovre di Mario Fastreda, un allevatore particolarmente influente. A nulla vale la presenza saggia di Nelso Tabiona, fido e abilissimo boscaiolo. Né pare determinante, almeno in prima battuta, l’apparizione della bella e intelligente Maria, che pure stimola, nel Duca, sensazioni insperate. Fastreda, del resto, condiziona e controlla tutto il paese, e ha occupato proditoriamente una parte dei boschi dello stesso Duca. È così che si scatena rapidamente una vera e propria faida, in un crescendo di emozioni ed eventi, di macchinazioni e accuse, di scoperte e colpi di scena, fino a quella che si potrebbe definire l’illuminazione conclusiva: che dà ragione di un antagonismo apparentemente inspiegabile e apre la via, per il Duca, ad un futuro che è tanto segnato quanto definitivamente scelto.

Matteo Melchiorre è, da tempo, un autentico aedo dei luoghi, della loro energia pedagogica. Sa quanto siano importanti, se non – addirittura – esistenzialmente decisivi. Il suo percorso di scrittore – da La banda dell’autostrada Fenadora-Anzù a La via di Schenèr fino a Storie di alberi e della loro terra (il testo più bello) – lo prova appieno e Il Duca ne è una conferma ulteriore, forgiata, questa volta, in una forma letteraria forse più riconoscibile e meglio spendibile. Occorre chiarire subito che, a rigore, proprio la forma letteraria in questione penalizza un po’ il valore del libro. Ha la tipica progressione lineare che induce il lettore ad attendersi evoluzioni e sorprese, che però sono, rispettivamente, lente e talvolta prevedibili (come lo è quella che porta il Duca a capire chi è veramente Fastreda: già prima della metà del libro, il sospetto emerge di forza propria). Nonostante ciò Il Duca è romanzo che si distingue per tre virtù. La prima è la lingua. Non vi sono invenzioni particolarmente eclatanti, ma l’incrocio tra la costanza di un tono assai compassato e stilisticamente nobile e la diffusa contaminazione con espressioni italianizzate della tipica parlata della Valbelluna (il luogo dell’Autore) esalta il tempo magico del racconto. La seconda virtù è il modo con cui si propongono il bosco, la montagna, gli elementi (come la tempesta Vaia, ad esempio). Non sono idealizzati, sono rappresentati nella loro normale ambivalenza: se diventano riferimenti, per così dire, morali, ciò accade per via delle interazioni – positive o negative – cui uomini e donne possono dare sostanza. La terza virtù de Il Duca è che la sua pubblicazione conclama di per sé il consolidamento, nel salotto buono dei bestseller, di una famiglia di solidi scrittori veneti di terra (come Matteo Righetto, Paolo Malaguti e, per l’appunto, Matteo Melchiorre), che sul motivo delle radici sanno costruire i più vari percorsi narrativi, senza mai allontanarsi dallo spirito che li muove.

Recensioni (di R. Barilli; di L. Oliveto)

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François è un abile e affermato chirurgo di mezza età. Figlio a sua volta di un apprezzato medico di paese, è l’azionista di controllo di un’importante clinica. Ama passare molto tempo nella avita casa di montagna, al confine tra Francia, Svizzera e Italia. Lì può darsi al suo hobby preferito, la caccia. La storia – non per caso dunque – comincia dal momento in cui François, dopo una posta assai lunga e impegnativa, ha finalmente nel mirino un cervo maestoso. Riesce solo a ferirlo. Lo insegue, ma non lo finisce: lo carica nel suo pick up, ancora vivo, per portarlo a casa, curarlo e liberarlo. Questa è la base di partenza per una vicenda che viene raccontata in quattro parti. Le prime tre sono ciascuna l’approfondimento progressivo dell’altra. Scopriamo, passo dopo passo, che il figlio di François, consulente finanziario, è passato a trovarlo, e che, però, se ne vuole andare presto, per raggiungere la compagna, un’affermata modella. La moglie di François – avvinta da sempre in una totale venerazione del figlio e in una altrettanto ambigua tendenza negativa nei confronti della figlia – si trova in un convento per un ritiro spirituale, dal quale tuttavia si allontana senza avvisarlo, in preda ad una delle sue consuete crisi. Nel frattempo la figlia, che da qualche giorno è nei pensieri di François, piomba all’improvviso, con la prima neve dell’anno, alla casa di montagna: è accompagnata da Loïc, il suo misterioso compagno, che, proprio mentre arriva, spara al cervo che François aveva accudito, uccidendolo. Loïc, peraltro, è gravemente ferito, abbisogna di un intervento urgente e François, su richiesta della figlia, prova a tamponare la situazione. Ma è evidente che i due sono nei guai, che sono seguiti da qualcuno che intende eliminarli ad ogni costo e che Loïc, in particolare, è una figura quanto mai equivoca e spregiudicata. L’accelerazione sarà repentina e il protagonista si vedrà presto travolto, con tutto il suo mondo, da rivelazioni sconvolgenti, e risucchiato in un incubo sempre più intenso. Verrà gettato in una inattesa fuga nel bosco, su cui si chiude, nella quarta e ultima parte, tutto il racconto.

Di questo libro qualcuno potrebbe dire ciò che di solito si pensa di molti classici film francesi: che sono troppo lenti e “psicologici”. È un’opinione che la scrittura dell’Autore – nella sua insistita esattezza descrittiva e nell’incedere ossessivamente autoanalitico che conferisce ai pensieri di François – rischia di incoraggiare. Tuttavia, a leggerlo con la giusta concentrazione, e lasciandosi trasportare, il romanzo può stimolare l’idea della sceneggiatura ideale per un thriller ben più movimentato, con Jean Reno nelle parti del medico protagonista e Vincent Cassel nel ruolo di Loïc. C’è una tensione fortissima nella narrazione, una forza che in un eventuale progetto cinematografico non potrebbe che riflettersi nella scelta dei volti più risoluti del cinema d’Oltralpe. Eppure anche questa è un’impressione sbagliata. Non che non potrebbe funzionare, ma sarebbe un altro film, mentre l’Autore ne vorrebbe uno ancora diverso. Il centro della storia non è il colorito thriller che la trama dimostra di assumere nella sua progressione: è il crollo di un’intera esistenza e di un quadro familiare affetto da patologie di più lungo periodo. A François, sbattuto violentemente in una spirale che mai avrebbe sospettato di percorrere, verrebbe da dire, forse banalmente: “Si raccoglie quanto si semina”. Ciò che illustra Lang, però, è tanto più sottile. Se a François riesce di curare meticolosamente e accudire il cervo che egli stesso ha ferito, riprendere le redini di un arido e scostante discorso familiare, anch’esso colpito ab origine, è operazione che gli risulta ormai inaccessibile. È questa medesima malattia, in fondo, ad essere il primo antecedente causale della morte del cervo miracolosamente guarito. Quindi anche l’apparente purezza della natura – che è il luogo della redenzione di François, nobile ed esperto (ex) cacciatore – non può resistere al guasto affettivo che l’uomo ha compiuto. La conclusione non è completamente tragica: l’efferatezza generata dagli eventi, e respinta con pari violenza dal protagonista, apre la via del bosco, dell’ignoto che disorienta; di un inseguimento che – senza che nulla sia garantito – offre la speranza per ricominciare, sia pur da zero, e creare nuovi legami.

Una recensione (di A. Pisu)

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Il terremoto di aprile 2009 colpisce anche Camporammaglia, paesino dell’Abruzzo non lontano da L’Aquila. L’evento, in verità, è decisamente meno traumatico rispetto al grado con cui ha impattato sul capoluogo o su altre località. Ma è comunque un punto di svolta: è il momento in cui giunge a maturazione una trasformazione più grande, per il narratore come per la piccola comunità in cui è cresciuto. Non a caso il racconto dei mesi di emergenza e delle avventure semiserie in cui loro malgrado sono coinvolti gli abitanti di Camporammaglia è interrotto da un lungo intermezzo. Perché, per capire di che cosa veramente si tratta, è indispensabile conoscere la fisionomia originaria del luogo e dei suoi protagonisti, in parte ancora legati ad un ritmo di vita semplice e autoreferenziale, in parte pronti a uscire definitivamente dal recinto che nemmeno il boom economico o i meravigliosi anni Ottanta erano riusciti a sconvolgere. Il terremoto, dunque, non fa che accelerare questa dinamica, impegnando anche il narratore, alter ego dell’Autore, nella ricerca di un equilibrio, che sarebbe tanto auspicabile e felice quanto irrealizzabile.

La scrittura di quest’opera prima, fresca vincitrice del Campiello, ricorda Guareschi; non per la semplicità – il periodare di Valentini è ben più sofisticato di quanto sembra – ma per l’ironia. E anche per la capacità di rappresentare in modo così efficace un altro mondo piccolo che se ne va; anzi, che se ne è già andato ormai, con processo variabile, in larga parte di tutta la montagna periferica del nostro Paese, sugli Appennini come sulle Alpi. È questo il vero sisma che scuote il romanzo e alimenta l’autocoscienza del suo protagonista e di chi legge. La storia, infatti, ci costringe a fare i conti con il cuore semplice del Paese, e con i suoi vissuti collettivi, che, per quanto incompatibili con le mode del benessere cittadino, rischiano di essere perduti troppo facilmente, con implacabile naturalezza. Nei confronti di questo universo Valentini prova una sorta di insopprimibile nostalgia ultragenerazionale, un sentimento che viene trasmesso anche dallo stile utilizzato. Nel libro, infatti, tutto ciò che può apparire come sintomo quasi pittoresco di arretratezza viene rievocato con un tono bonariamente malinconico, amplificato dalla citazione ricorrente di espressioni e frasi dialettali; di un linguaggio, cioè, nel quale continuare riconoscersi e confortarsi. Dopodiché l’Autore non indulge in insopportabili spiegoni, non prova a tematizzare la questione in modo pretesamente oggettivo e, specialmente, non attribuisce responsabilità; si mette semplicemente a nudo, alla cerca di un po’ di complicità, e questa è la qualità migliore del libro.

Recensioni (di Gianni D’Alessandro; di Donatella Di Pietrantonio; di Claudio Giunta)

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La famiglia De Boer vive a Nevada, gruppo di case abbarbicate sulle balze scoscese che dividono l’Altopiano di Asiago dalla Valbrenta. È la fine dell’800, il confine italo-austriaco dista pochi chilometri, poco sopra Primolano. La valle, dunque, è una zona di frontiera, selvaggia, terra di povera gente, che prova a sostentarsi coltivando tabacco su terrazzamenti strappati alla roccia. I De Boer – moglie, marito e tre figli – non fanno eccezione, e qualche volta il capofamiglia si avventura oltre confine, nel Primiero, per vendere ai minatori quel po’ di trinciato pregiato che gli riesce di sottrarre astutamente dai severi controlli del monopolio regio. Un giorno parte per l’ennesima spedizione da contrabbandiere, senza fare ritorno. Jole, la figlia maggiore, che già era stata iniziata ai rischi di quel viaggio, decide di avventurarsi a cavallo, alla ricerca del padre ormai creduto morto, ma anche alla volta delle miniere di Imer, per scambiare un po’ di tabacco con un carico di rame e argento, e salvare così i suoi cari dalla fame e dalla miseria. È un percorso aspro, in una natura tanto rigogliosa e incontaminata quanto insidiosa e misteriosa. Sono tante le paure che Jole dovrà superare: quella dei crepacci, quella dei briganti, quella delle guardie di confine, quella dei malviventi con cui si trova giocoforza a trattare, per piazzare il suo carico prezioso e per avere notizie sulla sorte del padre. Da figlia premurosa e determinata Jole si scoprirà improvvisamente donna tenace e bella, e nel ritorno, quando tutto sembrerà ormai concluso, affronterà una prova inattesa e terribile, prima di un conciliante lieto fine.

In libreria da poco più di un mese, L’anima della frontiera è in corso di traduzione in tanti paesi e se ne parla entusiasticamente come di un western avvincente. La grafica di questa prima edizione Mondadori – che pare presa da Tex o da Zagor – va anche un po’ oltre: una silhouette femminile degna di Tarantino si staglia fascinosa sullo sfondo di un paesaggio roccioso infuocato dal sole. Manca l’annuncio del film, e tutto sarebbe perfetto, confezionato per la migliore promozione libraria dell’estate. Qualcuno potrebbe storcere il naso, perché questo tipo campagne, di solito, non solo finiscono per promettere più di quanto sia lecito attendersi, ma rischiano di travolgere l’aura di autenticità e di semplicità che un autore si è costruito in precedenza. Però la visibilità ha un prezzo, e ben venga che Righetto assaggi i modi e gli orizzonti del bestseller internazionale. Perché si tratta di un indubbio punto di arrivo, del tutto meritato. Era già buono, in verità, La pelle dell’orso (che un film lo ha avuto davvero). Lo è anche L’anima della frontiera, e forse di più, visto che si tratta di una conferma, cosa mai facile. I meriti del libro sono due. Il primo è lo stile, la scrittura lineare ed essenziale, pulita, che riesce a cucire assieme, inaspettatamente, generi e accenti diversissimi: il racconto di montagna alla Rigoni Stern; l’immersione naturalistica e paesaggistica; il romanzo di formazione; il romanzo storico; il thriller. Il secondo fattore di forza sta tutto nell’ambientazione, nella scelta di un Veneto poco noto, ma sempre visibile nei segni profondi e tuttora stranamente magnetici – è forse questa l’anima del titolo? – che la storia ha inciso in molte delle sue valli. La Valbrenta ne è un prototipo perfetto: con le vecchie coltivazioni del tabacco, i tanti piccoli borghi, spesso diroccati o nascosti dalla macchia, le fortificazioni medievali e ottocentesche, le strettoie del canyon scavato dal fiume, le ferite della Grande Guerra, raccontata in loco, e in presa diretta, anche da Hemingway e Dos Passos, e poco più in alto da Lussu… Grazie a Righetto questo piccolo teatro universale può attraversare ancora i confini della grande letteratura.

Recensioni (di Luigi Mascheroni; di Alessandro Mezzena Lona; di Lorenzo Parolin)

Intervista a Matteo Righetto

L’Autore a Radio radicale

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I Burroughs sono una famiglia di fuorilegge. Il loro clan vive da sempre di traffici illegali. A Bull Mountain, Georgia, nel cuore della foresta, sono padroni di un impero selvaggio, costruito sul traffico di whiskey e poi “evoluto” nella coltivazione di marijuana e nella produzione di droghe sintetiche. La montagna, quella montagna, è il loro regno, e niente è più importante. Rye è morto proprio per questa ragione: perché non si possono tagliare impunemente le radici che legano quella stirpe alla sua terra e alle sue leggi implacabili; neanche un Burroughs può farlo. Oggi tocca a Clayton sfidare il destino. Reietto lo è da un pezzo, da quando ha deciso di fare lo sceriffo, proprio lì, a Bull Mountain. Ora un agente federale, Simon Holly, gli propone uno strano patto: convincere il fratello Halford, il capo della famiglia, a incastrare l’organizzazione di Miami che fornisce al clan le armi; in cambio c’è la promessa di graziare tutta la banda, purché rinunci ai suoi affari. Clayton sa che rischia la vita. Ma non sa ancora che il motivo per cui rischia tutto non è soltanto la tenace violenza del fratello. Holly, infatti, porta con sé un disegno segreto. C’è uno spettro del passato che incombe su Bull Mountain. E vuole vendetta: una sentenza che, pagina dopo pagina, si lascia scoprire in tutta la sua ferocia.

L’opera prima di Panowich, già musicista girovago e pompiere volontario in un piccolo paese della Georgia, è un godibile intreccio tra Mario Puzo, Lansdale, McCarthy e Don Winslow. Cocktail di questo tipo, così tremendamente modalioli nel mainstream di genere, rischiano di essere indigesti, di deludere, di esplodere sin dal principio per eccessiva intenzione corrosiva. Ma non è il caso. Primo: nel romanzo domina un binomio di successo, terra e famiglia, matrice irrinunciabile e cornice ideale di qualsiasi tragedia ben riuscita, specialmente quando si tratta di narrare un’epopea malavitosa e cruenta. Secondo: il libro funziona anche come sceneggiatura, già pronta e finita, da proiettare sull’epico e spietato scenario di un Dixieland mai veramente scomparso e sempre affascinante. Faulkner e Capote l’hanno battezzato per l’eternità, perciò la sua resa è tuttora sicura, e qui si riesce a percepirlo, a vederlo, a toccarlo. Terzo: c’è un quid pluris. L’Autore aggiunge alla ricetta un pizzico di noir. È il vero tocco originale del racconto, se si vuole il meno americano, tanto che viene quasi da pensare a Derek Raymond. Il fatto è che questo sapore veicola il mood più giusto per interpretare correttamente il finale della storia, altrimenti un po’ scontato (che nessuno possa sfuggire a se stesso non è una grande novità…). A conti fatti, tutto si tiene in Bull Mountain, anche dal punto di vista fisico: EnneEnne si conferma come editore che tiene molto alla qualità della grafica di copertina, dalla quale ammicca, coerentemente, una natura oscura e terribilmente incombente. Insomma, Bull Mountain è davvero un oggetto gradevole.

Recensioni (di Elisabetta Favale; di Angel Luis Colón)

Intervista a Panowich

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Pietro Zambelli, detto Zambo, prende il suo zaino ed esce da Genova. Vuole raggiungere a piedi una casa in Maremma, un lontano lascito del padre, che vi aveva trascorso i momenti più intensi della guerra partigiana. Il suo percorso è lungo, ma lui non ha fretta e parte determinato, accompagnato dal cane Tobia. Il programma è inoltrarsi nelle montagne, per passare attraverso gli Appennini. Il viaggio, tuttavia, si interrompe presto. Zambo incontra una strana famiglia, che abita in un vecchio rifugio: si ferma con loro per qualche tempo e conosce Agnese. Poi riparte, ma si accorge che non trova più la pistola che aveva con sé. Avvia allora un’ostinata ricerca, tornando anche sui suoi passi, inutilmente, e raggiungendo così la baita del vecchio Dindon, antico amico del padre. È qui che viene a contatto con il lupo, un esemplare ramingo che un’associazione di animalisti vuole monitorare e proteggere, e che lui, invece, libera di nascosto. Da quel momento l’avventura sembra procedere, apparentemente senza sorprese. Zambo raggiunge la casa e comincia a ristrutturarla, conosce la figlia di Dindon, ritrova e riperde la misteriosa Agnese, e ritrova anche il lupo, con il quale finisce per condividere la lotta per la sopravvivenza in quota. In ballo, però, c’è qualcosa di più che il rischio di una vita selvaggia. Dindon gli ha rivelato un segreto profondo, che spiega la morte del padre e il significato della casa in Maremma. La sua missione, dunque, non è ancora finita, e dovrà tornare nuovamente indietro, con il lupo, per restituire alla natura tutte le sue ragioni.

È da tempo che la montagna è al centro della scena letteraria italiana: come luogo del ritorno alle origini; mezzo per riscoprire se stessi; occasione per sperimentare il senso del limite; teatro di un predominio naturale riaffermato come irrinunciabile; spazio della resa di conti. Caccia sceglie quest’ultima opzione, perché sullo sfondo c’è da risolvere definitivamente un enigma familiare, risvegliando anche le zone d’ombra della guerra di Liberazione. Ma il protagonista è anche attratto da un magnetismo che lo spinge a cercare in ogni caso un nuovo equilibrio personale. Fino a qui non si direbbe un romanzo originale. E non suona bene – perché un po’ retorica – anche la scelta di inframmezzare il racconto con spezzoni della memoria di Zambo, che ricorda il rapporto con il padre, nell’infanzia e in un passato più recente. Sennonché il libro si rivela ugualmente avvincente. L’Autore riesce a costruire una relazione di singolare connivenza tra l’asprezza delle leggi di natura e il carattere implacabile della legge morale, in un crescendo in cui tutto si fonde, anche biologicamente, nel finale freddo e sorprendente. La Natura, in questo romanzo, non è solo matrigna; è fisiologicamente spietata, incombente, onnivora. In altre parole, è americana, come nei migliori orizzonti del Grande Sud letterario. Anche la copertina, particolarmente azzeccata, sembra suggerire questa direzione: la foresta, il bosco sovrastano anche il lettore, programmaticamente. Da non sottovalutare, poi, le partecipazioni straordinarie di due grandi ex della scena punk italiana: fanno la loro buona comparsa, infatti, Giovanni Lindo Ferretti, il barbarico, con la sua passione per i cavalli, e Massimo Zamboni, fonte pressoché certa d’ispirazione, per la creazione di Zambo e per il tema familiare / resistenziale, oggetto di un altro bel libro.

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Nella classica notte buia e tempestosa, lungo una strada fangosa delle montagne dell’Alto Vicentino, una ragazza viene accoltellata. Prima di morire, però, riesce a consegnare alcuni misteriosi documenti a Gigi Marcante, un giovane geometra che, pur restando anonimo, non esita a denunciare l’accaduto ai carabinieri, ai quali trasmette anche copia di quelle strane carte. Entrano subito in gioco tutti gli altri personaggi: il maresciallo Piconese e i suoi uomini, da una parte; il giornalista Andrea Rezzonico, la postina Silvana e suo fratello Nello, dall’altra. Cercano di risolvere il caso, per trovare l’assassino, ancora a caccia del suo prezioso bottino, ma anche per capire se gli enigmi nascosti dietro le parole e i segni di quello strano e composito lascito vi sia la possibilità di recuperare un tesoro. È un rebus in piena regola e l’intreccio è subito intrigante: alcune tracce, infatti, portano verso una singolare comunità religiosa, abbarbicata su quelle montagne e devota custode delle antiche radici del popolo cimbro. Tra eretici dimenticati, ruderi maledetti ed eredità altrettanto sinistre, si procede passo dopo passo, con altre morti e con nuovi sospetti, e anche con l’apporto di figure che appaiono comprimarie e che, invece, finiranno per rivelarsi determinanti.

Il romanzo è ambientato nell’inverno tra il 1975 e il 1976, e il geometra Marcante è impegnato nei rilievi che porteranno al famoso progetto del prolungamento a nord dell’autostrada della Valdastico, opera tuttora al centro di un grande e tormentoso dibattito. Tuttavia questa è solo la cornice, la buccia del racconto, e anche le avventure di Gigi, Andrea, Silvana e Nello sono solo un pretesto: a Matino interessa tornare sul luogo dei suoi precedenti delitti, per raccontare ancora il passato di un territorio ricco di leggende e per dare testimonianza appassionata del popolo cimbro. Così era già stato con La valle dell’orco e con L’ultima anguàna, che assieme a quest’ultima prova formano un trittico divertente e piacevole. È vero, però, che in Tutto è notte nera c’è un gusto ancor più accentuato per l’intrattenimento, con un effetto che rende ancor più forte il desiderio di studiare meglio la storia locale e la sua insospettabile ricchezza; le dense e succose appendici critiche che l’Autore ha accorpato al testo non sono per nulla superflue e rappresentano un primo valido alimento per la curiosità che la lettura arriva a suscitare immancabilmente. La differenza tra questo Matino e i due fortunati precedenti non è solo la nuova veste editoriale: qui si apprezza maggiormente la consapevolezza dello scrittore, la volontà di scherzare costruendo maschere simpatiche e affiatate nelle quali provare a riconoscersi per qualche ora di riposo.

I libri di Umberto Matino

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1978: Lucilla è innamorata di Ilio, alpinista estremo; vive l’esplosione della sua passione come una fondamentale opportunità di rinascita, nella quale la maternità si palesa come un evento quasi provvidenziale, rispetto ad un passato di emarginazione e alcolismo. Nel 2012, nello stesso paese della montagna trentina, Anna si trova a tavola con i suoi più stretti familiari e sta vivendo un dramma terribile: la nascita improvvisa, inattesa, incompresa, di un bambino di cui non aveva mai percepito la presenza, confuso con i sintomi di un dolore lontano e massacrante, il risultato della solitudine cui è stata condannata dalle persone da cui si sarebbe aspettata amore e protezione. Nel 1627 Gheta, originaria di quel medesimo luogo, è accusata di stregoneria e viene torturata brutalmente; per le autorità la responsabilità della povertà del raccolto e degli eventi naturali che hanno piagato il territorio non può che essere imputata alla donna più eccentrica, a chi sostiene di aiutare le altre donne a liberarsi delle loro malattie e paure, a colei che può essere accusata anche di aver ucciso il proprio figlio. Lucilla sente e vede, nel sonno, il dolore di Gheta; Anna cerca aiuto nei consigli di una vecchia e preveggente Lucilla; Gheta sa già come tutto andrà inevitabilmente a finire. E così Ilio muore in una spericolata spedizione himalayana e Lucilla impazzisce dal dolore, rifiutando il frutto di quell’amore, entrando in cortocircuito con se stessa e con gli altri, e finendo in un ospedale psichiatrico giudiziario; Anna viene nuovamente tradita da chi le sta più vicino, in un percorso di negazione e rinnovata solitudine che non può che finire al cospetto del carcere; Gheta viene graziata, sicché la sua morte non sarà sul rogo, ma sul ceppo della decapitazione.

L’unico Sartori che avevo letto, prima di questo, è quello di Sacrificio. Era già un pullulare di roghi, diversi ma pur sempre accesi, in egual modo, nell’incrocio di storie di abbandono, disperazione e violenza. Anche quello era un romanzo alpino; e il merito di questo agronomo-scrittore – oltre a quello di un linguaggio pulito e scolpito – è di aver utilizzato i cocktail corrosivi di certe e ordinarie cronache di valle per rappresentare duramente la fatale operatività di alcuni meccanismi di controllo sociale e di esclusione in contesti di crisi morale e culturale. In questa nuova prova, inoltre, l’espediente della sovrapposizione di tre vicende femminili, così lontane e così vicine, perché accomunate dall’assurdo abisso dell’infanticidio, funziona bene. L’universalità della sofferenza che può generare tragedie apparentemente incomprensibili è enfatizzata dal senso totalizzante del viaggio nel tempo, se non di una atemporalità definitiva, senza possibilità di scampo. Forse, e l’accostamento non sembri tirato, nel ricorso a queste riuscite connessioni intertemporali Sartori ricorre volutamente alla tecnica narrativa che Valerio Evangelisti ha sperimentato con altrettanta efficacia nel fortunato ciclo di Eymerich. È proprio questo espediente a suggerire l’esistenza di un eterno femminino alternativo, di una tradizione, cioè, non di bellezza e mistero, ma di incomprensione e minorità che, tuttavia, anziché costituire un fattore di debolezza, può nascondere una radice e una coscienza indistruttibili. Ciò detto, Rogo presenta un limite che si riscontrava anche in Sacrificio. Il suo Autore evoca atmosfere e situazioni complesse, degne di Dostoevskij, ma lo fa con un realismo che tradisce fin troppo l’onniscienza del narratore e che produce l’effetto di degradarne i messaggi, troppo semplicemente, a meri stereotipi. Un appunto finale, per vero positivo, riguarda l’editore: il volume è confezionato molto bene; se è vero che, in tema di libri, l’occhio e il tatto vogliono la loro parte, CartaCanta sceglie sempre le sue copertine in modo azzeccato.

Recensione (di Carlo Martinelli)

Un estratto del romanzo, con una breve introduzione di Sartori 

Un’intervista all’Autore

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È rimasto a riposo per molto tempo, questo libro; prima di scrivere queste osservazioni, ma anche prima della sua stessa lettura. La ragione ha un nome, anzi, un titolo: Stoner. Che è il primo dei romanzi di Williams tradotti da Fazi per il pubblico italiano, con un successo che ha motivato l’editore a creare un vero e proprio blog. Il fatto è che si tratta di uno dei romanzi intoccabili per eccellenza, perché sa suscitare un turbamento che poche opere riescono a risvegliare. Certo, la storia di quel normalissimo professore universitario è lontana anni luce da Butcher’s Crossing, che sin dal principio assume la forma di un Bildungsroman ambientato nel più classico Far West. Ma è tutta apparenza, visto che anche la vicenda del giovane William Andrews, studente di Harvard catapultatosi nel bel mezzo della prateria più selvaggia, si alimenta di una fortissima tensione tragica, ben oltre la metafora (fin troppo scontata) sulle ambiguità del sogno americano. L’Autore ci avverte subito, già dalle citazioni che offre in testa al volume, una di Emerson e una di Melville: di fronte alla Natura l’esperienza umana che ne fa inevitabilmente parte è drammaticamente chiamata ad oscillare tra la potenza delle suggestioni trascendentaliste e la sovrana e infine soverchiante dominanza di una Legge spietata e inspiegabile. Ecco, Williams è il campione assoluto di quest’ultima, destinata ad avere sempre la meglio.

“Ciò che cercava era l’origine e la salvezza del suo mondo, un mondo che sembrava sempre ritrarsi spaventato dalle sue stesse origini, piuttosto che ricercarle come la prateria lì intorno, che affondava le sue radici fibrose nella nera e fertile umidità della terra, nella natura selvaggia, rinnovandosi proprio in questo modo, anno dopo anno”. È con questi pensieri che William Andrews arriva all’estremo avamposto di Butcher’s Crossing. Conosce Mc Donald, un commerciante di pelli, e si invaghisce di Francine, una prostituta dell’unico saloon del paese. La voglia di gettarsi in una grande caccia al bisonte prende il sopravvento e William si aggrega alla squadra guidata dall’esperto Miller e composta da Schneider e da Charley Hoge. Il viaggio è duro, ricco di nuovi insegnamenti, e anche la caccia fa crescere William, in un susseguirsi di esperienze e di emozioni, di possibili certezze e di improvvisi contrasti. Qui la grande maestria pittorica di Williams esplode e raggiunge un apice cromatico di tutto rispetto, uno stile che sembra placido e che è capace di ipnotizzare e tranquillizzare. Gli elementi, però, all’improvviso, si scatenano. L’avventura e la paura non mancano, e così anche i colpi di scena, sia sulla strada del ritorno, sia nelle scoperte che il protagonista, diventato ormai adulto, compie in una Butcher’s Crossing quasi irriconoscibile. Il tempo della consapevolezza è ormai arrivato ed è terribile, anche per i compagni superstiti. E i lettori? Sono davvero sicuri di essere tutti pronti a questo tempo?

Recensioni (di Chiara Biondini, di Nicholas Lezard)

Da Stoner a Augusto, la vita anonima di un genio letterario perduto e ritrovato (di Matteo Nucci)

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