E la mente torna / a sognare un’onda / un cielo blu (Sammy Barbot)
Il famoso creatore del Pojana e del suo territorio di riferimento, il Pojanistan, racconta in un prologo e cinque atti il tortuoso percorso che lo ha portato a diventare attore, a esplodere improvvisamente sulla rete con il provocatorio e virale Ciao terroni e ad essere infine ospite fisso di Propaganda live. È un itinerario che molto deve – a quanto pare – a William Shakespeare e all’universalità e alla versatilità delle sue opere teatrali. Così Pennacchi, scrivendo di se stesso, dalle origini all’adolescenza, dal servizio militare all’università e alle prime esplorazioni teatrali, scrive anche del bardo di Stratford-upon-Avon e, soprattutto, di uno dei suoi più grandi e iconici personaggi, Falstaff. Il mix sortisce un effetto di immediatezza, semplicità, divertimento ed empatia, e regala anche un approfondimento, condotto dall’interno, su di un certo modo di fare teatro. Infatti, Pennacchi prende e adatta, à la Pojana, spezzoni di grandi classici shakespeariani, come l’Amleto, l’Enrico IV o il Re Lear, portandoci in un laboratorio personale, fatto di ricordi, errori, scoperte, spunti, modelli e lezioni autorevolissime. È una specie di dojo, il cui sensei a volte è Falstaff, nel suo essere full of life, e a volte è Bruce Lee (si, proprio lui), di cui Pennacchi mutua, a mo’ di manifesto, quattro chiari insegnamenti: research your own experience; absorb what is useful; reject what is useless; add what is specifically your own.
Shakespeare – come ogni classico, in fondo – si può manipolare, contestualizzare, smontare e riassemblare: è buono per ogni tempo, ciascuno lo può proporzionare sulle misure che gli risultano adeguate, e il suo segreto, in un’ultima analisi, sta nel fatto che si tratta di un teatro che “ci svela la natura conflittuale di tutte le relazioni umane” e ci dice che “più storie sai più ti destreggi nelle tempeste della vita”. In questa prospettiva, si capisce che per Pennacchi non c’è miglior modo di fare teatro che quello di chi “imbarca esperienza” passo dopo passo, per trasferirla volta per volta in ogni singola rappresentazione, in ogni personaggio. È un lascito di metodo che, forse, potrebbe essere utile per ogni professionista, intendendo come tale non solo chi esercita abitualmente un’attività intellettuale, ma chi si propone, ciò facendo, di perfezionarla e concretizzarla attraverso l’arricchimento di sé. Calcare una scena significa esattamente questo, non solo per un attore. Più in generale, in questa performance scritta – nella quale bisogna immergersi con fiducia, senza lasciarsi distrarre dall’andamento falsamente rapsodico – Pennacchi riesce a prendere per mano il lettore, dimostrandogli che il teatro è un “farmaco” potente, che “non cede alla facile esca dell’indignazione quotidiana” e, anzi, “addestra a vestire i panni dell’altro, ad ascoltare le voci discordanti (anche dentro di sé), a simpatizzare col male, col cattivo, a riflettere sulle conseguenze di ogni azione”. Non ci può essere messaggio più chiaro per sottolineare l’importanza sociale del teatro e l’urgenza, attualissima, di rivitalizzarne le sorti in ogni sede.
Premetto che Manzoni mi è sempre risultato profondamente enigmatico. Ciò è dipeso dal fatto che, sin dalle prime ore di letteratura italiana ai tempi del liceo, la sua immagine riusciva distorta, sfocata, forse appesantita dall’aura del grande autore a tutto tondo: perché poeta, romanziere, studioso della lingua e, in definitiva, nume tutelare di una parte importante della costruzione dell’identità nazionale. Un profilo, dunque, pesante. Non che non mi paresse grande. Tendevo a non considerarlo tale, semplicemente, per ciò che di lui veniva proposto a scuola. Trovavo noiose le tanto celebrate poesie civili. Sentivo come ancor più noiosi i brani scelti dell’Adelchi o del Conte di Carmagnola. Stancante a dir poco era anche la lettura, “glossata” nel più minimo dettaglio, dei Promessi sposi. L’importanza di Manzoni, invece, quella che ai miei occhi emergeva come autentica originalità, oltre che come prezioso giacimento culturale, la comprendevo pienamente nella Storia della Colonna infame. La ritenevo – e continuo a ritenerla – una specie di punto d’arrivo di tutto l’itinerario di pensiero di questo scrittore. Manzoni per lungo tempo è stato animato da forti passioni, talvolta contraddittorie, fino ad un momento, che non a caso affiora pubblicamente con l’edizione “quarantana” del famoso romanzo, nella cui appendice compare per la prima volta proprio la Storia della Colonna infame. In quel caso il Manzoni-autore si va definitivamente stabilizzando, in una congiunzione quasi perfetta di risoluta secessione poetica e incrollabile coscienza morale. Al principio di questa congiunzione, però, vi è un percorso personale molto sofferto e drammatico. Un modo particolare per acquisire – e rafforzare – una tale consapevolezza è un sofisticatissimo libro di Mario Pomilio, Il Natale del 1833, vincitore a suo tempo (nel 1983) del Premio Strega. È un romanzo-saggio (difficile definirne il genere fino in fondo), che va riscoperto e riletto con la pazienza e la fiducia che si devono ai piccoli tesori.
In questo testo Pomilio compie un esercizio suggestivo di interpretazione immersiva, allo scopo di ricostruire i travagli e i pensieri di Manzoni, vissuti a causa della dolorosa perdita della moglie. Enrichetta Blondel, infatti, è morta alla vigilia del Natale del 1833. Nel testo, elegante e ricercato anche nello stile, Pomilio inventa moltissimo. Tanto che si cala pure nei panni della madre di Manzoni, Giulia Beccaria, di cui produce alcune lettere, nelle quali emerge tutto il tormento religioso che la “sventura” origina in Alessandro e che gli impedisce di portare a termine Il Natale del 1833, una poesia concepita proprio all’indomani del decesso. È in chiusura a quegli sparuti e incompiuti versi che si trova l’espressione cecidere manus, quasi a confessare l’impossibilità di continuare ad essere poeta. Nel giro di poco tempo, peraltro, lo scrittore perde anche due figlie. Pomilio, allora, raffigura Manzoni – che la madre sa essere abituato a una terribile consuetudine con Dio – chiuso e muto nella sua enorme sofferenza, alla ricerca instancabile di una qualche superiore o provvidenziale ragione per quanto accaduto. Dapprima Manzoni è rievocato come inutilmente impegnato nella stesura di un’opera dedicata a Giobbe, perché forse il personaggio biblico può incarnare il campione della spiegazione religiosa di cui il suo animo prostrato ha bisogno. Quindi lo si vede affaticato in un’altra stesura della Storia della Colonna infame, perché in quelle carte si ricorda che degli innocenti, accusati ingiustamente di essere untori, sono stati travolti e che dunque anche in quell’occasione Dio è parso tanto assente quanto terribile. Proprio qui Manzoni – che non si abbandona ad accusare Dio, né ascolta i consigli di chi gli rammenta che non compete a uno scrittore trovare un significato universale alle vicende della storia – arriva al suo approdo: “la storia delle vittime è di per sé la storia di Dio”, perché “la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno, e il dolore di ciascuno è la croce di Dio”. Si apre, così, nella riproposizione di una vicenda storica tragica e apparentemente inspiegabile – e nel simultaneo concepimento di una cornice di soverchiante e universale sofferenza religiosa – l’adesione ad un criterio di verità che non può che essere esistenziale e totalizzante.
Due libri recenti e interessanti… sul Manzoni nevrotico e sulle sue due mogli
Ci sono piccoli volumi che dischiudono ampie possibilità di scoperta e approfondimento. Come questa pubblicazione, edita da il Mulino nel 2014. Raccoglie la trascrizione, riordinata, delle “puntate” che più di vent’anni fa un importante studioso di storia romana aveva dedicato ad Annibale per la trasmissione radiofonica Alle Otto della Sera. Erano state già riproposte, anche in forma scritta per le edizioni della RAI, e oggi sono rimaste disponibili online. Sono una piacevole lettura. D’altra parte, il comandante cartaginese, il protagonista della seconda guerra punica che ha sbaragliato le legioni romane alla Trebbia, al Trasimeno e a Canne, è una figura quasi mitica. Non può non affascinare. Inoltre Annibale è uno dei personaggi storici di cui ci si rammenta sempre qualcosa. Così è anche per me, se non altro per le nozioni acquisite in alcune ore passate, a suo tempo, in compagnia dell’abile e avvincente narrazione di Gianni Granzotto (per sincera curiosità, ma anche per compensare il polpettoso e romanzato peplum di riferimento, quello del 1959, con un baldanzoso Victor Mature nei panni del condottiero). Il fatto è che il valore del saggio proposto da il Mulino va al di là delle affezioni per gli eroi di gioventù. Giovanni Brizzi, certo, fa quello che ci si aspetta da un’agile, ma precisa, introduzione divulgativa: di Annibale ricostruisce le origini, il contesto familiare, l’educazione, i progetti, le tattiche e le strategie, e anche la sconfitta nella piana di Zama, ad opera di Publio Cornelio Scipione, con successivi caduta, esilio e morte. Non manca, ovviamente, di dare anche alcune coordinate, sintetiche ma nitide, sulla storia, e sul momento specifico, delle due potenze allora in conflitto, Cartagine e Roma. Ma l’Autore riesce pure a introdurre i non addetti ai lavori a un aspetto di fondamentale importanza. Riguarda le articolate chiavi interpretative che sono offerte dalla storia militare. Può sembrare scontato, nel caso di Annibale. Perché decrittare i segreti e le astuzie che hanno favorito la prevalenza, in battaglia, di uno schieramento anziché di un altro è molto interessante. Viene voglia di partire subito alla volta del lago Trasimeno, per camminare sulla scena delle operazioni di quel famoso scontro. Tuttavia ciò che offre la storia militare è una prospettiva che, in questo caso, aiuta a capire in maniera efficace il confronto tra l’approccio latino originario e il lascito maturo della cultura ellenistica, con un risultato finale, quasi un salto evolutivo, che, in un’esperienza drammatica, distruttiva e del tutto spiazzante, e grazie al tirocinio svolto da Scipione (che dell’avversario si rivela quasi un apprendista), ha fatto crescere e reso egemone lo stato romano. Analogamente, la stessa prospettiva consente di avvicinarsi ai più classici problemi delle total wars, dei conflitti, cioè, che, non solo nell’antichità, sono stati talmente intensi e decisivi dal determinare trasformazioni permanenti sui luoghi, sulle istituzioni e sulle civiltà che vi sono restati coinvolti. Così è accaduto, rispetto alla campagna militare di Annibale, per gli effetti a lungo termine che essa ha determinato sul meridione d’Italia, sulla politica interna e internazionale di Roma, e sugli equilibri socio-economici del Mediterraneo. Si può proprio dire che, di fronte ad Annibale, ci sono stati un prima e un dopo, e che questo è più che un buon incentivo a navigare nei due grossi tomi della ricerca che vi aveva dedicato Toynbee, uno degli storici più intelligenti del Novecento (e del quale attualmente, in tempi di concitato interesse geopolitico, andrebbe letto tutto, o quantomeno l’illuminante Il mondo e l’Occidente). Ecco, le pagine di Brizzi sono come scatole cinesi, per questo meritano di essere frequentate.