Si può identificare un autore solo con la sua produzione e con il flusso di significati che ne possono derivare? Oppure conta di più la dimensione soggettiva? Sono questioni classiche, per la cui risposta occorre assumere, preliminarmente, posizioni ben più complesse. Quando, poi, ci si imbatte nel pensiero di Foucault, il problema si rivela ancor più difficile. Perché non c’è dubbio che da quel pensiero, e dai testi che lo hanno veicolato, ha avuto origine una serie tuttora proficua di re-interpretazioni, declinazioni o, addirittura, nuove correnti filosofiche. L’opera foucaultiana, pertanto, si staglia come un dato autonomamente generativo. Eppure non c’è dubbio, allo stesso tempo, che quell’opera, anche nelle sue virtù seminali, è il frutto di un’esperienza formativa  personale e costante; di un itinerario individuale pressoché irripetibile, le cui scelte sono più che mai avvinte alle virtù e ai condizionamenti di un intero sistema socio-culturale e accademico, quello francese, traguardato nei profili dei suoi protagonisti e nell’attrito con i più importanti eventi di un certo periodo storico. Pertanto anche l’individuo Foucault, immerso nel suo tempo, non può essere trascurato. Della fecondità di questi intrecci – tra oggettività di un lascito intellettuale e irriducibilità di un percorso esistenziale – la preziosa biografia di Eribon – comparsa nel 1989, riedita con aggiornamenti nel 2011 e riproposta in Italia, da Feltrinelli, dieci anni dopo la prima edizione del 1991 – rappresenta la migliore e più ricca dimostrazione. Che, peraltro, non rinuncia a sintetizzare in maniera assai efficace i poli sostanziali di una riflessione tanto cangiante quanto coerentemente evoluta.

Sul piano delle opere, il Foucault de Storia della follia nell’età classica (1961) non è lo stesso de Le parole e le cose (1966); né quest’ultimo coincide con l’autore de L’archeologia del sapere(1969) o di Sorvegliare e punire (1975) o de La volontà di sapere (1976). E pure i famigerati corsi al Collége de France (come, ad esempio, Bisogna difendere la società-1975/1976 o Nascita della biopolitica-1978/1979) sono altra cosa ancora. C’è da ammettere che la mutevolezza, o il tormento, non è da meno nelle vicende della carriera universitaria o dell’impegno pubblico: ambiti, entrambi, in cui Foucault sa essere eccentrico, urticante, antipatico, istintivo, politicamente scontroso e schierato, ambiguamente profetico, ma anche accomodante, ligio al dovere d’ufficio, instancabile nell’organizzazione e nell’aggregazione di persone e cose, cosciente del galateo istituzionale, strategico nelle conoscenze e nelle relazioni sociali, intelligentemente conservativo. Possono sembrare lineamenti di un profilo contraddittorio, talvolta opportunistico e talaltra passionale. In realtà sono aspetti che, nel racconto di Eribon, risuonano di libertà e indipendenza; di un’ambizione onnipresente, che non rinuncia mai alla peregrinazione, al viaggio, al confronto (dalle prime esperienze giovanili, svedesi, polacche e tunisine, alle grandi trasferte della maturità, in Brasile, Stati Uniti e Giappone). E che non rinuncia neanche all’azzardo (come nel caso del reportage in Iran e dei presentimenti sul futuro dell’Islam). In effetti Foucault è costantemente alla ricerca del luogo e della condizione congeniali, in cui specchiarsi ed essere riconosciuto. La scrittura fa parte dello stesso viaggio, visto che, come ricorda Eribon, secondo Foucault si scrive per essere amati. E anche la forma e la sequenza con cui un pensatore si esprime, già sul piano editoriale, non possono che riflettere questa istanza di rimodulazione e adeguamento progressivi (ne sono plastica espressione le riprogettazioni continue dei volumi dell’opera sulla Storia della sessualità).

La biografia, peraltro, riesce a isolare intuizioni ricostruttive e profili metodologici distintivi e costanti, e a restituire così il ritratto di uno studioso a suo modo esemplare. A Foucault, come è noto, si devono acquisizioni importanti: sui rapporti, nell’evoluzione del pensiero occidentale, tra normalità e patologia; sulla formazione, tra il Diciassettesimo e il Diciannovesimo secolo in particolare, della c.d. società disciplinare e della sua varia tecnologia di misurazione, valutazione, classificazione, controllo, inclusione/esclusione; sul rapporto tra pratica moderna delle pene e scienze umane; sulla natura e sull’origine del potere (che deriva dai molteplici effetti di divisione che percorrono l’insieme del corpo sociale: in questo senso, “il potere viene dal basso”); sull’indispensabilità, per ogni società, e per ogni sistema di giustizia, di un’interrogazione continua sulle proprie istituzioni; sul fatto che al governo delle persone è funzionale non solo l’obbedienza, ma anche la manifestazione piena, da parte dei governati, di ciò che si è; sulla remotissima nascita, nelle tecniche della cura di sé e nelle morali dell’antichità, dei laboratori in cui si forgiano specifici modi di assoggettamento; etc. Dell’esperienza foucaultiana, comunque, ciò che ancor più colpisce è la commistione strutturale tra riflessione teorica e indagine storica, quest’ultima effettuata sempre sul campo (negli archivi, con i documenti, con le testimonianze materiali di specifiche prassi e organizzazioni…): perché, per fare ricerca, “bisogna andare in fondo alla miniera”. In questo modo, la filosofia non solo si mescola alla storia, ma si imbatte (e si interroga, dialogando) con il diritto, con la psicologia, con la religione, con la letteratura, con l’economia. In un’età di forte enfasi sull’interdisciplinarità nella ricerca scientifica, tornare a Foucault è quanto mai formativo.

Recensioni (di S. Catucci; di M. Cicala; di M. Marchesini; di R. Ronchi)

L’Autore presenta il suo libro

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Il sottotitolo di questo saggio – il cui titolo proviene da un’espressione di Rossana Rossanda, utilizzata in un carteggio con l’Autore – è “Una storia delle Brigate rosse”. Tuttavia, a differenza di quanto la specificazione possa far presagire, Luzzatto non si occupa delle vicende, in generale, della nota formazione terroristica. Si concentra, invece, su nascita, evoluzione e parabola della sola colonna genovese. Allo scopo, però, di tracciare un metodo di indagine utilizzabile anche per altri contesti locali e di trarre – comunque – alcune riflessioni di sostanza, ipoteticamente valide a rivelare qualcosa di nuovo sul complessivo retroterra socio-culturale del fenomeno brigatista. O, più precisamente, sulla valenza non secondaria che specifici fermenti di esperienza, come di pensiero, avrebbero avuto nel lento apprendistato e nel radicamento delle convinzioni più profonde dei brigatisti, regolari e non. Per raggiungere questo obiettivo, l’Autore privilegia sin dall’inizio due scelte. Da un lato, si dedica soprattutto alla figura di Riccardo Dura – l’uccisore di Guido Rossa (cui Luzzatto ha da poco dedicato un altro volume) – qui definito come terrorista perfetto, perché rimasto sconosciuto ai più fino al drammatico scontro a fuoco di via Fracchia, dove ha perso la vita. Dall’altro, Luzzatto parte da lontano, ricostruendo l’interazione, in particolare, tra certe sensibilità della sinistra extraparlamentare e del mondo cattolico post-conciliare e l’esistenza di sacche di marginalità via via emergenti nelle compagini dei lavoratori emigrati dal Mezzogiorno e delle loro famiglie. Dopodiché si susseguono – o si inseguono – tante storie individuali e familiari, collettive e politiche: tutte rigorosamente mappate sulle strade, nei vicoli e sulle piazze del capoluogo ligure. Come in altre precedenti ricerche, lo storico genovese, oggi in forza alla University of Connecticut, si distingue per originalità di approccio, integrazione di fonti (quelle orali svolgono un ruolo significativo), capacità narrativa e attitudine a far discutere.

Non c’è dubbio che, nel suo itinerario, Luzzatto lascia fuori l’operaismo in senso stretto o le teorie sulle interferenze dei servizi di intelligence. E, al contempo, enfatizza il modus operandi e le traiettorie degli intellettuali di provenienza accademica (nel caso genovese, Enrico Fenzi e Gianfranco Faina), ma anche i cambiamenti di contesto e di sensibilità, e di critica alle vecchie istituzioni di discriminazione e segregazione sociale (carceri, manicomi, istituti di rieducazione). Su alcuni recensori la prospettiva seguita da Luzzatto ha sortito impressioni diametralmente opposte, eppure critiche: c’è chi considera la ricerca come la combinazione di lacune inescusabili e fuorvianti, avvinte da un percorso di pura immaginazione; altri, invece, lamentano un processo di sostanziale nobilitazione delle figure dei brigatisti e delle loro ragioni. Al lettore meno esperto questi giudizi non sono del tutto decifrabili. Ma è un po’ forzato attribuire all’Autore intenzioni cui egli manifestamente non è accostabile. È vero, ad esempio, che Luzzatto dà peso ai fermenti socio-culturali che animano gli anni Sessanta e Settanta, ma è altrettanto vero che non ne fornisce un quadro denigratorio, né segue (anzi, lo critica expressis verbis) il famoso teorema Calogero sul ruolo “direttivo” dei cc.dd. “cattivi maestri”. Pur ritenendo, simultaneamente, che alcune intuizioni delle indagini avviate dagli uomini del generale Dalla Chiesa fossero corrette. Ciò che, dopo tutto, è interessante, di Dolore e furore, è il tentativo – come è stato ben detto – di fornire un’antropologia del brigatismo; e di farlo – si può aggiungere – a partire da un’attenta ricognizione di luoghi, documenti e testimonianze, per ricavarne piste e metodi di approfondimento qualitativi capaci di attraversare trasversalmente, e così di testare, le interpretazioni finora più diffuse. È senza dubbio un libro su cui meditare a lungo.

Recensioni (di S. Calamandrei; di P. Persichetti)

Un’intervista all’Autore

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In una sorta di lungo monologo, interrotto solo dalle necessarie cadenze dei pasti e del riposo notturno, un anziano reduce della Guerra Civile americana racconta uno spezzone della sua esperienza bellica. È stimolato da una giovane studentessa universitaria. Lo ha trovato dopo una lunga ricerca: vuole sapere, dalla viva voce di un testimone diretto, se è vero, o meno, che, durante una certa battaglia, l’esercito sudista si è reso colpevole di un orrendo crimine di guerra nei confronti di un ampio gruppo di persone di colore. Di quei negri, cioè, che hanno osato prendere le armi contro i propri padroni. Non è un’intervista facile. Da un lato, infatti, il vecchio Dick Stanton si perde in aneddoti e storie di vario genere, e fatica ad arrivare al punto, che alla fine si rivela comunque in tutta la sua durezza. Dall’altro, poi, l’intervistatrice, che pure proviene dal sud, si sente a disagio, perché capisce di avere radici intrise nella stessa cultura. A leggere i commenti che alcuni lettori hanno lasciato sulle principali piattaforme di vendita online, si resta un po’ spiazzati. Non sono pochi – anche tra coloro che si dichiarano affezionati fans del Barbero storico e saggista – a esprimere una qualche delusione. I motivi della critica, per lo più, sono questi: la trattazione dell’eccidio teoricamente posto al centro della trama arriva troppo tardi; il resoconto in prima persona è prolisso, perché affidato al flusso di coscienza dell’ex soldato; i grandi temi sottesi alla dinamica dello schiavismo e del conflitto socio-economico vengono disciolti nei ricordi rapsodici della voce narrante; etc. 

Ciò premesso, occorre affermare, invece, che Alabama è un testo assai riuscito. Chi, in Italia, volesse studiare la guerra di secessione in modo approfondito non potrebbe che prendersi l’ormai classico (ma equilibrato e assai completo) libro di Luraghi. Chi, viceversa, volesse immergersi in una prova letteraria sottilmente allusiva, ma non meno efficace – se si vuole anche a mera preparazione suggestiva di un successivo lavoro di scavo – dovrebbe sicuramente affidarsi a questo romanzo di Barbero. Che rievoca molto bene un contesto, una memoria, un’abitudine, un tessuto di credenze e di pratiche, facendolo, peraltro, con un andamento faulkneriano, in tutto e per tutto adatto al soggetto. Peraltro l’Autore non è mai indulgente, non segue – in altri termini – le posizioni (discusse, quanto argomentate) di Shelby Foote: in proposito, la lunga attesa dell’episodio centrale, disseminata da digressioni disorientanti, non è altro che un espediente per enfatizzare una climax, un crescente trascorrere all’evento per il tramite dello stratificarsi, via via più evidente e conseguente, suoi presupposti morali e materiali. Ma l’aspetto che più convince è il progredire del turbamento ambiguo della studentessa, con un’intenzione (propria dello scrittore) che vuole indirettamente spiegare anche a noi lettori, contemporanei, e come tali apparentemente lontani da quegli scenari, la genesi incrementale e apprenditiva dei sentimenti e delle azioni collettivi più oscuri e violenti. In definitiva, anche quando si cimenta con il genere del romanzo, Barbero non smette di raffigurare in modo convincente e performativo interi spaccati del passato. Dimostrando, in tal modo, che il suo segreto è una fortissima, e invidiabile, capacità di immedesimazione.

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Il protagonista di questo romanzo è Marcello Gori, trentenne viareggino che, largamente fuoricorso, si laurea in lettere all’Università di Pisa. Presto, del tutto inaspettatamente, vince una borsa per il dottorato di ricerca. Non può avere occasione migliore: non tanto per imboccare finalmente una possibile strada professionale, quanto per starne ancora lontano e fuggire dalle responsabilità cui il padre lo richiama da tempo. Il mondo accademico, però, si propone subito in maniera grottesca, con tutti i modi, i riti e le storture che gli attribuiscono i più noti e accreditati stereotipi. È naturale che, pur orientato dai consigli di Carlo, un assegnista preparatissimo che pare essergli amico, Marcello si senta un pesce fuor d’acqua. La sua guida poi – il Chiarissimo Prof. Sacrosanti, mentore dello stesso Carlo e di Pier Paolo, un dottorando ben più a suo agio di Marcello – lo mette sulle tracce dell’opera letteraria di Tito Sella, membro negli anni Settanta di uno sgangherato gruppo pararivoluzionario di provincia, e condannato all’ergastolo per alcuni gravi reati commessi dalla sua banda. Sembra proprio un’esperienza priva di particolare respiro. Tanto più che i primi approcci critici di Marcello quasi annegano nel corso dei dibattiti puntuti di un grande congresso di italianistica comparata. Nonostante ciò, il destino spinge il protagonista fino a Parigi, a consultare gli archivi di Tito Sella e a vivere pro tempore l’esperienza del tipico giovane studioso italiano all’estero. In quel contesto, a dispetto dei consigli di Sacrosanti, Marcello si immerge, e si confonde, nella traiettoria esistenziale del suo personaggio, immaginandone nei dettagli il romanzo autobiografico. Lo straniamento lo porta ad un senso di improvvisa liberazione, con incontri e abbandoni sorprendenti. Fino al forzato ritorno a casa, dove apprende di un evento tragico che lo scuote profondamente e lo porta, come in un giallo, a rivedere la pista seguita fino a quel momento, a fare una scoperta potenzialmente sensazionale e a compiere, per la prima volta nella sua vita, una scelta davvero consapevole.

La ricreazione è finita possiede tutte le stimmate del potenziale successo editoriale. In primo luogo, solletica con arguzia i palati di chi ama dissacrare il mondo universitario e i suoi principali attori. Ferrari, infatti, offre un vero e proprio repertorio del più assurdo e ipocrita galateo accademico: dal modo con cui si preparano le note di un saggio scientifico alle corse a ostacoli che si devono compiere per organizzare una conferenza e sistemare a dovere i diversi relatori. Di più: il romanzo è popolato di macchiette perfette, di figure (la dottoranda bionda, il Professor Morelli, Sacrosanti) che incarnano i classici tipi umani e le leggende personali di cui l’università è invariabilmente popolata, con le connesse povertà umane e intellettuali. Già questo, dunque, funziona benissimo. Oltre a ciò, si tratta di un romanzo di formazione, che per il solo fatto di riguardare il prototipo del vitellone degli anni Duemila non può che suscitare empatia. È il racconto di una specie di ravvedimento, di una presa di coscienza (anche questo è un fattore che i lettori di solito gradiscono) che si costruisce per opposizione all’artificiosità e all’ambiguità (che alla fine si rivelano estreme) dell’ambiente ipoteticamente colto, illuminato e impegnato in cui essa matura. Forse il terminale ultimo della storia, il punto di caduta del protagonista e delle sue decisioni finali, è disegnato in modo eccessivamente rapido, quasi sommario, come un fulmine a ciel sereno. E forse la scrittura è talvolta discontinua, alternando spezzoni di osservazione profonda o concentrazione comica, e a tratti sarcastica, a lunghi brani (talvolta superflui e) meramente narrativi. Ma occorre ripeterlo: gli ammiccamenti sopra descritti possono coprire qualsiasi maniera, ogni difetto. Sicché, nel complesso, il romanzo gira, eccome.

Il fatto è che – al di là di quanto può verosimilmente piacere – l’originalità di questo libro – il cui titolo fa ironicamente il verso sia ad una famosa frase di De Gaulle, sia a un discusso saggio di Roger Abravanel – si scopre meglio nella sua parte apparentemente più ingenua, ossia nel modo con cui rappresenta la dialettica tra vita e letteratura, tra ragioni del cuore e ragioni della testa. È profilo che si può apprezzare su due livelli, quello che più riguarda il protagonista, e quindi l’io narrante e alter ego dell’Autore, e quello che coincide con il soggetto-oggetto della finzione, Tito Sella, raffigurato e comparato con gli eroi delle sue opere. Il primo livello si spiega semplicemente. Se da un lato la somma superficialità di Marcello è il vizio che ne caratterizza meglio la personalità, è indubbio che è proprio questa virtù – un approccio spontaneo alle cose, diremmo – ad averlo protetto dall’eccesso dell’intelletto: ad averlo, cioè, tenuto “a distanza dal baratro in cui scivola chi si concede integralmente, senza remore e senza protezioni, con il rischio di essere risucchiato dall’abisso senza nemmeno rendersene conto” (p. 431). Il secondo livello, invece, è più complesso. Così come Marcello si scopre vittorioso nel farsi del suo formale fallimento, anche Sella viene riscoperto e riabilitato a modello di dignitosa coerenza proprio allorché se ne rivelano le umane paure, gli emotivi dietrofront e i successivi, umanissimi rimorsi. Solo i maestri – come Sacrosanti – sono dogmatici e perfetti, sanno come comportarsi e come, e dove, riuscire ad affermarsi, con il trasformismo e il perbenismo più assoluti, e abdicando a ogni innocenza. Che viceversa può darsi meglio nella dignitosa sconfitta di una bruciante rinuncia.

Recensioni (di D. Cacopardo; V. Calzolaio; S. Mariani; L. Martini)

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Ci sono piccoli volumi che dischiudono ampie possibilità di scoperta e approfondimento. Come questa pubblicazione, edita da il Mulino nel 2014. Raccoglie la trascrizione, riordinata, delle “puntate” che più di vent’anni fa un importante studioso di storia romana aveva dedicato ad Annibale per la trasmissione radiofonica Alle Otto della Sera. Erano state già riproposte, anche in forma scritta per le edizioni della RAI, e oggi sono rimaste disponibili online. Sono una piacevole lettura. D’altra parte, il comandante cartaginese, il protagonista della seconda guerra punica che ha sbaragliato le legioni romane alla Trebbia, al Trasimeno e a Canne, è una figura quasi mitica. Non può non affascinare. Inoltre Annibale è uno dei personaggi storici di cui ci si rammenta sempre qualcosa. Così è anche per me, se non altro per le nozioni acquisite in alcune ore passate, a suo tempo, in compagnia dell’abile e avvincente narrazione di Gianni Granzotto (per sincera curiosità, ma anche per compensare il polpettoso e romanzato peplum di riferimento, quello del 1959, con un baldanzoso Victor Mature nei panni del condottiero). Il fatto è che il valore del saggio proposto da il Mulino va al di là delle affezioni per gli eroi di gioventù. Giovanni Brizzi, certo, fa quello che ci si aspetta da un’agile, ma precisa, introduzione divulgativa: di Annibale ricostruisce le origini, il contesto familiare, l’educazione, i progetti, le tattiche e le strategie, e anche la sconfitta nella piana di Zama, ad opera di Publio Cornelio Scipione, con successivi caduta, esilio e morte. Non manca, ovviamente, di dare anche alcune coordinate, sintetiche ma nitide, sulla storia, e sul momento specifico, delle due potenze allora in conflitto, Cartagine e Roma. Ma l’Autore riesce pure a introdurre i non addetti ai lavori a un aspetto di fondamentale importanza. Riguarda le articolate chiavi interpretative che sono offerte dalla storia militare. Può sembrare scontato, nel caso di Annibale. Perché decrittare i segreti e le astuzie che hanno favorito la prevalenza, in battaglia, di uno schieramento anziché di un altro è molto interessante. Viene voglia di partire subito alla volta del lago Trasimeno, per camminare sulla scena delle operazioni di quel famoso scontro. Tuttavia ciò che offre la storia militare è una prospettiva che, in questo caso, aiuta a capire in maniera efficace il confronto tra l’approccio latino originario e il lascito maturo della cultura ellenistica, con un risultato finale, quasi un salto evolutivo, che, in un’esperienza drammatica, distruttiva e del tutto spiazzante, e grazie al tirocinio svolto da Scipione (che dell’avversario si rivela quasi un apprendista), ha fatto crescere e reso egemone lo stato romano. Analogamente, la stessa prospettiva consente di avvicinarsi ai più classici problemi delle total wars, dei conflitti, cioè, che, non solo nell’antichità, sono stati talmente intensi e decisivi dal determinare trasformazioni permanenti sui luoghi, sulle istituzioni e sulle civiltà che vi sono restati coinvolti. Così è accaduto, rispetto alla campagna militare di Annibale, per gli effetti a lungo termine che essa ha determinato sul meridione d’Italia, sulla politica interna e internazionale di Roma, e sugli equilibri socio-economici del Mediterraneo. Si può proprio dire che, di fronte ad Annibale, ci sono stati un prima e un dopo, e che questo è più che un buon incentivo a navigare nei due grossi tomi della ricerca che vi aveva dedicato Toynbee, uno degli storici più intelligenti del Novecento (e del quale attualmente, in tempi di concitato interesse geopolitico, andrebbe letto tutto, o quantomeno l’illuminante Il mondo e l’Occidente). Ecco, le pagine di Brizzi sono come scatole cinesi, per questo meritano di essere frequentate.

Annibale secondo Alessandro Barbero

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Dal famoso autore di Fatherland e di altri bestseller è giunto quest’ultimo romanzo. Nella sua versione originale, Act of Oblivion, il titolo del libro richiama l’Act of Free and Generall Pardon Indempnity and Oblivion, approvato dal Parlamento inglese nel 1660, primo anno del governo “restaurato” di Carlo II Stuart. Si trattava di una sorta di amnistia (un regime normativo, per la verità, molto articolato e ricco di eccezioni) per i crimini variamente commessi durante la guerra civile e la “dittatura” di Oliver Cromwell. Da essa erano rimasti esclusi soprattutto i regicidi, coloro, cioè, che avevano partecipato alla condanna o sottoscritto l’ordine di decapitazione del re Carlo I e che, perciò, sono stati oggetto di una vera e propria caccia. Chi è stato catturato, poi, è stato sottoposto a un’esecuzione terribile e prolungata. Harris ricostruisce fedelmente la fuga e l’inseguimento di due regicidi, Edward Whalley e William Goffe, ex ufficiali dell’esercito puritano, realmente esistiti e tra loro imparentati. Essi non sono, però, gli unici protagonisti di queste vicende. C’è anche un personaggio di pura invenzione, un funzionario del Privy Council del sovrano e capo dell’intelligence, Richard Nayler, che, animato da una personale e inarrestabile sete di vendetta, cerca i fuggitivi ovunque e in ogni modo. La scena si divide tra l’Inghilterra e le colonie d’Oltreocenano, dove i due veterani, assistiti da alcuni correligionari, sono costretti a vagare da un nascondiglio all’altro e a vivere ora come reclusi, ora in stato quasi selvaggio. In un susseguirsi di illustrazioni d’epoca assai dettagliate e di accelerazioni quasi western, le avventure proseguono fino all’epilogo, nel 1674, quando si consuma un ultimo e drammatico regolamento di conti.

Il racconto ha alcuni pregi. Scava in una pagina di storia non troppo conosciuta e descrive abilmente luoghi, situazioni e persone, facendo calare il lettore assai bene nel tempo che fa da sfondo alla trama. Tratteggia in modo efficace il fervore e il milieu dei seguaci di Cromwell, spiegando indirettamente moltissime cose sui rapporti tra il retroterra ideologico delle rivoluzioni inglesi e la futura rivoluzione americana. Descrive, infine, con precisione, usando lo stratagemma del memoriale del colonnello Whalley, alcuni snodi critici dell’ascesa e delle aspirazioni largamente utopistiche del New Model Army. Nonostante ciò, in Oblio e perdono c’è qualcosa che, di primo acchito, non torna. Sicuramente manca di risolutezza, una pecca che si traduce in un ritmo molto lento e in intermezzi talvolta noiosi. Ma soprattutto c’è – ed è forse alla base di questa indecisione – una tensione non completamente risolta tra due obiettivi che costantemente si ripropongono e si alternano: da un lato, la decostruzione dei processi, anche psicologici, individuali come collettivi, di chi si ostina a restare ostaggio di pulsioni totalizzanti (il messaggio è: se fare giustizia è necessario, è altrettanto necessario superare il passato e abitare il presente); dall’altro, la riflessione su di uno stadio preciso dell’evoluzione delle istituzioni inglesi, presa come pretesto per valorizzare l’importanza di un’intera tradizione costituzionale e dei suoi equilibri complessi e concretissimi (e, così, della monarchia costituzionale inglese, indipendentemente dall’identità o dalla moralità del “reggente”). Il primo livello, ovviamente, non esclude il secondo. Anche se, nella narrazione, è proprio il primo che pare prevalere, specie nella conclusione, dove chi si salva – meglio: chi Harris immagina salvarsi – è chi appare oramai propenso a cominciare davvero una nuova vita. Occorre aspettare le ultime pagine per sciogliere il dubbio e quello che sembrava un difetto potrebbe anche risultare un pregio, visto che continua a far lavorare il lettore, anche a libro chiuso.

Un’intervista all’Autore

La Guerra Civile inglese secondo Alessandro Barbero

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Yves le Breton è un influente e temuto inquisitore al seguito di re Luigi IX di Francia, partito verso l’Egitto per la settima crociata. La spedizione, avviatasi bene, conosce una drammatica battuta d’arresto a Mansura, dove una battaglia potenzialmente vittoriosa si trasforma giorno dopo giorno in un’esiziale sconfitta. Tanto da mettere a repentaglio la vita stessa del sovrano francese, preso in ostaggio con i suoi migliori cavalieri. Ad ogni modo, è nel corso delle prime fasi dello scontro che accade qualcosa di strano. Un manipolo di templari si introduce nella tenda del capo dell’esercito avversario, alla ricerca di qualcosa. Si capisce rapidamente che quella stessa cosa è anche oggetto delle attenzioni di un emiro della città assediata. Lo scaltro inquisitore capta subito la presenza di un segreto e si mette all’opera, indagando in loco e trovando alcune monete romane e un frammento di pergamena. Questo è solo il principio di un’avventura complessa e vorticosa, che dal delta del Nilo si svilupperà fino ad Acri e a Gerusalemme, tra battaglie e agguati, interrogatori e sospetti, inseguimenti e trame di palazzo. Il lettore sarà anche obbligato a fare qualche incursione indietro nel tempo, nella Roma di Nerone e delle prime persecuzioni nei confronti dei cristiani. Passo dopo passo, il racconto – che, per il tramite di un enigmatico e risoluto emissario, si arricchisce anche della incombente presenza dell’imperatore Federico II e della correlata suggestione geopolitica – svela le ragioni profonde delle inquietudini che agitano tutti i protagonisti, conducendoci, quasi in una ricerca archeologica, sulle tracce di Ponzio Pilato e della Passione di Cristo, e dunque al cuore di uno dei misteri religiosi più grandi.

Ho acquistato questo libro per tre ragioni: è selezionato nella sestina del premio Bancarella 2022; il suo Autore ha partecipato alla scrittura di un buon romanzo storico di qualche anno fa; al centro della trama è attivo un personaggio che potrebbe ricordare il domenicano Nicholas Eymerich, l’iconico eroe della brillante epopea creata da Valerio Evangelisti, recentemente scomparso. Occorre riconoscere che il contesto della – sfortunatissima – settima crociata è ricostruito in modo tanto avvincente quanto attento. Ne è da sottovalutare la bella caratterizzazione delle diverse figure che animano la scena e che qui sono evidentemente presentate ed esposte ad un primo assaggio di pubblico, in attesa di future prove (che del resto si sono materializzate: dopo questo volume è già stato edito Il tesoro del diavolo, come seconda puntata di quello che vuole essere un vero e proprio ciclo: Le cronache dell’inquisitore). Non si possono nascondere, però, alcuni punti deboli, che in parte hanno molto a che fare con un complessivo senso di deja vu. Che la trama si alimenti di una inchiesta, condotta con i ritmi della spy story, non è cosa nuova e a tratti si ha davvero l’impressione di trovarsi di fronte a un intreccio alla Dan Brown, tuttavia un po’ sbiadito. Come si può dire, d’altra parte, per il personaggio centrale dell’inquisitore, che a ben vedere impallidisce dinanzi all’efficacia, e alla disinvoltura, dello spietato ser Berto, finto mercante e acuto agente segreto della potente mano imperiale. Yves le Breton assomiglia soltanto all’Eymerich di Evangelisti, con un effetto che risulta troppo di maniera, perché certo non ripete la forza spiazzante dell’eroe di Evangelisti, eppure insiste meccanicamente su alcune posture che sollecitano un continuo confronto con l’originale, con il risultato di configurarne una sorta di svolgimento epigonico. Forse, in virtù di un processo paradossale, ma provvidenzialmente inverso, potrebbe succedere che le Breton faciliti, da parte dei molti non iniziati, la scoperta della figura di Eymerich: se fosse così, anche Nel nome di Dio avrebbe i suoi grandi, innegabili meriti.

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Per rappresentare il gesto dell’umiliazione più profonda, per ammettere i propri errori e ottenere la comprensione dell’avversario, andare – o venire – a Canossa è un’espressione diventata proverbiale. Sono in tanti, di solito, a ricordare che la sua origine è un famoso episodio di storia medievale, un momento notissimo della lotta per le investiture: l’atto di sottomissione e pentimento dell’imperatore di fronte al pontefice. Enrico IV, infatti, era rimasto esposto al freddo del rigido inverno del 1077, fuori dal castello di Canossa, in attesa del perdono di papa Gregorio VII, ospite della contessa Matilde. Ebbene, di quest’ultima ed enigmatica figura – di cui tuttora vi sono tracce visibili in chiese, monasteri e castelli disseminati tra l’Appennino modenese, la Garfagnana e la Lucchesia – sono in pochi a conoscere qualcosa. Con l’eccezione di Paolo Golinelli, che in Matilde e i Canossa – un testo di successo e più volte riedito – ricostruisce la genealogia, le politiche e il declino di una casata autorevole e forte, e capace di estendere la propria influenza su di un territorio assai ampio, dalla Toscana a Ferrara, da Modena, Parma e Mantova a Brescia e Verona.

Le fonti sono scarse (il riferimento, per lo più, è la Vita Mathildis del monaco Donizone, che è senz’altro “di parte”), ma l’Autore riesce a contestualizzarle, interpretandole con puntiglio e restituendoci scorci e letture affascinanti. Sul celebre avvenimento, ad esempio: per Golinelli, il vero vincitore, a Canossa, fu Enrico IV, che con la forza del suo esercito mise il pontefice sotto pressione e “strappò” un perdono che gli consentì di avviare un conflitto ancor più forte e decisivo. Ma le pagine più interessanti del saggio sono quelle che si riferiscono a fatti meno conosciuti, ai prodromi, per così dire, dell’epoca matildica: in particolare, all’origine quasi leggendaria della fortuna dei Canossa, con l’emergere nel X secolo di Adalberto Atto, allora vassallo del vescovo di Reggio, Adelardo, e ritrovatosi protettore di Adelaide regina d’Italia; poi alla graduale strategia – con Goffredo e Tedaldo – di alleanza sempre più stretta con la Chiesa e di espansione lungo il Po, con una fitta trama di operazioni immobiliari e fondazioni di nuovi monasteri (su tutti, quello di San Benedetto Po); e infine alla decisiva e ulteriore crescita, con Bonifacio, che si impone sul fratello Corrado e sposta il baricentro del dominio (ormai piccolo “Stato”) a Mantova, diventando anche signore della marca di Toscana, stringendo un’alleanza con l’imperatore Corrado II e sposando in seconde nozze Beatrice di Lorena. Da un certo punto di vista, è questo l’apice della grande stagione dei Canossa, che comincia ad entrare in crisi già con il misterioso assassinio di Bonifacio – che è il padre di Matilde – per qualcuno diventato troppo potente. 

Il saggio segue con spiccato piglio narrativo anche le vicende successive: il secondo matrimonio di Beatrice, con Goffredo il Barbuto, e la stretta alleanza con papa Leone IX; il conflitto con l’imperatore Enrico III, che rende prigioniere sia Beatrice, sia Matilde; il ritorno in Italia al seguito di papa Vittore II e l’inizio, nel corso delle successive elezioni papali, dell’escalation molto dura della contesa sulle relative prerogative imperiali. È in questo ambito che i Canossa, titolari del diritto all’accompagnamento dei pontefici, si conquistano un nuovo spazio di protagonisti, accanto ai più fieri portavoce della riforma ecclesiastica e, così, a fianco anche di Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII. Ed è sempre in questo contesto che Matilde emerge giovanissima, dovendo tuttavia affrontare ben presto la guerra con Enrico IV, l’erosione progressiva del dominio territoriale, la necessità di vendere gran parte dei suoi beni e di “donarli” alla Chiesa per salvarne l’integrità dinanzi ai rischi delle appropriazioni imperiali, la riconquista di feudi e città e la finale conciliazione con l’imperatore Enrico V. 

Il libro è ricco di tanti altri episodi e di passaggi curiosi: pittoresco quello sulle modalità della morte, insolita e atroce, di Goffredo il Gobbo, marito di Matilde; correttamente cauto quello sui discussi, “chiacchierati” rapporti tra quest’ultima e papa Gregorio VII; equilibrato quello sulla fatidica battaglia che Matilde avrebbe vinto vicino al Po contro l’esercito di Enrico IV. Non mancano, infine, alcune importanti digressioni: sul vero significato geopolitico della riforma ecclesiastica, ad esempio, e sull’intreccio tipicamente medievale tra sacro e profano; o sul rapporto tra il declino della grande feudalità e il risveglio delle città e delle comunità che le animano. Matilde e i Canossa, in definitiva, si può leggere in tanti modi: quasi come un romanzo, per le tante vicende di cui ripercorre i tratti salienti; come un saggio storico a tutti gli effetti, per apprezzarne il lavoro d’archivio e la capacità collegare il singolo tema con note di piccolo e grande contesto al contempo; ma anche come una specie di guida, per scoprire un Appennino ricco di tesori e tuttora parlante.

Un portale online interamente dedicato a Matilde di Canossa

Enrico IV a Canossa, secondo Alessandro Barbero

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Tra gennaio e febbraio dell’80 a.C., nella Roma di Lucio Cornelio Silla dictator, si intrecciano due diverse avventure: una ha per protagonista un centurione, Tito Annio Tuscolano, scortato dai suoi fidi compagni, Astragalo e Gabello; l’altra vede impegnato Marco Tullio Cicerone, al tempo ancora poco noto, nel suo primo importante processo penale. Tito Annio è stato ingaggiato dal potentissimo Marco Licinio Crasso e deve scoprire dove si rifugia Mezzo Asse, noto gestore di lupanari e unico superstite di una sanguinosa strage, nella quale ha trovato la morte anche un ricco e potente commerciante di tessuti, Marco Villio Cincio. Cicerone, invece, è stato contattato da Cecilia Metella Balearica Maggiore, influente e rispettata ex vestale, che vuole assicurare una difesa a Sesto Roscio, un imprenditore agricolo accusato dai cugini di aver ucciso il proprio padre. La materia su cui si intrecciano i due intrighi è rovente. I parenti di Cincio sono pronti a tutto, pur di vendicarlo. Soprattutto, Cincio, che era in stretto collegamento con il vittorioso ed emergente Pompeo, sarebbe diventato presto senatore. Qualcuno, forse, lo voleva morto? Non meno difficile è la situazione in cui si trova Cicerone: come mai i principi del foro hanno rifiutato di assistere Sesto Roscio? Perché ad affiancare il giovane oratore si presentano anche tre focosi e ambiziosi rampolli di famiglie notoriamente avverse allo strapotere di Silla? Mentre Tito Annio e i suoi compagni, tra risse, grandi bevute e lunghi inseguimenti, sono alla caccia di Mezzo Asse, Cicerone prepara meticolosamente il processo, maturando rapidamente la convinzione, pur riuscendo vittorioso, di essere egli stesso al centro di un inganno quanto mai torbido. È l’idea che, alla fine, si farà tragicamente anche Tito Annio, quando le due storie si uniranno, portando alla luce i collegamenti tra i delitti e la matrice cinicamente affaristica che li lega a Crisogono, spregiudicato e intoccabile protetto di Silla.

Romanzo storico e thriller allo stesso tempo, Il diritto dei lupi è una piacevole opera prima, che si legge con un certo trasporto, risultando perfettamente adatta allo svago da ombrellone. La lunghezza (si tratta di più di 700 pagine…) potrebbe spaventare – e non c’è dubbio che, forse, qualche passaggio è un po’ troppo prolisso – ma la scrittura è briosa ed efficace. Riesce suggestiva, inoltre, l’idea di trarre spunto da una reale vicenda processuale, quella di cui reca traccia la Pro Sexto Roscio Amerino, autentica orazione ciceroniana, che vien voglia di leggere integralmente. È come se gli Autori avessero voluto ricostruire il cantiere di quel testo, immaginando i timori, le ambizioni e anche le debolezze di un giovane, promettente avvocato, colto e intelligente, eppure ancora ingenuo, combattuto tra le virtù pratiche dei sofismi e la ricerca della verità. Sullo sfondo, poi, c’è la vitalità complessa di Roma antica, ricostruita e vissuta attraverso le gesta di Tito Annio, Astragalo e Gabello, e rappresentata molto bene nel contrasto tra il suo essere epicentro e modello etico, culturale e istituzionale, e la sua vocazione, anch’essa eterna, e purtroppo attualissima, a costituire il “mondo di mezzo” per eccellenza. Come a ricordarci, in sostanza, che tra le profondità oscure della Suburra e le ambizioni che si coltivano attorno ai palazzi del potere c’è sempre stata più di qualche comunicazione. L’ultimo dato positivo di questo romanzo è la figura stessa di Tito Annio, l’ex legionario di lunghe e dure campagne belliche, senza paura, in parte rozzo e in parte addomesticato, ma in ogni caso irriducibile, integro e a tratti quasi romantico. In poche parole, è il perfetto protagonista per ulteriori, auspicabili scorribande letterarie.

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Pierre Dantherieu, un diplomatico francese, è arrivato a Vienna per partecipare ai lavori di una Commissione internazionale, incaricata di dettare le regole per la navigazione sul Danubio. È il 1927 e la vecchia capitale dell’ex Impero non è più la città di un tempo. Tra le sue strade si aggira, nostalgico, anche Napoleone de Maleen-Louis, che fino al 1914 aveva lavorato presso l’ambasciata austro-ungarica a Londra e ora, privato del suo status originario, si trova a fronteggiare imbarazzanti ristrettezze economiche. Un improvviso e fortunato incontro, però, gli permette di tornare nel giro, al servizio della segreteria della Commissione internazionale. Qui non incrocia soltanto Dantherieu, che già aveva conosciuto negli anni londinesi. Si accompagna, infatti, a due singolari collaboratori, il misterioso e taciturno Massimiliano Dego e la puntuale e affascinante Théa Dux. Proprio questi personaggi – che non sono ciò che sembrano – si troveranno ben presto al centro di una trama geopolitica dagli esiti quasi sorprendenti, con la complicità dell’erudito ed eccentrico professor Moessel e per la felicità del navigato Napoleone, che tra ricordi struggenti e sogni impossibili verrà premiato e riuscirà a riabbracciare il milieu britannico che più gli è congeniale. Di questo romanzo dimenticato, pubblicato nel 1933 e finora inedito in lingua italiana, colpisce in primo luogo la rappresentazione dettagliata, rigogliosa e ricercatissima di un altro mondo: di un’epoca, già allora tramontata, di grandi ma ormai scomparse dinastie, di ricevimenti sontuosi e raffinatezze irripetibili, di bellezze e intelligenze tenaci ed elegantissime, tanto corteggiate quanto sfuggenti. Sembra quasi, quello di Ghyka, un poema sull’Europa della nobiltà e della tradizione, che la prima guerra mondiale aveva messo irrimediabilmente in ginocchio e che di fronte alle crisi sociali ed economiche del dopoguerra e alle montanti dittature pare ancor più soccombente. È così solo in parte, perché il racconto da favola nasconde evidentemente il profondo, consapevole tormento del suo autore. Da un lato, Ghyka lascia immaginare che il riscatto del vecchio continente potesse venire da un inedito connubio, autenticamente mitteleuropeo, tra le più gloriose stirpi e le forze più generose delle nuove nazioni. Dall’altro lato, però, la sua onniscienza di narratore tradisce la più intima disillusione, perché nel momento in cui inscena l’incantamento perfetto riesce a farsi profeta delle imminenti sventure, intuendo anche l’identità dei futuri vincitori. Piccola glossa finale: l’Autore – che coltiva una forma espressiva suadente, quasi ammaliante, e che indugia nello stimolare l’importanza di ricorrenze o coincidenze magiche o fatali – si cela qua e là dietro l’identità di molte delle sue creazioni, e anche dietro l’acutezza di alcune analisi storiche e artistiche; la lettura dell’opera di Bruegel il Vecchio non impressiona solo Dantherieu, ma promette attimi di soddisfazione pure per i palati più esigenti.

Recensioni (di S. Viva; di D. Lunerti; di S. Solinas; di E. Trevi)

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