Il sottotitolo di questo saggio – il cui titolo proviene da un’espressione di Rossana Rossanda, utilizzata in un carteggio con l’Autore – è “Una storia delle Brigate rosse”. Tuttavia, a differenza di quanto la specificazione possa far presagire, Luzzatto non si occupa delle vicende, in generale, della nota formazione terroristica. Si concentra, invece, su nascita, evoluzione e parabola della sola colonna genovese. Allo scopo, però, di tracciare un metodo di indagine utilizzabile anche per altri contesti locali e di trarre – comunque – alcune riflessioni di sostanza, ipoteticamente valide a rivelare qualcosa di nuovo sul complessivo retroterra socio-culturale del fenomeno brigatista. O, più precisamente, sulla valenza non secondaria che specifici fermenti di esperienza, come di pensiero, avrebbero avuto nel lento apprendistato e nel radicamento delle convinzioni più profonde dei brigatisti, regolari e non. Per raggiungere questo obiettivo, l’Autore privilegia sin dall’inizio due scelte. Da un lato, si dedica soprattutto alla figura di Riccardo Dura – l’uccisore di Guido Rossa (cui Luzzatto ha da poco dedicato un altro volume) – qui definito come terrorista perfetto, perché rimasto sconosciuto ai più fino al drammatico scontro a fuoco di via Fracchia, dove ha perso la vita. Dall’altro, Luzzatto parte da lontano, ricostruendo l’interazione, in particolare, tra certe sensibilità della sinistra extraparlamentare e del mondo cattolico post-conciliare e l’esistenza di sacche di marginalità via via emergenti nelle compagini dei lavoratori emigrati dal Mezzogiorno e delle loro famiglie. Dopodiché si susseguono – o si inseguono – tante storie individuali e familiari, collettive e politiche: tutte rigorosamente mappate sulle strade, nei vicoli e sulle piazze del capoluogo ligure. Come in altre precedenti ricerche, lo storico genovese, oggi in forza alla University of Connecticut, si distingue per originalità di approccio, integrazione di fonti (quelle orali svolgono un ruolo significativo), capacità narrativa e attitudine a far discutere.

Non c’è dubbio che, nel suo itinerario, Luzzatto lascia fuori l’operaismo in senso stretto o le teorie sulle interferenze dei servizi di intelligence. E, al contempo, enfatizza il modus operandi e le traiettorie degli intellettuali di provenienza accademica (nel caso genovese, Enrico Fenzi e Gianfranco Faina), ma anche i cambiamenti di contesto e di sensibilità, e di critica alle vecchie istituzioni di discriminazione e segregazione sociale (carceri, manicomi, istituti di rieducazione). Su alcuni recensori la prospettiva seguita da Luzzatto ha sortito impressioni diametralmente opposte, eppure critiche: c’è chi considera la ricerca come la combinazione di lacune inescusabili e fuorvianti, avvinte da un percorso di pura immaginazione; altri, invece, lamentano un processo di sostanziale nobilitazione delle figure dei brigatisti e delle loro ragioni. Al lettore meno esperto questi giudizi non sono del tutto decifrabili. Ma è un po’ forzato attribuire all’Autore intenzioni cui egli manifestamente non è accostabile. È vero, ad esempio, che Luzzatto dà peso ai fermenti socio-culturali che animano gli anni Sessanta e Settanta, ma è altrettanto vero che non ne fornisce un quadro denigratorio, né segue (anzi, lo critica expressis verbis) il famoso teorema Calogero sul ruolo “direttivo” dei cc.dd. “cattivi maestri”. Pur ritenendo, simultaneamente, che alcune intuizioni delle indagini avviate dagli uomini del generale Dalla Chiesa fossero corrette. Ciò che, dopo tutto, è interessante, di Dolore e furore, è il tentativo – come è stato ben detto – di fornire un’antropologia del brigatismo; e di farlo – si può aggiungere – a partire da un’attenta ricognizione di luoghi, documenti e testimonianze, per ricavarne piste e metodi di approfondimento qualitativi capaci di attraversare trasversalmente, e così di testare, le interpretazioni finora più diffuse. È senza dubbio un libro su cui meditare a lungo.

Recensioni (di S. Calamandrei; di P. Persichetti)

Un’intervista all’Autore

Condividi:
 

Come è stato scritto poco tempo fa, proprio in occasione dell’uscita di questo libro, Genova è un contesto ideale per l’ambientazione di un giallo, e ancor più per immaginare una serie di misteriosi casi da far risolvere a un qualche simpatico detective. Penso all’impareggiabile Bacci Pagano dei bei romanzi di Bruno Morchio – ma solo di quello pre-Garzanti e made in Fratelli Frilli, per intendersi – e la dimostrazione di questi assunti è presto fatta. Le povere signore Gallardo non costituiscono un’eccezione: la cosa bella del racconto, infatti, è l’intrico di vie, viuzze, creuze, piazze, piazzette e caruggi in cui i protagonisti talvolta sembrano muoversi come formiche. Vien quasi voglia di farsi uno Smartbox e correre nelle braccia della Superba.

Se c’è, invece, un aspetto che convince poco nel racconto, lo si può individuare in alcune situazioni e alcune figure un po’ troppo stereotipate. Ecco, se Paternostro ha peccato, lo ha fatto per abbondanza, scagliando all’interno della stessa trama troppi protagonisti convergenti: un libraio scapolo esperto in gialli, un antipatico professore di storia e un sagace poliziotto (che però assomiglia molto al Proteo Laurenti di Heinichen, solo un po’ più lento, perché incrociato con Maigret, vero nume tutelare dell’opera). Ciascuno di loro sarebbe stato sufficiente. Per di più, questi vengono fatti interagire attorno ad un frammentario diario ritrovato (un altro classico…), che mette a rischio la vita di uno di loro e che li conduce ben presto, tra intrighi finanziari di alti prelati, criminali di guerra in fuga e segreti della lotta partigiana, a riaprire una vecchia indagine, quella sulla strana morte di due anziane signore, Caterina Gallardo e Ines Dossi Bastimenti, trovate uccise nella loro villa. La storia, peraltro, parte proprio da Caterina, all’inizio del Novecento: e così il romanzo viene progressivamente montato, fino all’epilogo, mediante la suggestiva sovrapposizione di tempi e luoghi diversi.

In generale, si può dire che questa seconda prova del commissario Falsopepe – l’investigatore creato da Paternostro e già comparso in Troppo buone ragioni – è gradevole e può piacere a tanti lettori, anche se, in definitiva, sa un po’ di maniera e, profilo non trascurabile, se ne intuisce il finale molto prima delle pagine conclusive. Gli appassionati, comunque, potranno godere di alcune specifiche caratterizzazioni, assai riuscite e a loro modo inquietanti, come quella del cardinal Caffi e del giovane Attila. Un ultimo appunto critico, sul quale l’Autore verosimilmente non ha alcuna responsabilità, è la copertina, che è molto interessante ed ammiccante, senza tuttavia avere nulla a che fare con il contenuto del volume (a meno di non voler pensare che le tre signore in nero che fanno da sfondo al titolo siano, per avventura, le due anziane uccise e la loro domestica). Insomma, Le povere signore Gallardo ha tutti i crismi del tipico giallo estivo: ci ha consegnato qualche ora piacevole e ce ne dimenticheremo presto a settembre.

Condividi:
© 2024 fulviocortese.it Suffusion theme by Sayontan Sinha