9 libri per diventare esperti di tattica (da ultimouomo.com)

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Il vecchio è accompagnato da una ragazza e da un cane. Ha una meta precisa, vuole raggiungere Scano Boa, l’ultima isola sabbiosa tra la foce del Po e il mare. Lì potrà darsi alla pesca dello storione, per guadagnare al più presto i soldi che servono a pagare la multa che trattiene il figlio in prigione. È per questo che si è portato dietro la nipote, Flavia; per conservare ciò che gli resta di una famiglia che sembra sfuggirgli. Il guardiano del faro gli dà una mano, per cominciare. La sua determinazione è rabbiosa, e la fatica, le privazioni e l’ostilità degli altri pescatori non sembrano poterlo ostacolare. Trova un aiutante, il mulatto, e alcune catture vanno anche a buon fine. Lo domina, però, un’ossessione integrale, che finisce per allontanargli definitivamente anche Flavia e il giovane aiutante. In tanti non lo capiscono, perché sanno che la sua è un’ostinazione senza speranza e autodistruttiva. Il vecchio sa bene di che cosa si tratta: “non è che noi siamo cattivi, ma sono piuttosto le cose a renderci crudeli”. È una sfida con il fato che la vita gli ha riservato, una lotta con la fortuna e con la violenza degli elementi, la scarsità dei mezzi e la debolezza dell’età, una missione che si illude di poter compiere solo su quel terreno, di naufragio in naufragio, di umiliazione in umiliazione, fino ad una resa tragica e quasi scenografica. Con un riposo che pare essergli negato anche dopo la morte.

Cibotto se n’è andato l’estate scorsa, mentre ero preso da un trasloco. Ho cercato Scano Boa subito, per risentirne a caldo la voce, la corrente, e per lasciarmi commuovere. Ma tra gli scatoloni non l’ho più ritrovato. L’ho ricomprato usato qualche settimana fa, in questa piccola edizione tascabile, e l’ho apprezzato ancor più di quanto non avessi fatto alla prima lettura. Un Grande Veneto, Cibotto; innamorato della sua terra come lo sono stati Comisso, Parise e Zanzotto. Ma anche un grande talento epico, che tra Melville, Faulkner e Caldwell non sfigura. Il suo vecchio pescatore è come il capitano Achab; il Delta del Po è l’orizzonte di una lussureggiante e fagocitante Yoknapatawpha di acqua, di limo e di vento, proiettata verso il mare; e gli altri personaggi, tutti, sono le comparse di un ecosistema che le vuole costantemente nel loro destino, eterno e per ciò vincente, di povertà, di cinismo, di lotta e di inevitabile sconfitta. Poi, però, c’è il valore aggiunto della poesia, del senso plastico dell’immagine, di quel tanto di lucreziano istinto, passionale, che nell’anima di ogni scrittore padano è sorprendentemente innato, e che sa sempre promuovere un racconto a sceneggiatura toccante e suggestiva del valore morale della Natura, della sua impetuosa indifferenza e delle gesta disperate di chi la vive fino in fondo. Del resto, da Scano Boa – che come luogo, selvaggio ed evocativo, esiste veramente, come il faro di Pila – sono stati tratti due film, uno nel 1961 e uno nel 1996, anche se solo Lattuada (o il De Santis di Riso amaro) avrebbe potuto trarne spunto per un vero capolavoro neorealista. A pensarci bene, questo romanzo di Cibotto è più forte de Il vecchio e il mare di Hemingway, perché davvero non arretra mai, neanche al suo epilogo, ed è proprio bello immaginare che, forse, anche il grande Nobel nordamericano ne avrebbe amato l’estrema sincerità.

Una recensione

Un ricordo di Cibotto

La voce di Cibotto nel suo mondo

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Tutti gli uomini dell’Affaire Dreyfus (da ilpost.it)

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Bobi Bazlen o la seduzione della cultura (da lindiceonline.it)

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La prima lettura (M. Enard, L’alcol e la nostalgia) è il racconto di un viaggio: è quello dell’io narrante, che percorre la Transiberiana da Mosca a Novosibirsk, verso la casa natale di Vlado, l’amico russo, ora improvvisamente defunto, con cui ha condiviso una stagione di eccessi e l’amore per la stessa donna. L’occasione è buona per rievocare l’agrodolce deriva del triangolo, ma anche per tuffarsi in un rapsodico e suggestivo girovagare nell’anima russa di ieri e di oggi: da Ivan il Terribile ai deportati dei Gulag, dalla Rivoluzione d’Ottobre ai contrasti stranianti della Mosca occidentalizzata, dagli umori inquieti di Dostoevskij alle storie eroiche dei cavalieri selvaggi di Joseph Kessel… L’atmosfera è quella di una eterna decadenza, che si compiace della sua ineluttabile grandezza, e pure il protagonista sembra abbracciare un destino di finale nullificazione, anche se l’amore e la sua nostalgia forse avranno la meglio. Il libro è adatto per un pomeriggio invernale, per lasciarsi andare alla prosa di un intellettuale colto e ipersensibile, di un rabdomante di tormenti e ibridazioni emotive. Si rischia di scoprire che anche le paturnie, specie quelle di fine anno, possono stare in buona compagnia e generare momenti e riflessioni quasi consolanti.

La seconda lettura (J. Baudrillard, Il complotto dell’arte) è un regalo azzeccato, una raccolta di saggi brevi e ficcanti di uno dei più originali e pensosi interpreti del nostro tempo, qui impegnato in una disamina critica dell’arte contemporanea e dei processi trans-estetici di cui essa è formidabile strumento. Il cuore del volume è l’intervento, tanto sintetico quanto denso, che gli dà anche il titolo, e che riproduce un articolo pubblicato nel 1996 sul quotidiano Libération, fonte di una discussione che tra gli addetti ai lavori si è protratta per molto tempo. La tesi è che l’arte contemporanea ha perso “il desiderio dell’illusione, a vantaggio di una elevazione di ogni cosa alla banalità estetica”, e che, ciò facendo, abusa continuativamente dell’impossibilità di un “giudizio estetico fondato”, in una strategia ammiccante e sostanzialmente commerciale. La contestazione è dura. Baudrillard, però, non assume la veste del castigatore. La sua è una prospettiva antropologica, volta a descrivere una rivoluzione generale, che non è certo così recente e che è stata anche capace di anticipare se stessa e di sublimarsi in opere particolarmente sintomatiche, come sono – per Baudrillard – quelle di Warhol. L’interrogativo ancora aperto è solo uno: saprà il pubblico accorgersi di tutto questo? Fino a che punto rimarrà complice, esso stesso, di questa grande mistificazione? Il 2017 è stato l’anno della lussureggiante ed estrema esposizione di Hirst nella Venezia di Palazzo Grassi e Punta della Dogana: anche chi c’è stato si sarà sicuramente posto, come Baudrillard, tante domande…

La terza lettura (C.G. Starr, Lo spionaggio politico nella Grecia classica) appartiene al genere dei ritrovamenti causali, tanto estemporanei quanto felici. È un lavoro che risale agli anni Settanta e che Sellerio ha pubblicato in Italia accompagnato da una prefazione di Luciano Canfora e da una lunga introduzione del curatore, Corrado Petrocelli. L’Autore, uno storico nordamericano, avverte da subito che in tema di utilizzo strategico di informazioni, pubbliche o segrete, le fonti antiche sono scarse, e che in un’indagine di questo genere il rischio dell’anacronismo è sempre molto alto. Poi, però, spulciando in Omero, nelle Vite di Plutarco, nelle tragedie, in Tucidide e Demostene e in altre opere meno conosciute, Starr dimostra che anche nelle poleis greche si assumevano decisioni importanti sulla base di ciò che si conosceva del nemico, avendo cura di raccogliere notizie nei modi più disparati (grazie alle relazioni commerciali, alla circolazione delle compagnie artistiche, ai rapporti familiari tra le aristocrazie cittadine, alle delazioni degli esiliati…). La cosa che è più sorprendente è che nell’antica Grecia era nota anche l’attività della dissimulazione e dello sviamento, magari mediante la spedizione di messaggi, o di messaggeri, artatamente ambigui, nella speranza di ingannare le potenze concorrenti; e che, comunque, spesso e volentieri, anche a fronte di notizie genuine, i governi – e le assemblee in cui se ne discutevano e condividevano le intenzioni – le hanno interpretate e usate male. C’è, infine, un’osservazione, che Starr formula in un paio di occasioni, e che sembra molto calzante per sfatare alcuni luoghi comuni: nell’antica Grecia le informazioni trattate segretamente si rivelavano molto meno efficaci e utili di quelle raccolte pubblicamente. E non è che, in questo secondo caso, non si possa parlare di attività di intelligence.

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Il meglio del 2017 su Studio (da rivistastudio.com)

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Ventitre e cinquantanove / Le luci in chiesa vanno via / Ma dove sta la vita mia? (Calcutta)

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