Standing in the sunlight laughing / Hiding ‘hind a rainbow’s wall (Van Morrison)

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La figlia di Ezra Pound si racconta, dall’infanzia ai 21 anni, fino al matrimonio con il principe (e futuro egittologo) Boris de Rachewiltz. Tutto comincia a Gais, in Val Pusteria, dove Maria – nata dal rapporto tra Pound e la violinista Olga Roudge – viene affidata a una famiglia di contadini tirolesi. Cresce con loro, nei campi e tra le pecore, e la sua prima lingua è il dialetto locale. Il Signore e la Signora (Ezra e Olga) passano talvolta a trovarla e così Maria conosce anche il nonno Homer e alcuni amici della coppia. Ma il vero contatto con l’universo speciale in cui gravitano i suoi genitori coincide con la scoperta di Venezia. Il cuore e i pensieri di Maria sono sempre legati a Gais, e al principio la disciplina che le impone Olga la fa soffrire. Nonostante ciò le passeggiate e le frequentazioni lagunari del padre cominciano a incuriosirla. Più cresce, più Ezra si interessa di lei e della sua istruzione. Arriva dunque il tempo del collegio, a Firenze, presso una scuola confessionale gestita dalle suore. Frattanto, pur restando sempre fissa la stella polare di Gais, Maria conosce anche Rapallo, altro rifugio di Pound e della sua compagna. L’allargamento degli orizzonti spaziali coincide con un’esperienza di maggiore conoscenza: dell’italiano e dell’inglese; del lavoro letterario del padre e delle sue idee; della madre. E anche con la scoperta di Roma, dove il padre collabora con la propaganda radiofonica del regime fascista. Poi la guerra scoppia e la famiglia si trova nuovamente separata. È una condizione destinata a durare a lungo. Specie dopo l’8 settembre 1943, quando l’Alto Adige rientra nell’Alpenvorland. Maria presta il suo servizio per le truppe del Reich, prima come segretaria e poi come infermiera. La Liberazione la sorprende a Cortina e da lì prova a raggiungere Ezra e Olga, cominciando così una ricerca che la porterà a scoprire dell’arresto del padre e del suo internamento in un campo di prigionia alleato, vicino a Pisa. Da quel momento per Maria – già diventata erede letteraria di Pound – si apre una nuova vita, che riparte ancora da Gais, ma questa volta da un antico e suggestivo castello.

Concepito originariamente in inglese, ma confezionato in italiano direttamente dall’Autrice, Discrezioni è stato pubblicato nel 1973 da Rusconi in un’edizione (quella che ho avuto l’occasione di leggere) corredata qua e là da alcune foto molto evocative. Recentemente è stato riproposto, con scelta del tutto opportuna, da Lindau. È una lettura piacevolissima, un esempio paradigmatico di bella scrittura personale: spontanea, semplice e originale al contempo. Oltre a ciò, il racconto si alterna a brevi estratti dei Cantos di Pound, nella resa offerta dalla stessa Mary. Poesia e memoir, dunque, si accavallano e si spiegano reciprocamente, con un risultato che sa di elegante naturalezza e costituisce il segreto del libro, il mezzo per comprenderlo al di là del suo stretto contenuto. L’effetto, in primo luogo, si deve al genius loci, concetto che l’Autrice quasi respira e di cui il racconto costituisce una sorta di monumento. Mary, poi, partecipa costantemente agli accadimenti che la riguardano e la circondano, con un contegno che è punteggiato sia di momenti di diligente accettazione, sia di curiosi e coraggiosi rilanci, sia di un’irresistibile e diffusa nostalgia. È così perché ci parla puramente, senza fronzoli o sovrastrutture, della sua storia, degli ambienti in cui è stata educata ed è maturata, e del ruolo baricentrico che ha gradualmente assunto il legame spirituale col padre. Ma così facendo, ci dà l’opportunità di considerare puramente anche l’arte, il pensiero e il sentimento, vissuti per ciò che sono, indipendentemente dai loro più aspri compagni di viaggio. Quella che Mary canta, in sostanza, è l’innocenza del suo percorso come immagine più autentica dell’innocenza di Pound, pur nella sua pericolosa, drammatica e inaccettabile militanza. Un’innocenza, peraltro, che è radicale, perché poetica e speculativa. Non è un approccio meramente emotivo, non si spiega con la devozione filiale. Ha una fiera matrice esistenziale, ed è perciò che riesce a colpire tuttora la sensibilità del lettore.

Due interviste a Mary de Rachewiltz (una qui e l’altra qui)

Visita a Mary de Rachewiltz (di P. Tonussi)

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Dürrenmatt e il caso (da succedeoggi.ti)

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“Scrivere è un atto aggressivo, perfino ostile” (da pangea.news)

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If you want to stay just like you are / You know I think you really should (J.M. Peterik)

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“Dare un indirizzo al mondo non è un atto neutrale”: così si conclude questo saggio, il cui scopo è argomentare quanto e perché tracciare e nominare vie e spazi pubblici sia un’operazione significativa. L’impianto non è teorico. Il libro è una rassegna molto articolata di esperienze, di case studies che vengono raccontati uno dopo l’altro con sguardo curioso e piglio narrativo. Passo dopo passo scopriamo, ad esempio, che ci sono progetti che cercano di assegnare indirizzi a tutti coloro che vivono nelle baraccopoli di Calcutta, per consentirne l’accesso alle misure sociali stabilite dalla legislazione indiana. Apprendiamo anche che la mappa di una città si può rivelare determinante per individuare la fonte di un’epidemia e rimuoverla (come nella Londra dell’Ottocento), o accertarne i responsabili (come ad Haiti). E constatiamo che alle spalle di un preciso disegno di strade e di viali vi sono progetti di riforma o di costituzione ex novo di intere e nuove comunità (come a Philadelphia). Gli indirizzi, poi, sono fattori che in molti contesti, influenzando il valore degli immobili (come a New York), possono essere anch’essi commerciabili. In altri casi, invece, sono comunque percepiti come negativi: perché aiutano le istituzioni a rintracciare, tassare, sanzionare i singoli individui; o perché si sovrappongono a modalità di localizzazione radicate ed espressive di tradizioni culturali profonde (come in Giappone o in Corea); o perché portano con sé l’affermazione di identità storicamente complesse, oggi valutate come discriminatorie o rappresentative di valori negativi o di una passata testimonianza di sopraffazione e dolore. Una buona parte del volume è dedicata proprio a quest’ultimo problema, di ricorrente attualità, perché simbolico di istanze di giustizia che ancora faticano a trovare un vero, metabolizzato accoglimento. Mask, soprattutto, si sofferma sul rapporto tra toponomastica e tensioni razziali, negli Stati Uniti o in Sudafrica, e in questa seconda ipotesi il capitolo è davvero tutto da leggere, con grande attenzione, perché evidenzia il nesso molto stretto tra storia, politica e diritto. L’Autrice, infine, dimostra anche che il potere pubblico non è più il vero monopolista degli indirizzi. Esistono start up e colossi della rete che sono ormai in grado di rintracciare con estrema precisione ogni luogo del pianeta e di condizionare, per lo più anche positivamente, l’effettività concreta di moltissimi servizi e di altrettante attività di interesse generale. L’indagine è ricca e stimola interrogativi e riflessioni di varia natura. La mancanza di una rielaborazione complessiva, forse, è il punto debole del libro, ma occorre ammettere che questa assenza è coerente con la mappa plurale che il libro illustra. Si ha l’impressione che il territorio, visto dall’alto della prospettiva globale, si stia evolvendo in una sorta di inestricabile e rigogliosa selva; e che ciò accada, paradossalmente, proprio per mezzo della moltiplicazione degli strumenti che possono mettere un qualche ordine e della diffusione della consapevolezza sociale sul loro intrinseco valore strutturante. Che sia questa la più plastica e convincente dimostrazione dell’ansia ordinante che ci caratterizza e dell’eterogenesi dei fini cui essa è sempre destinata?

Recensioni (di G. Marrone; di S. Marsico; di M. Sacchi; di PD Smith; di S. Vowell)

Un’intervista all’Autrice

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Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul (da nazioneindiana.com)

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Bobby Fischer contro gli scacchi (da ultimouomo.com)

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