Per rappresentare il gesto dell’umiliazione più profonda, per ammettere i propri errori e ottenere la comprensione dell’avversario, andare – o venire – a Canossa è un’espressione diventata proverbiale. Sono in tanti, di solito, a ricordare che la sua origine è un famoso episodio di storia medievale, un momento notissimo della lotta per le investiture: l’atto di sottomissione e pentimento dell’imperatore di fronte al pontefice. Enrico IV, infatti, era rimasto esposto al freddo del rigido inverno del 1077, fuori dal castello di Canossa, in attesa del perdono di papa Gregorio VII, ospite della contessa Matilde. Ebbene, di quest’ultima ed enigmatica figura – di cui tuttora vi sono tracce visibili in chiese, monasteri e castelli disseminati tra l’Appennino modenese, la Garfagnana e la Lucchesia – sono in pochi a conoscere qualcosa. Con l’eccezione di Paolo Golinelli, che in Matilde e i Canossa – un testo di successo e più volte riedito – ricostruisce la genealogia, le politiche e il declino di una casata autorevole e forte, e capace di estendere la propria influenza su di un territorio assai ampio, dalla Toscana a Ferrara, da Modena, Parma e Mantova a Brescia e Verona.

Le fonti sono scarse (il riferimento, per lo più, è la Vita Mathildis del monaco Donizone, che è senz’altro “di parte”), ma l’Autore riesce a contestualizzarle, interpretandole con puntiglio e restituendoci scorci e letture affascinanti. Sul celebre avvenimento, ad esempio: per Golinelli, il vero vincitore, a Canossa, fu Enrico IV, che con la forza del suo esercito mise il pontefice sotto pressione e “strappò” un perdono che gli consentì di avviare un conflitto ancor più forte e decisivo. Ma le pagine più interessanti del saggio sono quelle che si riferiscono a fatti meno conosciuti, ai prodromi, per così dire, dell’epoca matildica: in particolare, all’origine quasi leggendaria della fortuna dei Canossa, con l’emergere nel X secolo di Adalberto Atto, allora vassallo del vescovo di Reggio, Adelardo, e ritrovatosi protettore di Adelaide regina d’Italia; poi alla graduale strategia – con Goffredo e Tedaldo – di alleanza sempre più stretta con la Chiesa e di espansione lungo il Po, con una fitta trama di operazioni immobiliari e fondazioni di nuovi monasteri (su tutti, quello di San Benedetto Po); e infine alla decisiva e ulteriore crescita, con Bonifacio, che si impone sul fratello Corrado e sposta il baricentro del dominio (ormai piccolo “Stato”) a Mantova, diventando anche signore della marca di Toscana, stringendo un’alleanza con l’imperatore Corrado II e sposando in seconde nozze Beatrice di Lorena. Da un certo punto di vista, è questo l’apice della grande stagione dei Canossa, che comincia ad entrare in crisi già con il misterioso assassinio di Bonifacio – che è il padre di Matilde – per qualcuno diventato troppo potente. 

Il saggio segue con spiccato piglio narrativo anche le vicende successive: il secondo matrimonio di Beatrice, con Goffredo il Barbuto, e la stretta alleanza con papa Leone IX; il conflitto con l’imperatore Enrico III, che rende prigioniere sia Beatrice, sia Matilde; il ritorno in Italia al seguito di papa Vittore II e l’inizio, nel corso delle successive elezioni papali, dell’escalation molto dura della contesa sulle relative prerogative imperiali. È in questo ambito che i Canossa, titolari del diritto all’accompagnamento dei pontefici, si conquistano un nuovo spazio di protagonisti, accanto ai più fieri portavoce della riforma ecclesiastica e, così, a fianco anche di Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII. Ed è sempre in questo contesto che Matilde emerge giovanissima, dovendo tuttavia affrontare ben presto la guerra con Enrico IV, l’erosione progressiva del dominio territoriale, la necessità di vendere gran parte dei suoi beni e di “donarli” alla Chiesa per salvarne l’integrità dinanzi ai rischi delle appropriazioni imperiali, la riconquista di feudi e città e la finale conciliazione con l’imperatore Enrico V. 

Il libro è ricco di tanti altri episodi e di passaggi curiosi: pittoresco quello sulle modalità della morte, insolita e atroce, di Goffredo il Gobbo, marito di Matilde; correttamente cauto quello sui discussi, “chiacchierati” rapporti tra quest’ultima e papa Gregorio VII; equilibrato quello sulla fatidica battaglia che Matilde avrebbe vinto vicino al Po contro l’esercito di Enrico IV. Non mancano, infine, alcune importanti digressioni: sul vero significato geopolitico della riforma ecclesiastica, ad esempio, e sull’intreccio tipicamente medievale tra sacro e profano; o sul rapporto tra il declino della grande feudalità e il risveglio delle città e delle comunità che le animano. Matilde e i Canossa, in definitiva, si può leggere in tanti modi: quasi come un romanzo, per le tante vicende di cui ripercorre i tratti salienti; come un saggio storico a tutti gli effetti, per apprezzarne il lavoro d’archivio e la capacità collegare il singolo tema con note di piccolo e grande contesto al contempo; ma anche come una specie di guida, per scoprire un Appennino ricco di tesori e tuttora parlante.

Un portale online interamente dedicato a Matilde di Canossa

Enrico IV a Canossa, secondo Alessandro Barbero

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“Dare un indirizzo al mondo non è un atto neutrale”: così si conclude questo saggio, il cui scopo è argomentare quanto e perché tracciare e nominare vie e spazi pubblici sia un’operazione significativa. L’impianto non è teorico. Il libro è una rassegna molto articolata di esperienze, di case studies che vengono raccontati uno dopo l’altro con sguardo curioso e piglio narrativo. Passo dopo passo scopriamo, ad esempio, che ci sono progetti che cercano di assegnare indirizzi a tutti coloro che vivono nelle baraccopoli di Calcutta, per consentirne l’accesso alle misure sociali stabilite dalla legislazione indiana. Apprendiamo anche che la mappa di una città si può rivelare determinante per individuare la fonte di un’epidemia e rimuoverla (come nella Londra dell’Ottocento), o accertarne i responsabili (come ad Haiti). E constatiamo che alle spalle di un preciso disegno di strade e di viali vi sono progetti di riforma o di costituzione ex novo di intere e nuove comunità (come a Philadelphia). Gli indirizzi, poi, sono fattori che in molti contesti, influenzando il valore degli immobili (come a New York), possono essere anch’essi commerciabili. In altri casi, invece, sono comunque percepiti come negativi: perché aiutano le istituzioni a rintracciare, tassare, sanzionare i singoli individui; o perché si sovrappongono a modalità di localizzazione radicate ed espressive di tradizioni culturali profonde (come in Giappone o in Corea); o perché portano con sé l’affermazione di identità storicamente complesse, oggi valutate come discriminatorie o rappresentative di valori negativi o di una passata testimonianza di sopraffazione e dolore. Una buona parte del volume è dedicata proprio a quest’ultimo problema, di ricorrente attualità, perché simbolico di istanze di giustizia che ancora faticano a trovare un vero, metabolizzato accoglimento. Mask, soprattutto, si sofferma sul rapporto tra toponomastica e tensioni razziali, negli Stati Uniti o in Sudafrica, e in questa seconda ipotesi il capitolo è davvero tutto da leggere, con grande attenzione, perché evidenzia il nesso molto stretto tra storia, politica e diritto. L’Autrice, infine, dimostra anche che il potere pubblico non è più il vero monopolista degli indirizzi. Esistono start up e colossi della rete che sono ormai in grado di rintracciare con estrema precisione ogni luogo del pianeta e di condizionare, per lo più anche positivamente, l’effettività concreta di moltissimi servizi e di altrettante attività di interesse generale. L’indagine è ricca e stimola interrogativi e riflessioni di varia natura. La mancanza di una rielaborazione complessiva, forse, è il punto debole del libro, ma occorre ammettere che questa assenza è coerente con la mappa plurale che il libro illustra. Si ha l’impressione che il territorio, visto dall’alto della prospettiva globale, si stia evolvendo in una sorta di inestricabile e rigogliosa selva; e che ciò accada, paradossalmente, proprio per mezzo della moltiplicazione degli strumenti che possono mettere un qualche ordine e della diffusione della consapevolezza sociale sul loro intrinseco valore strutturante. Che sia questa la più plastica e convincente dimostrazione dell’ansia ordinante che ci caratterizza e dell’eterogenesi dei fini cui essa è sempre destinata?

Recensioni (di G. Marrone; di S. Marsico; di M. Sacchi; di PD Smith; di S. Vowell)

Un’intervista all’Autrice

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È un romanzo molto breve, dal ritmo lento e meditativo di un classico film francese; ed è semplicemente perfetto: nell’ambientazione parigina, nello stile evocativo, nella meccanica delle emozioni, nella rievocazione dei sogni e del destino di un’intera generazione. Vi si raccontano alcuni spezzoni della storia di una ragazza, la bella e malinconica Louki. Così la chiamavano gli avventori del caffè Condé: lo apprendiamo dalla prima delle quattro voci narranti, quella di un anonimo, anch’egli affezionato a quel crocevia di intellettuali, perdigiorno, giocatori di carte e giovani alla ricerca di sé. La seconda voce, invece, appartiene a un investigatore privato, ingaggiato dal signor Choureau affinché ritrovi la moglie, Jacqueline Delanque. Questo è il vero nome di Louki, che frequentava assiduamente anche il circolo esoterico di Guy de Vere; Choureau era il capo dell’ufficio in cui lavorava, si erano sposati dopo pochi mesi dal loro primo incontro. La terza voce è della stessa Louki, che ricorda le passeggiate notturne che faceva sin da bambina, approfittando dell’assenza della madre, di turno al Moulin Rouge. Qui veniamo informati della sua amicizia con Jeannette Gaul e dell’iniziazione a pericolose abitudini e ambigue frequentazioni. Il quarto a parlare è Roland, un giovane e spiantato aspirante scrittore, che si era innamorato di Louki dopo averla conosciuta alle riunioni di Guy de Vere. Roland rammenta il periodo in cui hanno convissuto, peregrinando tra le camere di piccoli alberghi e aspettando di incrociare la felicità che il destino avrebbe potuto serbargli. I ricordi di Roland continuano anche nell’ultimo capitolo, che è collocato, cronologicamente, molti anni dopo, e ci svela l’amaro segreto di tutta la vicenda.

Patrick Modiano è lo scrittore cui è stato assegnato il Nobel per la letteratura nel 2014. Il punto forte di questo libro non è la trama, che pure produce una certa suspense, e non è neanche la suggestione socio-culturale, palese nell’evocazione esplicita di Guy Debord, da una cui frase (posta in principio, a mo’ di dedica) è preso il titolo del romanzo. La peculiarità della scrittura di Modiano è un dolce effetto ipnotico, che discende da una padronanza assoluta della fenomenologia e della topografia del ricordo. Si sono spesi i paragoni con Proust, ma quella di Modiano è una ricerca diversa, quasi astronomica e paradossale, come se si dovessero, cioè, individuare, nella galassia di esistenze ineluttabilmente dirette al fallimento, i buchi neri  in cui quelle vite avrebbero potuto lasciarsi cadere, per passare, così, ad un’altra dimensione. È come se si trattasse, quindi, di compiere un’operazione inversa a quella che si potrebbe spontaneamente immaginare: non a caso, lo sforzo di Roland è cercare le “zone neutre”, i luoghi (dimenticati o sospesi) della città nei quali (soli) intuisce di poter riuscire a vivere con Louki, al di fuori degli snodi della comune quotidianità, che purtroppo pare inchiodare i due personaggi ad un non futuro. In questo c’è un invito, da parte di Modiano, a nutrirsi, quanto possibile, della sapienza degli spazi propri, l’unica realtà in cui è verosimile riacciuffare se stessi, il proprio originario e autentico legame con le cose e con le persone che le hanno abitate, le poche opportunità di svolta; ma nella quale si può sempre incappare nelle insidie e nei vuoti di solitudine che questa maieutica prefigura naturalmente per chiunque la voglia assecondare. Tra le tante interpretazioni di questo agile racconto, non è mancata quella di chi, proprio facendo leva sulla minuziosa geografia ricostruita dall’Autore, ha segnalato vistose e complicate ricorrenze con il viaggio dantesco della Divina Commedia. Forse non è un puro gioco filologico: Modiano è davvero impegnato in un itinerarium mentis, del tutto laico, nel quale caduta e redenzione sono attingibili allo stesso grado, e in cui il vissuto e l’autocoscienza di ciascuno sono costantemente esposti alla crudeli occasioni di una scena mutevole ed eterna allo stesso tempo.

Recensione (di Fabio Gambaro)

Modiano secondo Modiano

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Un noto slogan pubblicitario interroga i telespettatori chiedendo loro se gli piaccia “vincere facile”. A chi non piacerebbe? Dopo la lettura di questo saggio, confezionato sulla base del testo di una conferenza replicata in più occasioni, si può dire che la cosa piace anche a Salvatore Settis. Perché Se Venezia muore ha tutto per strizzare l’occhio ad un pubblico sensibile, colto e attivo, e quindi anche per convincerlo – e radicarlo ulteriormente – sulla bontà delle tesi che vi sono sviluppate. Che si tratti di interrogativi forti, infatti, e su piano teorico largamente fondati, non c’è dubbio. Per quale motivo una città così ricca di tradizioni gloriose e di testimonianze artistiche e culturali altrettanto preziose dovrebbe abbracciare un modello omologante e globale di sviluppo urbano? Per quale ragione dovrebbe assecondare la propria trasformazione in un parco di divertimenti accerchiato da vistose quanto inutili vestigia di cemento? Perché dovrebbe perdere i suoi abitanti e la sua memoria? E perché la comunità locale dovrebbe smarrire la coscienza del proprio diritto alla città, consegnandone le sorti a committenze e progettisti completamente sradicati? In definitiva, l’analisi pare davvero convincente – “sounds good”, si direbbe – al punto che il capoluogo lagunare assurge plasticamente a prototipo perfetto di un caso che può riguardare, ormai, tante altre città storiche e che si presta, dunque, a simboleggiare in modo suggestivo i capisaldi delle nobili battaglie che l’Autore ha dimostrato di voler condurre finora (da Paesaggio Costituzione Cemento a Azione popolare. Cittadini per il bene comune).

A ben pensarci, però, l’approccio proposto da Settis – che sulle chiare e dichiarate orme di Henri Lefebvre, rilancia senza infingimento i toni impegnati di un classico del pensiero marxista degli anni Settanta – rappresenta ancora tutti i limiti di chi è forte nella pars destruens e debole, se non muto, nella pars construens. Non si può, certo, credere, ad esempio, che il rimedio alle tendenze degeneranti dell’architettura contemporanea possa consistere nella formulazione di un “giuramento di Vitruvio”, sul calco di quello, più noto, di Ippocrate. Ma soprattutto, di fronte alle tesi di Settis, non si può resistere all’impressione che, per far sì che i cittadini si riapproprino del loro spazio e dei relativi tesori, sia indispensabile presupporre che essi si diano tuttora come corpo autocosciente, con l’eventualità che i loro progetti si rivelino molto meno virtuosi di ciò che dall’alto della critica si può soltanto supporre. D’altra parte è assai evidente – e tanto più lo è nel caso veneziano – che di una simile collettività vi è poca traccia e che il più delle volte essa assume le fisionomie di un corpo tanto sfaccettato e frammentato quanto conservatore, nostalgico e campanilistico (giacché, come è noto, anche il riferimento alla storia, alla civiltà e alla loro tutela può scivolare nel più comodo degli alibi come della più inutile delle pose). Allo stesso tempo, è inevitabile riconoscere che la vita di una città passa per mutazioni costanti, che possono alimentarsi anche soltanto di sovrapposizioni, riusi o camouflages, ma che, come tali, ambiscono comunque a cercare identità nuove, potenzialmente molto distanti dal canone originario. I molti e curiosi nomi delle calli e dei campi di Venezia continuano a tradire un brulichio di esperienze, di vicende, di commerci e di mestieri, sovrapposti e mai del tutto compiuti. La città, in sostanza, non può nutrirsi soltanto di grandi speranze, poiché ruota, ancora e sempre, attorno ad un’insopprimibile esigenza di concretezza e di futuro effettivamente afferrabili. Se proprio si vuole percorrere la strada di una riscoperta reticolare della città, allora, rispetto alla (pur) condivisibile (ma astratta) istanza di (un?) bene comune, meglio affidarsi ad una diversa microfisica del potere e alla resistenza di tanti piccoli fatti, come sta avvenendo con successo in altrettanti Comuni italiani. Il tempo della retorica può anche aspettare.

Un’intervista all’Autore

Un’altra lettura del saggio

Per continuare a riflettere sul tema: P. Maddalena, Il patrimonio, bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico (2014); P. Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano (2014); S. Marini (Edited by), Future Utopia (2015).

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Accade che l’editoria riesca a compiere strane operazioni. Accade, cioè, che in un piccolissimo libro si possa confezionare la grande letteratura con le vesti pur sempre ambigue del richiamo da cassetta. Perché nel mercato editoriale non c’è nulla di strano se, dopo il riconoscimento dell’Oscar a Paolo Sorrentino per La grande bellezza, si arriva a stampare in grande velocità una raccoltina intitolata La bellezza di Roma, nella quale ordinare sei brevissimi pezzi (già pubblicati) di Raffaele La Capria, il grande scrittore, da poco novantenne, cui la fortunata pellicola pare essersi direttamente o indirettamente ispirata. Ciò che è straordinario, però, è che in queste brevi prose ci sono almeno due perle, quelle che aprono il volume, e il cui livello compensa certamente la sofferenza di dovervi accedere soltanto superando il disgusto per una copertina che più ammiccante non si può. Due perle – in forma di pedagogico ammaestramento borghese: Lamento su Roma (1975) e I consigli di papà (2009) – per un ritratto immaginifico e mordace degli aspetti che sembrano sempre e davvero eterni nella Capitale: della Direzione Generale della Democrazia Formale che in essa si compie; del trionfo anodino della casta amministrativa, la tribù dei Buro-Buro, e di tutti coloro che vi si impiegano e (quindi) vi si id-Enti-ficano; della Teoria del Fine Secondario, secondo cui nessun’altra giustificazione può darsi per cotanto apparato se non il suo stesso finanziamento.

Il posto alla Rai (2009) sviluppa queste sollecitazioni in corpore vili ed è il ritratto autobiografico dell’esperienza kafkiana di colui che arriva a Roma e si impiega, seguendo la regola ferrea per cui “il posto è di chi lo occupa”. In effetti, ne Un albergo a vita (1993), La Capria si produce anche in una lunga intervista, in cui narra del suo trasferimento, trentenne, da Napoli alla Capitale, in cerca, per l’appunto, di un posto; e in cui, tuttavia, si misura lo scarto tra la vitalità culturale della Roma de “Il Mondo” di Pannunzio e della Via Veneto dei registi e degli intellettuali, da un lato, e la Kaputt Mundi di oggi, dall’altro. La cosa che infastidisce di più lo scrittore è lo stato di abbandono di molti dei luoghi più belli della città monumentale: Una modesta proposta (1981) registra questo sdegno e formula qualche piccola idea a qualsiasi amministratore locale. Eppure Roma risplende, irresistibile, sotto il cielo terso delle sue mattine migliori, anche nelle vie di un centro storico offeso dal passare del tempo e privato della sua più giusta memoria, “dove tutto ti ricorda il gran disordine che governa il mondo”). La Capria ne avverte il fascino nelle passeggiate mattutine con la sua bassottina (A passeggio con Clementina, 2011). È tutto un susseguirsi di scorci barocchi, di “aeree architetture”, di inimitabili e persistenti suggestioni spaziali; a patto, certo, di assumere la prospettiva della vitalissima Clementina, di lasciarsi guidare dalle sue “possibilità percettive”. Sta qui, in fondo, la bellezza di Roma. Di fronte all’abbandono (delle cose) non c’è che l’abbandono (all’intuizione e alla contemplazione).

Recensioni (da ilfoglio.it, iltempo.it, corriere.it, wuz.it, politicamentecorretto.com)

Il sito dell’Autore

La Capria parla di La Capria: un libro da leggere!

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“Se bussano alla porta non aprire” (p. 6). Lolini ci avverte subito, al primo verso. E poco sotto spiega: “se dicono: alzati! / cacciati sotto le lenzuola / rientra nelle trasparenze / di pareti nude dove sconfitti / stanno i desideri”. C’è solo modo di adattarsi, quindi; non c’è nient’altro da fare. D’altro canto, “il tempo ci smembra come un coltello affilato” (p. 9) e la vita è “recita / ammutolita / che penosamente / balbettammo / da una scena all’altra” (p. 12).  Eppure lo scenario, apparentemente disperante, è il luogo in cui scoprire grandi opportunità: infatti “della libertà / ci siamo liberati” (p. 13).

I brani che così compongono la Ballata delle edicole incorniciate aprono l’ultima raccolta di un poeta tanto grande quanto schivo. Che dopo questa sorta di manifesto ci spinge nell’osservazione più compiuta dei luoghi e dei momenti più congeniali alla sua personalissima cosmogonia dell’abbandono. Nei Versi a mezz’aria, la notte vale più del giorno, la stasi più del moto, il sonno più della veglia, e la fragilità e la contingenza sono più vere della forza e dell’eternità, che, se davvero esiste, è luogo di sospensione, di incertezza, di precarietà, di inconoscibilità. È tutto intrinsecamente fugace e indefinibile, e passeggero. Inoltre, ciò che la chiromante vede, della natura, sono solo i nostri rifiuti, quasi trionfanti, carte da sandwich nel becco di un gabbiano (p. 35). Quindi, a conti fatti, “Che bisogno c’è di uscire? / Ho trovato un alberghetto / me ne sto a letto” (p. 55). Le giornate si susseguono come “repliche” (p. 56), e in città si può accedere alle indubitabili certezze della nostra esistenza solo attraverso le prospettive di Tom&Jerry, insegna di un vecchio ristorante o di una vecchia rosticceria.

Degno allievo di Eliot, Lolini non manca di offrire, in chiusura, anche alcune imitazioni, alla maniera dell’Ecclesiaste, di Goethe, di Larkin, di Müller, di Lowry. Quest’ultima parte è molto interessante: si ha l’impressione che l’Autore voglia dare un cielo alla sua costellazione poetica; che abbia, cioè, paura di essere frainteso, e che, alla fine, desideri regolare la sua scrittura e, con essa, lo sguardo dei suoi lettori al diapason di una tradizione tragica ben precisa. Qui sta tutto il fascino di questo veterano e illuminato interprete della poesia italiana, perché la linearità del suo stile e la povertà dei suoi soggetti sono soltanto in superficie, e l’importanza delle sue intuizioni e delle sue riflessioni si misura sempre nel dialogo interrotto con i maggiori del passato.

Recensioni (di Giuseppe Grattacaso, Renzo Favaron, Roberto Galaverni, Matteo Marchesini)

Un profilo di Lolini e una scheda critica

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Un assaggio di Lolini…

Perso l’equilibrio

barcollo nel marciapiede

/

ostinato nelle abitudini

nostre sole religioni

/

scriverò senza guardare la pagina

parole che conosco e detesto

/

signore dacci la nostra noia quotidiana

ma chiamo un taxi

prenderò un caffè ristretto

saluterò con cortese distacco

l’altro viaggiatore nello scompartimento

/

osservando la strana luce che appare

dal finestrino, un sole pigro, indeciso, sfilacciato.

/

Forse mi sono inventato

come un pensiero malato.

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