Seamus Heaney dies aged 74 (da theguardian.com)

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Il violino blu (da minimaetmoralia.it)

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Le troppe leggi rimaste vuote (da corriere.it)

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Ai pasticcini contraffatti del salotto buono, Kemeny preferisce l’alito ebbro di una scatenata baccante. Abbondanti e prelibate libagioni assurgono a rito necessario, officiato da un medium dionisiaco per propiziare l’indispensabile riconquista di una dignità violata dall’assedio delle banalità e della povertà intellettuale. Il Poemetto gastronomico, però, è soltanto l’inno, il primo e il più divertito ed eccentrico, l’ouverture di una serie di tanti altri sacrifici all’altare della lirica e della sua felice forza pedagogica. I pezzi che seguono, infatti, sono testimonianze di rivolta e di passione ditirambica, o anche di puntuali agnizioni sciamaniche. Bella la galleria di omaggi ai grandi e amati sacerdoti della poesia, della letteratura, dell’arte e della musica (Byron, Foscolo, Campana, Matisse, Liszt, Leopardi…); toccante la fiduciosa celebrazione dell’amore come assoluta chiave di salvezza.

La parte migliore del volume è quella che si può saggiare nelle sezioni Nevica sul generale Garibaldi (p. 89) e Nell’immensità genuina della lingua (p. 111), e che fa da cornice e da spiegazione per l’esaltazione dell’atto creativo, della fantasia linguistica e delle ricercate delizie del palato. Sono spezzoni di una poetica del risveglio e dell’invito ad abbandonarsi alla sapienza del verso, per ripararsi dal “sole della devastazione” che ci opprime nella città e per avere ancora fiducia nelle risorse dell’immaginazione. Anche il poeta non può dormire sugli allori, poiché La luce interiore non è gratis et amore (p. 113), soprattutto “quando la sua parola annega nella sporcizia / dei giri a tutto vapore televisionari / e nei rumori pazzeschi dei media di tolleranza”. Ma la collana di poesia della Jaca Book, diretta da Roberto Mussapi, non corre questo rischio: ci sono tanti titoli e tanti autori interessanti e fuori dal comune, anche il (quasi) dimenticato Bigongiari. Buona lettura a tutti…

Recensioni (di Luigi Mascheroni, Roberto Galaverni, Giuseppe Conte, Enzo Di Mauro, Giorgio Linguaglossa)

Un’intervista a Tomaso Kemeny

Il blog dell’Autore

—–

da Poemetto gastronomico (in Coda)

(…)

“Mi ribello, si mi ribello…

non accetto di essere lo zimbello

d’un mondo di mostri e di iene

che santifica l’intelletto in catene

e il potere di coloro che sterilizzano

l’immaginazione. O Dioniso, sopprimi

il reale quotidiano

e in un crescendo rossiniano

adottami nello splendore conviviale,

accoglimi, tuo proselito leale,

nelle esultanti viscere del congegnato caos”

(…)

—–

Speso nella scrittura

Speso nella scrittura

Il tempo mi usura implacato,

ma in tutti i mondi possibili

declamo di sentirmi

un re giovane incoronato

da quando ti amo.

—–

A chi rifugge o ignora la poesia

Se ignori cosa sia la poesia

scruta le orbite vuote di Omero

e non pestare escrementi

che le colombe nere della morte

spargono ovunque sulle nostre

metropoli; ce ne andremo così,

come siamo venuti

senza carichi né bagagli

per reinventare ancora una volta

la vita che innamora.

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Quali scuole superiori scelgono i ragazzi italiani? (da linkiesta.it)

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Il tablet sfida la Medusa della realtà (doppiozero.com)

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Lo slogan che Fernando Pessoa scrisse per la Coca-Cola (da ilpost.it)

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Borges, il poeta argentino (da raistoria.rai.it)

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Scopro Jim Harrison in un documentario mandato in onda su Rai5: è la versione italiana di un programma francese, e François Busnel intervista questo splendido ceffo leggendario, da scrittore di foresta, lago e prateria. Prendo il primo dei titoli disponibili in libreria e mi immergo in una lettura che non sopporta interruzioni. Nulla di avvincente, in verità; è soltanto, e tremendamente, profondo. Forse è un giudizio banale, ma ormai abbiamo occhi e orecchie troppo sofisticati, e ciò che Harrison vuole fare è, come suggerisce anche il volume, riportarci sulla terra, in un punto cui tutti, prima o poi, dobbiamo passare.

È diviso in quattro parti, una per ciascuna delle voci che prendono la parola esprimendosi in prima persona. Al centro delle riflessioni c’è Donald, che inaugura la narrazione mettendoci subito di fronte ad una situazione difficile: ha quarantacinque anni e il morbo di Gehrig, sta per morire, e deciderà di farlo. La sofferenza è nuda, ma lo sono anche l’anima e la memoria, quella personale e quella della sua gente, perché Donald è mezzo finlandese e mezzo indiano, di etnia chippewa. Il secondo a prendere la parola è K, il nipote, atletico, selvaggio, ma anche sensibile e intelligente, vicinissimo allo zio e ancora un po’ allo sbaraglio; di fronte alla morte, di fronte alla prematura scomparsa del padre, di fonte all’amore che prova per la cugina Clare, la figlia di Donald. La terza voce appartiene a David, il fratello di Cynthia, la moglie di Donald, e il figlio del ricco signor Burkett, per il quale Donald e il padre Clarence facevano alcuni lavori di casa. È una voce naïf, piena di interrogativi, cronicamente depressa, alla costante ricerca di un’espiazione artificiosa, e distrutta dalla terribile figura del padre, che a sua volta ha distrutto la vita di Vera, la donna messicana di cui è innamorato. Chiude il libro Cynthia, in un crescendo di consapevolezze sul suo rapporto con Clare, sul rapporto tra Clare e la memoria di Donald, sul suo essere madre e donna, sull’assoluta e disarmante dimensione dell’esistenza.

Non è un romanzo facile. Oso confessare che la prima parola che mi è venuta in mente tra una riga e l’altra è panpsichismo, che è nozione, però, troppo europea per fare al caso nostro. Tutto fuorché facile, quindi. La seconda parola, invece, è stata Nordamerica, perché è vero che pensando a Harrison il pensiero va a Hemingway e a Faulkner (ma la critica sugli ideali fondativi della radice USA e sui suoi sogni così erroneamente concreti e così volatili fa quasi pensare anche a Caldwell e a Dreiser). Il fatto è che questo scrittore, a cui piace parlarci di orsi, di boschi, di vento, di spiriti, di tende e di nativi americani – a proposito: indimenticabile la figura di Flower, zia di Donald –, è estremamente e naturalmente colto, perché attinge alla ricchezza di un ordine primordiale che è oltre i pericoli della corruzione morale e che sembra contenere ogni cosa e ogni esperienza. Non abbiamo soltanto bisogno di natura, ma anche di aedi e di racconti che ce la rendano ancora una volta il comune e fatale paradiso perduto. Harrison fa al caso nostro. Chapeau!

Recensioni (di Christian Verzeletti, Sergio Pent, Will Blythe)

A pranzo con Jim Harrison

Due lunghe interviste: su The Paris Review e Outsideonline.com

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Breve storia di una frase sbagliata (da minimaetmoralia.it)

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