La letteratura può essere impegnata, o solo chi scrive? (da indiscreto.org)

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È ogni volta un bel dono poter leggere un grande scrittore. Anche quando ci si imbatte in un racconto che forse non è mai stato veramente ultimato. Insomma, Dostoevskij è sempre Dostoevskij. Qui si cimenta con una trama sospesa tra la realtà e l’immaginazione più spinta. È la storia di un funzionario pubblico, uno come tanti, che si reca con la moglie a vedere l’esotica attrazione del momento, giunta dall’Europa per inaugurare quello che oggi diremmo un centro commerciale. Si tratta di un coccodrillo, esibito da una coppia di avidi e fastidiosi mercanti tedeschi, madre e figlio. La bestia pare tranquilla, immobile e indifferente a ciò che la circonda, ma all’improvviso ingoia il funzionario, che sparisce nelle sue fauci. In verità l’uomo non è morto, ma parla dal ventre del coccodrillo, ostenta salute e sicurezza, vagheggia presuntuoso un futuro di prosperità economica e grandi successi per sé e la consorte, e preconizza nuove e risolutive visioni del mondo, capaci di cambiare il destino dei popoli. La voce narrante è quella di un collega di lavoro del funzionario mangiato dal coccodrillo. Da un lato ripercorre stupefatta e preoccupata l’accaduto, cercando di ricondurlo a una qualche razionalità; dall’altro misura le reazioni vacue della bella sposa dello sventurato amico, dei suoi conoscenti e degli altri colleghi. I quali, tutti, percepiscono certo la straordinarietà del caso, ma restano avvinti nel ruolo di inguaribili e disarmanti macchiette borghesi, avviluppati anch’essi nel propri piccoli desideri e meschini individuali.

Nei brevi appunti che Serena Vitale dedica a quest’opera, definita da Dostoevskij una “birichinata letteraria”, si possono apprezzare tante cose. Si può scoprire, ad esempio, che – a dispetto delle rimostranze del suo stesso Autore – il racconto era stato considerato dai contemporanei come una parodia delle vicende accadute a Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, intellettuale e rivoluzionario risucchiato dalle prigioni zariste della Siberia. Forse è vero – più in generale – che la sferzante ironia che percorre la storia intera si scaglia su ciò che di moderno stava invadendo Pietroburgo e la Russia alla metà del XIX secolo, e sulla mentalità che i gusti di matrice occidentale e il “principio economico” – così lo chiama Dostoevskij – stavano diffondendo. Il coccodrillo, quindi, è il campione, l’immagine ficcante di questa cultura virale, con la sua capacità egemonica e, per l’appunto, fagocitante: una forza irresistibile, che si impadronisce delle persone, come se fosse una possessione, e che non trova certo opposizione nel carattere molle, fatuo e debosciato della gente di Pietroburgo. Anch’essa è bersaglio diretto di Dostoevskij. Si diverte a ridicolizzarla, a denunciarne la povertà morale di fronte alla logica prevalente del tornaconto personale, del profitto e del consumo, già allora raffigurato come fattore disgregante di ogni ordine sociale. E pure di qualsiasi idea di verità, alla stregua di ciò che si verifica nella nostra modernissima e tecnologica società dell’informazione: nelle pagine dei quotidiani la vicenda dell’uomo mangiato dalla bestia viene riportata, a seconda della testata (e ciascuno sceglie naturalmente quella che più gli è congeniale), in variazioni completamente dissonanti, fantasiose, se non irriconoscibili. Forse che siamo davvero finiti tutti nelle viscere di un rettile implacabile? Dostoevskij continua a interrogarci.

Recensioni (di M. Archetti; di M.C. D’Alisa; di D. Gabutti; di A. Gnocchi; di A. Pagliuso; di V. Parisi)

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Ennio Flaiano quel marziano di Pescara (da ansa.it)

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In questo piccolo libro si tracciano alcune coordinate per interpretare e gestire un ampio fenomeno, del quale l’Autrice cerca di offrire, innanzitutto, una mappatura sintomatica. Il fenomeno è quello della contestazione, distruzione o rimozione di monumenti. È ciò che accade quando non vengono più percepiti come simboli positivi e condivisi, ma, all’opposto, assumono la sostanza di disvalori da rigettare. Pensiamo alle statue dei dittatori o di chi ha combattuto dalla parte “sbagliata”, di chi si è arricchito con la tratta degli schiavi o di chi si è reso colpevole della dominazione e dell’estinzione di popoli interi; oppure, ancora, alle rappresentazioni magniloquenti di regimi oppressivi o alle architetture espressive di ideali altrettanto distruttivi. A volte si tratta di manufatti qualificabili (anche) come opere d’arte, a volte no. Comunque sia, sorge sempre un interrogativo: è giusto fare tabula rasa? Non occorre soltanto misurarsi con le declinazioni spaziali della cancel culture. Occorre ragionare, prima di tutto, su che cosa sia un monumento e sulle logiche che possono animarne conformazione, dimensione e collocazione. Lisa Parola prova a seguire sin dall’inizio questa traccia, guardando a basamenti e piedistalli come ai media perfetti delle politiche usualmente verticali, impositive e unilaterali – spesso di matrice etnica e “maschile” – che hanno promosso, innalzandolo, un certo simulacro a proprio simbolo. Poi il volume fornisce una sorta di galleria, un racconto dei tanti episodi (noti e meno noti) di crollo o trasformazione di alcuni monumenti. Quindi passa a un resoconto di come in diversi casi il monumento possa essere oggetto di riscoperta o riqualificazione per mezzo di operazioni artistiche di originale contestualizzazione. La convinzione che pagina dopo pagina si forma inevitabilmente il lettore è che la tesi sia questa: la via d’uscita non è l’eliminazione o l’abbattimento, bensì lo spostamento o lo slittamento di senso, attività che consentono di superare la prevaricazione dell’affermazione originaria, come la sua sopravvenuta caducità, con un gesto di stratificazione documentale. Con un gesto, cioè, che, non indulgendo nel puro e semplice, e di per sé logico, actus contrarius, non ripete a ritroso il metodo della monumentalizzazione e può, invece, fornire motivi per un momento di partecipazione, di dibattito e di apprendimento collettivi. È un approccio valido per ogni ipotesi di patrimonio dissonante. Un esempio interessante che mi viene subito alla mente – e che, non a caso, è richiamato anche dall’Autrice – è l’installazione realizzata a Bolzano sul fregio ornamentale di un grande palazzo concepito e costruito durante il fascismo. Essa consiste nella sovrapposizione al relativo bassorilievo – assai paradigmatico della retorica del Ventennio – di una scritta che la sera si illumina, recita “nessuno ha il diritto di obbedire” ed è proiettata in tre lingue (oltre all’italiano, il tedesco e il ladino). Un volta rivisto, il monumento, all’evidenza, diventa altro, pur non scomparendo e, anzi, riemergendo, in parte quale veicolo di un messaggio istituzionale nuovo, in parte quale testimonianza storico-culturale di un passato da conoscere, assimilare e superare. E il superamento non è damnatio memoriae, è processo di digestione culturale. In questa prospettiva, è vero che il testo di Lisa Parola – che forse a tratti è eccessivamente descrittivo – non aggiunge molto alla lezione già desumibile da alcune (poche ma lucidissime) pagine di Jacques Le Goff o dal famoso saggio di Alois Riegl sul culto moderno dei monumenti. Ha il merito, tuttavia, di lanciare un sasso per l’avvio, anche in Italia, di un dibattito più cosciente e, soprattutto, più sistematico, nel quale, come accade da tempo negli Stati Uniti, pure la competenza dei giuristi può scoprirsi più pertinente di quanto si possa immaginare.

Due interviste all’Autrice (qui e qui)

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Serenella Iovino, da un’artificiosa terra-carne (da leparoleelecose.it)

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Carmelo Bene su calcio & boxe (da pangea.news)

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È un’opera postuma di Vitaliano Trevisan, scomparso all’inizio di quest’anno. Ed è sicuramente un Trevisan a tutti gli effetti, con tutto il suo consueto carico di ispirata, disperata e disorientante radicalità, e con il denso repertorio di suggestioni e rimostranze interiori e sociali che è tipico di questo Autore. Bene ha fatto, dunque, l’editore a pubblicare Black Tulips, possa o meno considerarsi formalmente compiuto. Sostanzialmente, lo è a pieno titolo. Come sempre, in Trevisan, la trama è formata dal racconto di concrete esperienze personali, tappe vere e proprie di un articolatissimo percorso esistenziale e dei suoi periodici crolli. Questa volta lo scrittore vicentino rievoca il suo viaggio nella prostituzione. Da frequentatore abituale, per così dire. Anche se poi si è trattato pure di una spedizione vera e proprio, in Nigeria, perché – come gli diceva Ade, una delle prostitute nigeriane da lui conosciute e poi espulsa dal nostro paese – u must c with your own eyes. Pertanto Trevisan – che si carica risolutamente sulle spalle anche lo stigma che la prostituzione porta con sé – è partito per Lagos, per immergersi e vedere, scortato da Ade e da Amen e Mudia, amici e accompagnatori della ragazza, ma anche potenziali soci d’affari in un’improbabile commercio di pezzi di ricambio per auto usate. Black Tulips è il taccuino che Trevisan non ha tenuto allora, e che, tuttavia, si ricostituisce ora tra frammenti, avvertenze e note a piè di pagina, in cui si rinvia anche a lavori inediti o comunque non pubblicati. Ne risulta una sorta di diario extra vagante e a tratti stordito, che, attorno ai ricordi dei diversi incontri notturni in quel di Vicenza e alla colonna portante del viaggio (quasi conradiano), sviluppa una pioggia di osservazioni: di carattere psicologico, storico, sociologico, etico. Alla Nigeria, Trevisan oyibo, l’uomo bianco che andando a prostitute ha anche imparato un po’ di pidgin english, si consegna: si fa guidare per mano tra venditori ambulanti e poliziotti spietati, si lascia avviluppare dal caldo, dalle lunghe attese e dallo sfiancante go-slow del traffico di Benin City e Lagos, rischia di suscitare una rissa paradossale di fronte a una chiesa costruita da imprese italiane, sfida platealmente un fondamentalista islamico, sfiora un terribile e inquinatissimo insediamento di palafitte, osserva cadaveri abbandonati per giorni lungo le strade. Naturalmente il racconto è ricco di informazioni: sulle ragioni, sulle origini e sui modi della prostituzione nigeriana; sulla storia della Nigeria, sul suo assetto cleptocratico e sulla vocazione costantemente estrattiva della sua classe dirigente e dei governi occidentali; sui pregiudizi e sugli ipocriti moralismi che alimentano le più comuni idee sulla prostituzione tour court. Ciò che più convince, però, e in parte quasi stupisce, è che, al di là delle varie critiche, rampogne o invettive – che ci restituiscono ancora una volta il timbro inconfondibile di questa scrittura, dall’inclinazione costantemente abrasiva – Trevisan rievoca momenti personalissimi di autentica e disarmata autenticità. È una condizione che potrebbe dirsi anche felice. Cosi, ad esempio, si riscopre egli stesso quando commenta le foto sorridenti di uno sgangherato beach party africano; oppure quando il rapporto sessuale con una prostituta si trasforma in un gesto reciproco di compassione e di inaspettato e insospettabile abbandono. Sicché Trevisan, nel suo viaggio, anziché perdersi in un heart of darkness, si è guadagnato attimi di forte umanità e consapevole naturalezza. È quello che ha sempre cercato. E non c’è dubbio che questo è il modo migliore di ricordarlo.

Recensioni (di D. Brullo; di L. Vicenzi)

Vitaliano Trevisan: due ricordi (qui e qui)

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