Disclosure preliminare: Acitelli è uno dei miei Autori preferiti; uno di quelli cui torno ogni tanto, per ritrovarmi. Fortuna vuole, poi, che non sia così difficile procurarsi un suo libro, perché tra volumi in prosa e opere poetiche la produzione è assai vasta. Quanto ai prodromi di di tale frequentazione, la complicità è scattata molti anni fa, con La solitudine dell’ala destra. Che non è solo una graziosa e nota raccolta di ritratti di grandi calciatori. Vi si trovano – veramente – alcuni tra i versi migliori della poesia italiana della fine del secolo scorso. Di Acitelli questa volta ho scelto Cinema Farnese, un originale romanzo in forma di taccuino, ambientato negli anni Settanta. È il diario colloquiale dell’io narrante, un giovane studente universitario di Roma, che è iscritto a Farmacia, ma ne diserta spesso e volentieri le lezioni. Il suo interesse è tutto per certi spazi del centro, tra Corso Vittorio, Piazza del Paradiso, Campo de’ Fiori, Piazza Farnese, Via Giulia. Ne osserva la fauna: da un lato, baristi, barbieri, camerieri, vecchi impiegati, a rappresentanza di un mondo di popolo in via di rapida sparizione; dall’altro, gli ambulanti, qualche barbone e, soprattutto, la generazione dei fricchettoni – veri e falsi – che si riunisce sotto la statua di Giordano Bruno e di fronte al Cinema Farnese. Dove i due universi, letteralmente, si toccano e si mescolano. Ma il ragazzo, più di tutto, ama immergersi nelle atmosfere che le pietre, i palazzi straordinari e la varia umanità di contorno gli parano di fronte. Gli piace perdersi in fantasticherie totalizzanti. E ascoltare, e spiare, i poeti del momento, che gravitano nella stessa zona: Bellezza, Paris e specialmente Veneziani. Proprio a un reading di poesia, non a caso, conosce una bella fricchettona, che lo attira in una sensuale e corrisposta relazione, e in tanti e intensi incontri in una fascinosa mansarda di Via di Monserrato.

Cinema Farnese è una pillola del miglior Acitelli. È prova ulteriore del suo peso specifico, che è quello del trovatore e antropologo di una romanità tanto personale quanto prototipica. Nella quale il Magnifico e il Sorprendente, che sono diffusi a ogni angolo della città, si compendiano con il più Semplice e Umano, anch’essi sottoposti da tempo a un processo di lenta consunzione e bisognosi, dunque, di custodia e di memoria. Ciò che è interessante, però, è che in Acitelli la descrizione delle cose e delle persone è medium per un’esperienza toccante, profonda, quasi iniziatica, che si alimenta ai ricordi delle scoperte d’infanzia, ma da esse pure si astrae, per produrre alimento attuale e universale a una sensibilità perennemente assetata. D’altra parte, anche quando si esprime nella prosa, Acitelli è intrinsecamente e assolutamente poeta, inteso a spremere il succo di ogni piccolo, grande dettaglio, perché prezioso. E l’autobiografia (che è sempre tanta) altro non è che un giacimento in cui immergersi continuativamente, l’eterno più prossimo cui accostarsi e raccordarsi. Verrebbe da svolgere un’argomentazione più complessa, il cui esito sarebbe questo: all’Autore riesce di vivere, in Roma, la provincia più autentica, consentendo, così, a quella immensa Idea (che la caput mundialtro non è) di sprigionare dal basso e dal quotidiano le correnti carsiche che la animano e che possono fungere, per ciascuno, come una sorta di speciale lampada di Aladino. Soltanto due aggiunte, per chiudere: 1) per trarre da Acitelli il massimo della soddisfazione occorre dargli fiducia, abbandonarsi alle sue pagine, ascoltarne il respiro (non è uno scrittore facile, va un po’ scalato, sapendo che dalla vetta ciò che si vede è molto bello); 2) per chi abbia un po’ di tempo, come per chi abbia modo di stare spesso a Roma, i libri di Acitelli sono guide perfette (le strade, gli edifici, le chiese, i piccoli portoni delle vie del centro… è tutto vero, tutto afferrabile; letto Acitelli, si guarda Roma con occhi diversi; anzi, la si guarda davvero, per la prima volta).

L’Autore presenta il suo libro

Un’intervista ad Acitelli… sulla strada del padre

Acitelli sulle tracce di Sandro Penna

Condividi:
 

Il protagonista di questo romanzo è Marcello Gori, trentenne viareggino che, largamente fuoricorso, si laurea in lettere all’Università di Pisa. Presto, del tutto inaspettatamente, vince una borsa per il dottorato di ricerca. Non può avere occasione migliore: non tanto per imboccare finalmente una possibile strada professionale, quanto per starne ancora lontano e fuggire dalle responsabilità cui il padre lo richiama da tempo. Il mondo accademico, però, si propone subito in maniera grottesca, con tutti i modi, i riti e le storture che gli attribuiscono i più noti e accreditati stereotipi. È naturale che, pur orientato dai consigli di Carlo, un assegnista preparatissimo che pare essergli amico, Marcello si senta un pesce fuor d’acqua. La sua guida poi – il Chiarissimo Prof. Sacrosanti, mentore dello stesso Carlo e di Pier Paolo, un dottorando ben più a suo agio di Marcello – lo mette sulle tracce dell’opera letteraria di Tito Sella, membro negli anni Settanta di uno sgangherato gruppo pararivoluzionario di provincia, e condannato all’ergastolo per alcuni gravi reati commessi dalla sua banda. Sembra proprio un’esperienza priva di particolare respiro. Tanto più che i primi approcci critici di Marcello quasi annegano nel corso dei dibattiti puntuti di un grande congresso di italianistica comparata. Nonostante ciò, il destino spinge il protagonista fino a Parigi, a consultare gli archivi di Tito Sella e a vivere pro tempore l’esperienza del tipico giovane studioso italiano all’estero. In quel contesto, a dispetto dei consigli di Sacrosanti, Marcello si immerge, e si confonde, nella traiettoria esistenziale del suo personaggio, immaginandone nei dettagli il romanzo autobiografico. Lo straniamento lo porta ad un senso di improvvisa liberazione, con incontri e abbandoni sorprendenti. Fino al forzato ritorno a casa, dove apprende di un evento tragico che lo scuote profondamente e lo porta, come in un giallo, a rivedere la pista seguita fino a quel momento, a fare una scoperta potenzialmente sensazionale e a compiere, per la prima volta nella sua vita, una scelta davvero consapevole.

La ricreazione è finita possiede tutte le stimmate del potenziale successo editoriale. In primo luogo, solletica con arguzia i palati di chi ama dissacrare il mondo universitario e i suoi principali attori. Ferrari, infatti, offre un vero e proprio repertorio del più assurdo e ipocrita galateo accademico: dal modo con cui si preparano le note di un saggio scientifico alle corse a ostacoli che si devono compiere per organizzare una conferenza e sistemare a dovere i diversi relatori. Di più: il romanzo è popolato di macchiette perfette, di figure (la dottoranda bionda, il Professor Morelli, Sacrosanti) che incarnano i classici tipi umani e le leggende personali di cui l’università è invariabilmente popolata, con le connesse povertà umane e intellettuali. Già questo, dunque, funziona benissimo. Oltre a ciò, si tratta di un romanzo di formazione, che per il solo fatto di riguardare il prototipo del vitellone degli anni Duemila non può che suscitare empatia. È il racconto di una specie di ravvedimento, di una presa di coscienza (anche questo è un fattore che i lettori di solito gradiscono) che si costruisce per opposizione all’artificiosità e all’ambiguità (che alla fine si rivelano estreme) dell’ambiente ipoteticamente colto, illuminato e impegnato in cui essa matura. Forse il terminale ultimo della storia, il punto di caduta del protagonista e delle sue decisioni finali, è disegnato in modo eccessivamente rapido, quasi sommario, come un fulmine a ciel sereno. E forse la scrittura è talvolta discontinua, alternando spezzoni di osservazione profonda o concentrazione comica, e a tratti sarcastica, a lunghi brani (talvolta superflui e) meramente narrativi. Ma occorre ripeterlo: gli ammiccamenti sopra descritti possono coprire qualsiasi maniera, ogni difetto. Sicché, nel complesso, il romanzo gira, eccome.

Il fatto è che – al di là di quanto può verosimilmente piacere – l’originalità di questo libro – il cui titolo fa ironicamente il verso sia ad una famosa frase di De Gaulle, sia a un discusso saggio di Roger Abravanel – si scopre meglio nella sua parte apparentemente più ingenua, ossia nel modo con cui rappresenta la dialettica tra vita e letteratura, tra ragioni del cuore e ragioni della testa. È profilo che si può apprezzare su due livelli, quello che più riguarda il protagonista, e quindi l’io narrante e alter ego dell’Autore, e quello che coincide con il soggetto-oggetto della finzione, Tito Sella, raffigurato e comparato con gli eroi delle sue opere. Il primo livello si spiega semplicemente. Se da un lato la somma superficialità di Marcello è il vizio che ne caratterizza meglio la personalità, è indubbio che è proprio questa virtù – un approccio spontaneo alle cose, diremmo – ad averlo protetto dall’eccesso dell’intelletto: ad averlo, cioè, tenuto “a distanza dal baratro in cui scivola chi si concede integralmente, senza remore e senza protezioni, con il rischio di essere risucchiato dall’abisso senza nemmeno rendersene conto” (p. 431). Il secondo livello, invece, è più complesso. Così come Marcello si scopre vittorioso nel farsi del suo formale fallimento, anche Sella viene riscoperto e riabilitato a modello di dignitosa coerenza proprio allorché se ne rivelano le umane paure, gli emotivi dietrofront e i successivi, umanissimi rimorsi. Solo i maestri – come Sacrosanti – sono dogmatici e perfetti, sanno come comportarsi e come, e dove, riuscire ad affermarsi, con il trasformismo e il perbenismo più assoluti, e abdicando a ogni innocenza. Che viceversa può darsi meglio nella dignitosa sconfitta di una bruciante rinuncia.

Recensioni (di D. Cacopardo; V. Calzolaio; S. Mariani; L. Martini)

Condividi:
 

Schio, 1970. Una mattina di maggio Emilia Bettàle, giovane operaia tessile momentaneamente impiegata come domestica, scompare misteriosamente. Il maresciallo Piconese comincia le indagini, ma lo scenario si fa subito indecifrabile. Qualche giorno prima, infatti, c’è stato un furto in una chiesa di una piccola frazione montana: esiste forse un nesso? Sembrerebbe di no, anche perché il contesto in cui si muoveva Emilia è molto diverso. Il sospettato numero uno, infatti, è il suo fidanzato, Giorgio Chemello, che si è dato latitante. Ma i loro amici, Federica Smiderle, Marco Béber e Gildo Sperotto, non ci stanno; pensano che Emilia avesse scoperto qualcosa su strane manovre all’interno delle fabbriche locali e sull’esistenza di qualche cellula terroristica. Del resto proprio in quel periodo l’auto di un importante dirigente d’azienda era stata incendiata, con una rivendicazione fin troppo esplicita. Il fatto è che è sparito anche Rizzo, il socio pugliese di Giorgio, e che a complicare ulteriormente le cose c’è anche l’entrata in scena del vecio Penso, un ex partigiano che sembra saperla assai lunga su trame oscure e depistaggi. Lo stesso Piconese non sa come orientarsi, tanto più che si verificano altri due attentati incendiari, che calamitano anche l’attenzione dei nuclei speciali della polizia. Tuttavia il maresciallo, durante un breve periodo di ferie quasi forzate, incappa in alcune importanti scoperte e l’indagine conosce presto un’accelerazione, con susseguirsi di nuove vittime e colpi di scena, e con un epilogo nel quale nulla è scontato.

Anche in questo romanzo Matino sceglie l’ambientazione che gli è più congeniale, l’Alto Vicentino. Ma questa volta lascia i Cimbri e la loro cultura sullo sfondo, per concentrarsi sulle vicende dell’industria tessile scledense e di Alessandro Rossi, l’imprenditore che più ne ha condizionato lo sviluppo nel corso del XIX secolo, dando vita ad un esperimento socio-economico di rilevanza europea e plasmando di sé anche la struttura della città. Il giallo non è che un pretesto. Da un lato, certo, questa scelta consente all’Autore di continuare a coltivare un genere che gli ha dato successo e di ricollegarsi espressamente, per il tramite della figura del maresciallo Piconese, al precedente Tutto è notte nera. Dall’altro lato, la collocazione dell’intrigo nel clima del Sessantotto e del conflitto tra padroni e operai permette la rievocazione di – il raffronto con… – un’epopea pionieristica di pari e grandi trasformazioni. L’impressione, sul punto, è che Matino non intenda soltanto divulgare, ricostruendo una fase gloriosa dell’economia locale e nazionale, e dimostrando che anche la periferia della provincia è stata protagonista autentica della grande storia (pure nel lungo Dopoguerra della ricostruzione, del boom e della liberazione dei costumi: a quest’ultimo riguardo, alla lunga e utile bibliografia che l’Autore offre in appendice si potrebbe aggiungere l’originalissimo testo di Lorenzo Bortoli). Matino, avvalendosi come portavoce ideale di uno dei suoi personaggi, Marco Béber, vuole suggerire che lo studio del passato – e la sua riscoperta nei luoghi a noi più prossimi – può essere davvero lo spunto per fronteggiare e capire il presente.

Recensione (di Chiara Roverotto)

Condividi:
© 2024 fulviocortese.it Suffusion theme by Sayontan Sinha