Il protagonista di questo romanzo è Marcello Gori, trentenne viareggino che, largamente fuoricorso, si laurea in lettere all’Università di Pisa. Presto, del tutto inaspettatamente, vince una borsa per il dottorato di ricerca. Non può avere occasione migliore: non tanto per imboccare finalmente una possibile strada professionale, quanto per starne ancora lontano e fuggire dalle responsabilità cui il padre lo richiama da tempo. Il mondo accademico, però, si propone subito in maniera grottesca, con tutti i modi, i riti e le storture che gli attribuiscono i più noti e accreditati stereotipi. È naturale che, pur orientato dai consigli di Carlo, un assegnista preparatissimo che pare essergli amico, Marcello si senta un pesce fuor d’acqua. La sua guida poi – il Chiarissimo Prof. Sacrosanti, mentore dello stesso Carlo e di Pier Paolo, un dottorando ben più a suo agio di Marcello – lo mette sulle tracce dell’opera letteraria di Tito Sella, membro negli anni Settanta di uno sgangherato gruppo pararivoluzionario di provincia, e condannato all’ergastolo per alcuni gravi reati commessi dalla sua banda. Sembra proprio un’esperienza priva di particolare respiro. Tanto più che i primi approcci critici di Marcello quasi annegano nel corso dei dibattiti puntuti di un grande congresso di italianistica comparata. Nonostante ciò, il destino spinge il protagonista fino a Parigi, a consultare gli archivi di Tito Sella e a vivere pro tempore l’esperienza del tipico giovane studioso italiano all’estero. In quel contesto, a dispetto dei consigli di Sacrosanti, Marcello si immerge, e si confonde, nella traiettoria esistenziale del suo personaggio, immaginandone nei dettagli il romanzo autobiografico. Lo straniamento lo porta ad un senso di improvvisa liberazione, con incontri e abbandoni sorprendenti. Fino al forzato ritorno a casa, dove apprende di un evento tragico che lo scuote profondamente e lo porta, come in un giallo, a rivedere la pista seguita fino a quel momento, a fare una scoperta potenzialmente sensazionale e a compiere, per la prima volta nella sua vita, una scelta davvero consapevole.

La ricreazione è finita possiede tutte le stimmate del potenziale successo editoriale. In primo luogo, solletica con arguzia i palati di chi ama dissacrare il mondo universitario e i suoi principali attori. Ferrari, infatti, offre un vero e proprio repertorio del più assurdo e ipocrita galateo accademico: dal modo con cui si preparano le note di un saggio scientifico alle corse a ostacoli che si devono compiere per organizzare una conferenza e sistemare a dovere i diversi relatori. Di più: il romanzo è popolato di macchiette perfette, di figure (la dottoranda bionda, il Professor Morelli, Sacrosanti) che incarnano i classici tipi umani e le leggende personali di cui l’università è invariabilmente popolata, con le connesse povertà umane e intellettuali. Già questo, dunque, funziona benissimo. Oltre a ciò, si tratta di un romanzo di formazione, che per il solo fatto di riguardare il prototipo del vitellone degli anni Duemila non può che suscitare empatia. È il racconto di una specie di ravvedimento, di una presa di coscienza (anche questo è un fattore che i lettori di solito gradiscono) che si costruisce per opposizione all’artificiosità e all’ambiguità (che alla fine si rivelano estreme) dell’ambiente ipoteticamente colto, illuminato e impegnato in cui essa matura. Forse il terminale ultimo della storia, il punto di caduta del protagonista e delle sue decisioni finali, è disegnato in modo eccessivamente rapido, quasi sommario, come un fulmine a ciel sereno. E forse la scrittura è talvolta discontinua, alternando spezzoni di osservazione profonda o concentrazione comica, e a tratti sarcastica, a lunghi brani (talvolta superflui e) meramente narrativi. Ma occorre ripeterlo: gli ammiccamenti sopra descritti possono coprire qualsiasi maniera, ogni difetto. Sicché, nel complesso, il romanzo gira, eccome.

Il fatto è che – al di là di quanto può verosimilmente piacere – l’originalità di questo libro – il cui titolo fa ironicamente il verso sia ad una famosa frase di De Gaulle, sia a un discusso saggio di Roger Abravanel – si scopre meglio nella sua parte apparentemente più ingenua, ossia nel modo con cui rappresenta la dialettica tra vita e letteratura, tra ragioni del cuore e ragioni della testa. È profilo che si può apprezzare su due livelli, quello che più riguarda il protagonista, e quindi l’io narrante e alter ego dell’Autore, e quello che coincide con il soggetto-oggetto della finzione, Tito Sella, raffigurato e comparato con gli eroi delle sue opere. Il primo livello si spiega semplicemente. Se da un lato la somma superficialità di Marcello è il vizio che ne caratterizza meglio la personalità, è indubbio che è proprio questa virtù – un approccio spontaneo alle cose, diremmo – ad averlo protetto dall’eccesso dell’intelletto: ad averlo, cioè, tenuto “a distanza dal baratro in cui scivola chi si concede integralmente, senza remore e senza protezioni, con il rischio di essere risucchiato dall’abisso senza nemmeno rendersene conto” (p. 431). Il secondo livello, invece, è più complesso. Così come Marcello si scopre vittorioso nel farsi del suo formale fallimento, anche Sella viene riscoperto e riabilitato a modello di dignitosa coerenza proprio allorché se ne rivelano le umane paure, gli emotivi dietrofront e i successivi, umanissimi rimorsi. Solo i maestri – come Sacrosanti – sono dogmatici e perfetti, sanno come comportarsi e come, e dove, riuscire ad affermarsi, con il trasformismo e il perbenismo più assoluti, e abdicando a ogni innocenza. Che viceversa può darsi meglio nella dignitosa sconfitta di una bruciante rinuncia.

Recensioni (di D. Cacopardo; V. Calzolaio; S. Mariani; L. Martini)

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