Dal famoso autore di Fatherland e di altri bestseller è giunto quest’ultimo romanzo. Nella sua versione originale, Act of Oblivion, il titolo del libro richiama l’Act of Free and Generall Pardon Indempnity and Oblivion, approvato dal Parlamento inglese nel 1660, primo anno del governo “restaurato” di Carlo II Stuart. Si trattava di una sorta di amnistia (un regime normativo, per la verità, molto articolato e ricco di eccezioni) per i crimini variamente commessi durante la guerra civile e la “dittatura” di Oliver Cromwell. Da essa erano rimasti esclusi soprattutto i regicidi, coloro, cioè, che avevano partecipato alla condanna o sottoscritto l’ordine di decapitazione del re Carlo I e che, perciò, sono stati oggetto di una vera e propria caccia. Chi è stato catturato, poi, è stato sottoposto a un’esecuzione terribile e prolungata. Harris ricostruisce fedelmente la fuga e l’inseguimento di due regicidi, Edward Whalley e William Goffe, ex ufficiali dell’esercito puritano, realmente esistiti e tra loro imparentati. Essi non sono, però, gli unici protagonisti di queste vicende. C’è anche un personaggio di pura invenzione, un funzionario del Privy Council del sovrano e capo dell’intelligence, Richard Nayler, che, animato da una personale e inarrestabile sete di vendetta, cerca i fuggitivi ovunque e in ogni modo. La scena si divide tra l’Inghilterra e le colonie d’Oltreocenano, dove i due veterani, assistiti da alcuni correligionari, sono costretti a vagare da un nascondiglio all’altro e a vivere ora come reclusi, ora in stato quasi selvaggio. In un susseguirsi di illustrazioni d’epoca assai dettagliate e di accelerazioni quasi western, le avventure proseguono fino all’epilogo, nel 1674, quando si consuma un ultimo e drammatico regolamento di conti.

Il racconto ha alcuni pregi. Scava in una pagina di storia non troppo conosciuta e descrive abilmente luoghi, situazioni e persone, facendo calare il lettore assai bene nel tempo che fa da sfondo alla trama. Tratteggia in modo efficace il fervore e il milieu dei seguaci di Cromwell, spiegando indirettamente moltissime cose sui rapporti tra il retroterra ideologico delle rivoluzioni inglesi e la futura rivoluzione americana. Descrive, infine, con precisione, usando lo stratagemma del memoriale del colonnello Whalley, alcuni snodi critici dell’ascesa e delle aspirazioni largamente utopistiche del New Model Army. Nonostante ciò, in Oblio e perdono c’è qualcosa che, di primo acchito, non torna. Sicuramente manca di risolutezza, una pecca che si traduce in un ritmo molto lento e in intermezzi talvolta noiosi. Ma soprattutto c’è – ed è forse alla base di questa indecisione – una tensione non completamente risolta tra due obiettivi che costantemente si ripropongono e si alternano: da un lato, la decostruzione dei processi, anche psicologici, individuali come collettivi, di chi si ostina a restare ostaggio di pulsioni totalizzanti (il messaggio è: se fare giustizia è necessario, è altrettanto necessario superare il passato e abitare il presente); dall’altro, la riflessione su di uno stadio preciso dell’evoluzione delle istituzioni inglesi, presa come pretesto per valorizzare l’importanza di un’intera tradizione costituzionale e dei suoi equilibri complessi e concretissimi (e, così, della monarchia costituzionale inglese, indipendentemente dall’identità o dalla moralità del “reggente”). Il primo livello, ovviamente, non esclude il secondo. Anche se, nella narrazione, è proprio il primo che pare prevalere, specie nella conclusione, dove chi si salva – meglio: chi Harris immagina salvarsi – è chi appare oramai propenso a cominciare davvero una nuova vita. Occorre aspettare le ultime pagine per sciogliere il dubbio e quello che sembrava un difetto potrebbe anche risultare un pregio, visto che continua a far lavorare il lettore, anche a libro chiuso.

Un’intervista all’Autore

La Guerra Civile inglese secondo Alessandro Barbero

Condividi:
 

Ciascuno cerca i rimedi che meglio gli si addicono: i presìdi, come direbbe qualcuno. Anche i libri lo possono essere. In generale, nel senso che lo può essere la lettura in sé e per sé; o in particolare, per gli effetti specifici che può avere la ripresa di certi testi o la frequentazione periodica di un autore. Il mio rimedio, il presidio per eccellenza, è William Faulkner. È la mia penicillina, l’antibatterico che devo assumere periodicamente, preferibilmente nella calura estiva, chiudendo ogni tanto gli occhi e immaginandomi in qualche parte della sua mitica contea di Yoknapatawpha. Di Faulkner, negli anni, ho letto (e riletto) tantissimo. Questa antologia ancora mi mancava. Se Yoknapatawpha potesse avere, oggi, una sua perfetta serie tv, questi racconti – assemblati per Adelphi da Mario Materassi (che ne ha firmato la puntuale postfazione) – ne potrebbero essere gli undici magnifici episodi. Sono tutti diversi, naturalmente. Però sono percorsi da un comune e amaro gusto comico, o meglio satirico, pur annegando, come sempre in Faulkner, in un cocktail di tragico e di epico. 

Un corteggiamento, Foglie rosse e Capelli sono, forse, i pezzi migliori. Il primo è la storia di una sfida che due improbabili e determinatissimi “contendenti” intraprendono e spingono quasi fino all’estremo, per rimanere poi beffati in una maniera a suo modo classica. Il secondo è la descrizione di una fuga disperata e di un destino drammatico, quello che deve invariabilmente toccare allo schiavo nero di un capotribù indiano, che è morto e che non può, tuttavia, essere sepolto se non in compagnia di tutte le sue cose. Il terzo è paragonabile ad una sorta di exemplum “di provincia”, un racconto pedagogico, sia pur in modo sotterraneo, sulla tenacia inspiegabile di un uomo apparentemente mediocre e invisibile, ma capace di una trascinante forza di redenzione (lo stesso personaggio – che è un barbiere – compare anche in Settembre arido, cronaca terribile e fulminante di un gratuito e spietato linciaggio). Sempre esemplare è anche Scandole per il Signore, una parabola ficcante sull’esiziale povertà che si nasconde in ogni pretesa puramente individuale di superiorità etica. La mia Nonna Millard, il Generale Bedford Forrest, e la battaglia di Harrykin Creek va letto assieme a Muli in cortile. Entrambi sono divertenti, ma, in un certo senso, l’uno è l’opposto dell’altro, visto che nel primo l’anacronismo della old culture sudista viene messo apertamente alla berlina, mentre nel secondo è quello stesso attaccamento a contrapporsi all’amoralità di un tempo tanto nuovo e progredito quanto barbaro. Il senso di un cortocircuito inevitabile tra due mondi antitetici, con esiti addirittura diseducativi, è molto ben rappresentato in Sarà bello (geniale l’assunzione della prospettiva infantile da parte del narratore). Ne Gli uomini alti lo stesso cortocircuito si rivela come la principale ragione del mancato coinvolgimento del Sud nelle trasformazioni socio-economiche e politiche del Novecento americano, viste come fattori intempestivi di spiazzante disorientamento (l’incontro e il dialogo tra un saggio sceriffo e un giovane e ingenuo funzionario federale strappa più di qualche sorriso). 

La raccolta è singolare e importante perché, oltre a confermare la straordinaria bravura dello scrittore, rivela in modo evidente la proiezione universale, e salvifica, del pessimismo faulkneriano. È un sentimento che, nell’immediato, si radica nella fatalistica ricognizione dello scacco insuperabile della guerra civile e della maledizione che ha instillato tanto negli uomini che l’hanno vissuta quanto nelle generazioni successive (la “cappa” è palpabile specialmente nell’atmosfera western di Vittoria in montagna). Ma quello di Faulkner è uno sguardo che coinvolge biblicamente tutta l’umanità, della cui degenerazione, miseria e grettezza (come in Strascico della morte) le mille storie del Grande Sud – del “cielo” definitivamente “caduto” – non possono che essere la migliore occasione espressiva e, al contempo, il più efficace e provvidenziale sermone.

Condividi:
© 2023 fulviocortese.it Suffusion theme by Sayontan Sinha