Si può identificare un autore solo con la sua produzione e con il flusso di significati che ne possono derivare? Oppure conta di più la dimensione soggettiva? Sono questioni classiche, per la cui risposta occorre assumere, preliminarmente, posizioni ben più complesse. Quando, poi, ci si imbatte nel pensiero di Foucault, il problema si rivela ancor più difficile. Perché non c’è dubbio che da quel pensiero, e dai testi che lo hanno veicolato, ha avuto origine una serie tuttora proficua di re-interpretazioni, declinazioni o, addirittura, nuove correnti filosofiche. L’opera foucaultiana, pertanto, si staglia come un dato autonomamente generativo. Eppure non c’è dubbio, allo stesso tempo, che quell’opera, anche nelle sue virtù seminali, è il frutto di un’esperienza formativa  personale e costante; di un itinerario individuale pressoché irripetibile, le cui scelte sono più che mai avvinte alle virtù e ai condizionamenti di un intero sistema socio-culturale e accademico, quello francese, traguardato nei profili dei suoi protagonisti e nell’attrito con i più importanti eventi di un certo periodo storico. Pertanto anche l’individuo Foucault, immerso nel suo tempo, non può essere trascurato. Della fecondità di questi intrecci – tra oggettività di un lascito intellettuale e irriducibilità di un percorso esistenziale – la preziosa biografia di Eribon – comparsa nel 1989, riedita con aggiornamenti nel 2011 e riproposta in Italia, da Feltrinelli, dieci anni dopo la prima edizione del 1991 – rappresenta la migliore e più ricca dimostrazione. Che, peraltro, non rinuncia a sintetizzare in maniera assai efficace i poli sostanziali di una riflessione tanto cangiante quanto coerentemente evoluta.

Sul piano delle opere, il Foucault de Storia della follia nell’età classica (1961) non è lo stesso de Le parole e le cose (1966); né quest’ultimo coincide con l’autore de L’archeologia del sapere(1969) o di Sorvegliare e punire (1975) o de La volontà di sapere (1976). E pure i famigerati corsi al Collége de France (come, ad esempio, Bisogna difendere la società-1975/1976 o Nascita della biopolitica-1978/1979) sono altra cosa ancora. C’è da ammettere che la mutevolezza, o il tormento, non è da meno nelle vicende della carriera universitaria o dell’impegno pubblico: ambiti, entrambi, in cui Foucault sa essere eccentrico, urticante, antipatico, istintivo, politicamente scontroso e schierato, ambiguamente profetico, ma anche accomodante, ligio al dovere d’ufficio, instancabile nell’organizzazione e nell’aggregazione di persone e cose, cosciente del galateo istituzionale, strategico nelle conoscenze e nelle relazioni sociali, intelligentemente conservativo. Possono sembrare lineamenti di un profilo contraddittorio, talvolta opportunistico e talaltra passionale. In realtà sono aspetti che, nel racconto di Eribon, risuonano di libertà e indipendenza; di un’ambizione onnipresente, che non rinuncia mai alla peregrinazione, al viaggio, al confronto (dalle prime esperienze giovanili, svedesi, polacche e tunisine, alle grandi trasferte della maturità, in Brasile, Stati Uniti e Giappone). E che non rinuncia neanche all’azzardo (come nel caso del reportage in Iran e dei presentimenti sul futuro dell’Islam). In effetti Foucault è costantemente alla ricerca del luogo e della condizione congeniali, in cui specchiarsi ed essere riconosciuto. La scrittura fa parte dello stesso viaggio, visto che, come ricorda Eribon, secondo Foucault si scrive per essere amati. E anche la forma e la sequenza con cui un pensatore si esprime, già sul piano editoriale, non possono che riflettere questa istanza di rimodulazione e adeguamento progressivi (ne sono plastica espressione le riprogettazioni continue dei volumi dell’opera sulla Storia della sessualità).

La biografia, peraltro, riesce a isolare intuizioni ricostruttive e profili metodologici distintivi e costanti, e a restituire così il ritratto di uno studioso a suo modo esemplare. A Foucault, come è noto, si devono acquisizioni importanti: sui rapporti, nell’evoluzione del pensiero occidentale, tra normalità e patologia; sulla formazione, tra il Diciassettesimo e il Diciannovesimo secolo in particolare, della c.d. società disciplinare e della sua varia tecnologia di misurazione, valutazione, classificazione, controllo, inclusione/esclusione; sul rapporto tra pratica moderna delle pene e scienze umane; sulla natura e sull’origine del potere (che deriva dai molteplici effetti di divisione che percorrono l’insieme del corpo sociale: in questo senso, “il potere viene dal basso”); sull’indispensabilità, per ogni società, e per ogni sistema di giustizia, di un’interrogazione continua sulle proprie istituzioni; sul fatto che al governo delle persone è funzionale non solo l’obbedienza, ma anche la manifestazione piena, da parte dei governati, di ciò che si è; sulla remotissima nascita, nelle tecniche della cura di sé e nelle morali dell’antichità, dei laboratori in cui si forgiano specifici modi di assoggettamento; etc. Dell’esperienza foucaultiana, comunque, ciò che ancor più colpisce è la commistione strutturale tra riflessione teorica e indagine storica, quest’ultima effettuata sempre sul campo (negli archivi, con i documenti, con le testimonianze materiali di specifiche prassi e organizzazioni…): perché, per fare ricerca, “bisogna andare in fondo alla miniera”. In questo modo, la filosofia non solo si mescola alla storia, ma si imbatte (e si interroga, dialogando) con il diritto, con la psicologia, con la religione, con la letteratura, con l’economia. In un’età di forte enfasi sull’interdisciplinarità nella ricerca scientifica, tornare a Foucault è quanto mai formativo.

Recensioni (di S. Catucci; di M. Cicala; di M. Marchesini; di R. Ronchi)

L’Autore presenta il suo libro

Condividi:
 

Quella di Kurt Erich Suckert (1898-1957: Curzio Malaparte è un nom de plume) non costituisce un’esperienza facilmente riassumibile.

Arruolato nella Legione straniera, militante attivo durante il Primo conflitto mondiale, fascista della prima ora e giornalista di grande successo, Malaparte coltiva costantemente relazioni ed idee “pericolose”. Queste lo rendono presto avverso al regime e lo portano al confino, sull’isola di Lipari, ma, al contempo, gli consentono di continuare ad esprimersi comunque, sotto altro pseudonimo, sulle pagine del Corriere della sera, di combattere, poi, come ufficiale nell’esercito italiano e di diventare, a guerra finita, non solo un collaboratore attivo degli Alleati, ma anche un autore di grande successo, ormai consacrato in Italia come all’estero (Kaputt, 1944, e La pelle, 1949, sono considerati, a ragione, due veri capolavori).

Una figura controversa, dunque. L’unica cosa che, forse, gli si può unanimemente riconoscere è lo sguardo diretto, impertinente, capriccioso e acuto delle migliori intuizioni, condite con una singolare capacità di scrittura.

Di tali qualità è specifica dimostrazione questo piccolo libro, che Adelphi finalmente ripubblica. Risale al 1931; il testo originale compare, per la prima volta, in Francia. In Italia sarà dato alle stampe soltanto nel 1948. Le ragioni di questo ritardo sono presto dette: proporre, in quei tempi, una lucida e spietata analisi del modo con cui è possibile assumere il potere all’interno di uno Stato – prendendo a riferimento anche l’ascesa di Mussolini e l’incombente pericolo hitleriano – non era, evidentemente, un’operazione indolore. D’altra parte, è da questa iniziativa che anche le “sfortune” di Malaparte prendono avvio, dal momento che, a causa di essa, viene subito rimosso dal prestigioso incarico di direttore de La Stampa.

Tuttavia, il testo non è un atto d’accusa nei confronti delle nascenti dittature; o forse lo è implicitamente. Malaparte, in realtà, vuole semplicemente spiegare, quasi fosse il più freddo studioso di anatomia, come, nello Stato moderno, le questioni sulla conquista del potere si debbano considerare, innanzitutto, questioni di tecnica; e come la “ragione” del suo libro non sia quella “di discutere programmi politici, sociali ed economici” di quegli uomini che si sono proposti di sovvertire l’ordine costituito, “bensì di mostrare che il problema della conquista e della difesa dello Stato non è un problema politico” e “che l’arte di difendere lo Stato è regolata dagli stessi principi che regolano l’arte di conquistarlo” (p. 261).

Segue una galleria vivissima di personaggi storici (Napoleone, il generale Pilsudski, i tedeschi Kapp e Bauer, Trockij e Stalin, Mussolini e Hitler) e di colorite ricostruzioni (del 18 brumaio, della crisi polacca del 1920, delle acute crisi della Repubblica di Weimar, della Rivoluzione d’Ottobre, dell’avvento del fascismo e delle velleità del futuro Führer), nelle quali l’Autore cerca di dimostrare che, di fronte alle tecniche messe in atto dai rivoluzionari del contesto moderno, le soluzioni di polizia, di controllo dell’ordine pubblico e della sicurezza, sono del tutto insufficienti, e che, per farvi fronte, non è necessario discutere degli obiettivi che quelle rivoluzioni vogliono porsi, ma è necessario, piuttosto, e paradossalmente, curare la patologia con altra patologia, muoversi da perfetti e cinici tattici. A questo proposito, sono impressionanti, davvero, le pagine su Mussolini (e sulla sua spregiudicata ed esiziale “intelligenza marxista”: 196 ss.) e quelle su Hitler (e sulla sua “morbosa” follia: 241 ss.). E non stupisce che il primo abbia messo al bando quest’opera e che il secondo l’abbia condannata al rogo.

Quanto all’Italia, due passaggi fanno, ancora una volta, riflettere, a prescindere dall’attendibilità storica delle tesi in essi sostenute: “Verso la fine del 1920 il problema che si poneva al fascismo non era quello di combattere il governo liberale o il partito socialista, che, con la sua progressiva parlamentarizzazione, turbava sempre più la vita costituzionale del paese, ma quello di combattere le organizzazioni sindacali dei lavoratori, che costituivano la sola forza rivoluzionaria capace di difendere lo Stato borghese contro il pericolo comunista o fascista” (p. 213); “Chi avrebbe mai immaginato che Mussolini, così buon patriota quando conduceva la lotta contro i comunisti, i socialisti e i repubblicani, sarebbe diventato dall’oggi al domani un uomo pericoloso, un ambizioso senza pregiudizi borghesi, un catilinario deciso a impadronirsi del potere anche contro il Re e contro il Parlamento? Era colpa di Giolitti se il fascismo era diventato un pericolo per lo Stato. Bisognava strozzarlo in tempo, metterlo fuori della legge fin dal principio, schiacciarlo con le armi come era stato schiacciato D’Annunzio” (pp. 232-233).

Qual è, in definitiva, il messaggio che questo pamphlet, così provocatorio, consegna ai posteri? Ce lo dice, senza fronzoli, lo stesso Malaparte: “La particolare natura dello Stato moderno, la complessità e la delicatezza dei problemi politici, sociali ed economici che è chiamato a risolvere, ne fanno il luogo geometrico delle debolezze e delle inquietudini dei popoli, e aumentano le difficoltà che si debbono superare per provvedere alla sua difesa. (…) L’opinione pubblica di quei paesi, nei quali l’opinione pubblica è liberale e democratica, ha torto di non preoccuparsi dell’eventualità di un colpo di Stato. Una tale eventualità (…) non è da escludersi in nessun paese” (pp. 40-41).

Un’intervista al curatore di questa edizione (Giorgio Pinotti)

Una scheda su Curzio Malaparte

Tutto su Malaparte

Condividi:
© 2024 fulviocortese.it Suffusion theme by Sayontan Sinha