Il corpo di una ragazza austriaca, Johanna Pichler, viene trovato nella campagna di San Stino di Livenza. Le indagini arrivano presto a Martin Scherer, un giovane di San Candido. La ragazza, infatti, indossa ancora la felpa di Martin e prima di sparire era stata vista in atteggiamenti intimi proprio assieme a lui. Quasi subito, inoltre, si scopre che, nella notte in cui è scomparsa, dal telefono di Johanna è partita una telefonata: è rimasta parzialmente registrata nella segreteria di un’amica e, ascoltandola, si conoscono sia il tentativo di Martin di trattenere Johanna a casa sua, sia la volontà di Johanna di tornarsene in autostop a Sillian, a soli tredici chilometri da San Candido. Martin, dunque, viene arrestato e Marco De Vitis, avvocato bolzanino di belle speranze, ne assume la difesa. Nella tesi degli inquirenti ci sono tante cose che non tornano. È vero che Martin, in passato, ha fatto il cameriere a Jesolo, ma non ha la patente; come avrebbe potuto trasportare il cadavere in un luogo così lontano? Si pensa, certo, a qualche complice, ma non è facile individuarlo. E poi Johanna è stata minacciata anche da un camionista, detto l’Olandese, che talvolta frequenta gli stessi locali. Per Marco – che istintivamente crede all’innocenza di Martin – il caso è importantissimo e vi si butta a capofitto. Cominciano in questo modo quasi tre anni di indagini e di attività processuali, durante i quali Marco, anche con l’aiuto del Prof. Serra, noto e affermato penalista, segue ogni pista possibile. Il giudizio di fronte alla Corte d’assise conoscerà alcuni colpi di scena e l’immersione di Marco nel caso e nei suoi misteri si rivelerà totalizzante e decisiva, fino alla fine.

Nella bandella laterale il libro si auto-presenta come un legal thriller. Ma lo spazio della fiction è totalmente sovrastato dalla ricostruzione giudiziaria. Ne risulta una sorta di ibrido, sospeso tra il true crime e il courtroom drama. È un carattere che conferisce al racconto una spiccata originalità. Ciò non dipende soltanto dal fatto che la fonte dell’ispirazione è una storia vera, messa su carta con il contributo diretto, e tecnico, di uno dei suoi protagonisti. È che la narrazione non aderisce ad un canone classico di verosimiglianza, bensì ad un registro realistico e quasi didattico. Se ci si aspetta un poliziesco, un giallo o un libro “alla Carofiglio”, si può restare spiazzati. Viceversa, se si vuole capire come possono funzionare delle indagini e come può articolarsi un processo penale, si può ricevere un quadro abbastanza fedele. Viene affrontato con chiarezza, ad esempio, il tema generale dei diritti della difesa e il problematico – e tutt’altro che raro – ricorso a tecniche indebite di interrogatorio. Si comprende bene, poi, come si devono formare le prove nel giudizio e come avvengono l’esame e il controesame di un testimone. Non mancano le allusioni al sensibile rapporto che può intercorrere tra le dinamiche della giustizia e il circuito dei media. Soprattutto, è rappresentata in modo assai efficace la tensione strutturale tra la verità storica e quella processuale, specie se la seconda lascia sul terreno qualcosa di irrisolto o di non spiegato. C’è anche un altro profilo – non meno importante – che va sottolineato. Il libro rappresenta un itinerario di intenso e progressivo apprendimento e, ciò facendo, mette in scena in modo convincente ciò che è noto non solo a qualsiasi avvocato, ma ad ogni professionista che voglia ritenersi tale: che l’esperienza sul campo è un costante e irrinunciabile esercizio; e che ci sono sempre vicende e prove difficili, che fanno crescere più di altre.

Una doppia recensione (da Il Corriere dell’Alto Adige)

Un’intervista a Giovanni Accardo

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Affrontato il divorzio, Teen Boom abbandona una brillante carriera di procuratore federale e di avvocato per lasciare gli Stati Uniti e “arruolarsi” nelle fila della pubblica accusa presso la Corte penale internazionale a L’Aja. La sua famiglia è proprio di origine olandese e l’occasione può essere buona per ricongiungersi con una radice mai completamente scoperta. Da subito, però, Boom viene messo a dura prova. È chiamato, infatti, a verificare la possibilità di avviare un’indagine, delicatissima, sulla misteriosa scomparsa, nel 2004, di un intero villaggio rom nei pressi di Tuzla, in Bosnia. Una strana testimonianza sembra accreditare la tesi dello sterminio, forse perpetrato da un gruppo di paramilitari serbi. Ma si sospetta addirittura che i responsabili siano i militari americani di una vicina base NATO, che avrebbero voluto vendicarsi del presunto sostegno offerto dai rom ad un noto criminale di guerra. Il campo nel quale Boom deve muoversi è evidentemente minato, poiché si tratta di un caso in cui sono coinvolti i vertici dell’esercito statunitense, le milizie serbe ancora fedeli al precedente regime, l’intelligence americana e molte altre, ed equivoche, figure, come quella di una fascinosa avvocatessa e di un’eccentrica ex ufficiale della US Army. Boom non si lascia scoraggiare e, accompagnato dal fedele e competente aiuto di Goos, un poliziotto belga distaccato alla Corte, si muove con decisione tra le reticenze dei graduati, gli inganni degli agenti diplomatici e i segreti e i pericoli delle missioni internazionali operanti sul territorio balcanico. Non mancano le avventure e i colpi di scena, e, come si conviene a scenari tanto complessi, l’epilogo dimostrerà a Boom che la realtà era molto diversa da ciò che poteva ragionevolmente attendersi; e che anche la sua vita affettiva può improvvisamente rinascere.

In questo romanzo Turow è un po’ al di sotto dei suoi consueti standard. La vena thriller è molto addomesticata, quasi addormentata. E si ha la sensazione che al centro del racconto vi sia l’esigenza, strettamente personale, di uscire da un genere, fare un bilancio e cambiare, quanto meno, il teatro delle operazioni – che non è più l’immaginaria Kindle County dei precedenti bestseller – per esplorare nuove possibilità: della serie “sto invecchiando anch’io, caro lettore, dammi una chance per capire se possiamo fare ancora un po’ di strada insieme”. Il punto è che la sfida sarebbe realmente riuscita se Turow avesse optato direttamente per la non fiction, o per l’inchiesta informata e ragionata, un po’ come aveva fatto in Punizione suprema, quando aveva affrontato il tema della pena di morte. Perché in questo libro il buono sta tutto nel focus sulla giustizia penale internazionale, sulle sue intrinseche difficoltà, sugli attori che fanno parte di quel gioco e sulla fondamentale sfida che in quell’area condiziona ogni comportamento: la ricostruzione dei fatti e le insidie materiali, politiche e personali che vi sono inestricabilmente correlate. È la fluidità strutturale di questa tipologia di scenari ad essere il vero protagonista del racconto, e quindi sarebbe stato auspicabile riconoscerla e fronteggiarla a viso aperto: da crime writer che ha una specifica expertise giuridica, Turow avrebbe potuto veicolare al grande pubblico una rappresentazione avvincente e al contempo affidabile. Ma ogni grande autore ha la sua Kindle County, quella che l’ha reso famoso e riconoscibile. Una volta scoperta, è un’impresa riattraversarne i confini.

Recensione (di Steven Poole)

Intervista all’Autore

La testimonianza a Fahrenheit

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I Burroughs sono una famiglia di fuorilegge. Il loro clan vive da sempre di traffici illegali. A Bull Mountain, Georgia, nel cuore della foresta, sono padroni di un impero selvaggio, costruito sul traffico di whiskey e poi “evoluto” nella coltivazione di marijuana e nella produzione di droghe sintetiche. La montagna, quella montagna, è il loro regno, e niente è più importante. Rye è morto proprio per questa ragione: perché non si possono tagliare impunemente le radici che legano quella stirpe alla sua terra e alle sue leggi implacabili; neanche un Burroughs può farlo. Oggi tocca a Clayton sfidare il destino. Reietto lo è da un pezzo, da quando ha deciso di fare lo sceriffo, proprio lì, a Bull Mountain. Ora un agente federale, Simon Holly, gli propone uno strano patto: convincere il fratello Halford, il capo della famiglia, a incastrare l’organizzazione di Miami che fornisce al clan le armi; in cambio c’è la promessa di graziare tutta la banda, purché rinunci ai suoi affari. Clayton sa che rischia la vita. Ma non sa ancora che il motivo per cui rischia tutto non è soltanto la tenace violenza del fratello. Holly, infatti, porta con sé un disegno segreto. C’è uno spettro del passato che incombe su Bull Mountain. E vuole vendetta: una sentenza che, pagina dopo pagina, si lascia scoprire in tutta la sua ferocia.

L’opera prima di Panowich, già musicista girovago e pompiere volontario in un piccolo paese della Georgia, è un godibile intreccio tra Mario Puzo, Lansdale, McCarthy e Don Winslow. Cocktail di questo tipo, così tremendamente modalioli nel mainstream di genere, rischiano di essere indigesti, di deludere, di esplodere sin dal principio per eccessiva intenzione corrosiva. Ma non è il caso. Primo: nel romanzo domina un binomio di successo, terra e famiglia, matrice irrinunciabile e cornice ideale di qualsiasi tragedia ben riuscita, specialmente quando si tratta di narrare un’epopea malavitosa e cruenta. Secondo: il libro funziona anche come sceneggiatura, già pronta e finita, da proiettare sull’epico e spietato scenario di un Dixieland mai veramente scomparso e sempre affascinante. Faulkner e Capote l’hanno battezzato per l’eternità, perciò la sua resa è tuttora sicura, e qui si riesce a percepirlo, a vederlo, a toccarlo. Terzo: c’è un quid pluris. L’Autore aggiunge alla ricetta un pizzico di noir. È il vero tocco originale del racconto, se si vuole il meno americano, tanto che viene quasi da pensare a Derek Raymond. Il fatto è che questo sapore veicola il mood più giusto per interpretare correttamente il finale della storia, altrimenti un po’ scontato (che nessuno possa sfuggire a se stesso non è una grande novità…). A conti fatti, tutto si tiene in Bull Mountain, anche dal punto di vista fisico: EnneEnne si conferma come editore che tiene molto alla qualità della grafica di copertina, dalla quale ammicca, coerentemente, una natura oscura e terribilmente incombente. Insomma, Bull Mountain è davvero un oggetto gradevole.

Recensioni (di Elisabetta Favale; di Angel Luis Colón)

Intervista a Panowich

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Dave Nichols, ricchissimo uomo d’affari di San Diego, chiede a Boone Daniels, ex poliziotto e investigatore privato, di indagare sulla moglie Donna, perché teme che questa lo tradisca. Boone accetta, anche se pensa che si tratti di una seccatura bella e buona. Del resto deve occuparsi anche di un altro incarico, molto più scottante. Lo studio legale di Alan Burke, presso il quale lavora la bella Petra, gli ha commissionato un compito di cui non avrebbe mai voluto sapere: capire se è possibile scagionare Corey Blasingame, il giovinastro che è stato accusato di aver ucciso Kelly Kuhio, leggenda del surf californiano. Il fatto è che Boone e i suoi più cari amici, tutti surfisti, erano molto legati a Kuhio. Nessuno vorrebbe che Corey, ragazzo violento e razzista, la faccia franca. Eppure Boone comincia a lavorare, attirandosi il rancore dei suoi inseparabili compagni e di tutta la pattuglia dell’alba, il mitico gruppo di surfisti che si ritrova quotidianamente alle prime luci del mattino per celebrare ogni nuovo giorno sulle onde, e che sul mare precede sempre gli affezionati più attempati – i professionisti e i benestanti… – della successiva ora dei gentiluomini. Questa volta, però, Boone si è cacciato proprio in un brutto guaio. Perché si accorge ben presto che Corey non può aver ucciso Kuhio e che Donna tradisce effettivamente il marito, peraltro con un uomo che nel frattempo viene assassinato; e la polizia, dal canto suo, accusa di ciò anche Boone. È un ginepraio, intricatissimo. C’è odore di strane speculazioni immobiliari, di fastidiosi sodalizi xenofobi, di confessioni sostanzialmente falsate, se non estorte… e naturalmente c’è da rischiare la vita, perché la verità è davvero difficile da ingoiare e di mezzo si è messa anche la più spietata malavita della Baja California. Le due indagini finiscono per intrecciarsi, inevitabilmente, e per Boone è l’anticamera di una nuova avventura.

Don Winslow è un ottimo romanziere, ma la cifra che più gli si addice è quella del grande sceneggiatore. Il suo Boone Daniels – che aveva già debuttato in La pattuglia dell’alba – sembra un nuovo e perfetto Magnum P.I., senza Higgins, certo, senza T.C. e Rick, e senza isole Hawaii. Ma ha tutto il fascino che serve, vive nella San Diego di Simon&Simon, si muove a suo agio in splendide spiagge, ha un gruppo di amici veri e un senso innato per la scelta giusta. Ovviamente Boone deve scontare il fatto che gli anni Ottanta non ci sono più, e che non c’è più un Vietnam da dimenticare. Quindi il quadro è radicalmente, e quasi logicamente, più corrotto e più violento di quanto avrebbe potuto essere allora. Tuttavia, dai tempi di Point break, surf e scena del delitto funzionano assai. E in questo libro c’è anche da confrontarsi con un crimine organizzato pronto a qualsiasi cosa, fattore che in tempi di Gomorra non è per nulla stonato. Questo, a ben vedere, è il prezzo da pagare all’altro Winslow, quello de L’inverno di Frankie Machine o de Il potere del cane, il conoscitore freddo e crudo (come pochi) del gangsterismo legato al narcotraffico. Comunque sia il mix è gradevole, anche perché è ben temperato da una trama e da un tono che solo il legal thriller può assicurare. Una volta cominciato, insomma, è dura lasciare questo libro. Il finale lascia pure presagire che ci sarà presto un terzo atto e che con tutta probabilità non sarà l’ultimo. In questa serie, infatti, Winslow ha dato vita a tanti personaggi che non si sono ancora rivelati appieno e i cui tratti fanno pensare a potenzialità di livello, ancora inesplorate. Li aspettiamo fiduciosi sulla battigia, con i piedi già in acqua.

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Per un thriller nel quale c’è un commissario che sa anche cucinare si può dire, in generale, che gli ingredienti sono buoni e che lo è anche la mano, salvo che nell’impasto sono scivolate cose che propriamente non ci dovrebbero mai stare e di cui non ci si può non accorgere. Refusi a parte (ve n’è più di uno, purtroppo, e ciò anche a non voler considerare la vistosa mancanza che si riscontra nell’indice…), il passaggio della narrazione dalla classica fase delle difficoltà delle indagini all’immancabile fase della scoperta dell’identità del “cattivo” è fin troppo rapido. Infatti, pur rispondendo ad uno schema consolidato – quello del “tutto sembra finito, ma è tutto così semplice da non poter essere veramente finito” – ciò indebolisce la riflessione e le impressioni forti che l’Autore vorrebbe condividere, trascinandole nel finale (tutto sommato) banalizzante di una tipologia di intreccio un po’ consumata.

Nella Marca Trevigiana agisce un killer seriale, che rapisce giovani donne ed effettua su di esse esperimenti inconfessabili. Roberto Serra, lo “straniero”, un poliziotto immerso nei tormenti psico-fisici di un passato di dolore e di talento, viene presto condotto sulla pista giusta, grazie alla tenacia di Francesca, una giovanissima e trasgressiva ragazza, che assomiglia molto alla Lisbeth Salander dei romanzi di Stieg Larsson e che non si capacita della scomparsa della sua compagna. La caccia all’uomo diventa una lotta contro il tempo, specialmente quando il commissario – tra fantasmi privati, cedimenti nervosi e tentazioni irresistibili – assiste tragicamente alla morte di Francesca, riscopre se stesso tra le braccia di Susana e, dopo aver catturato la mente diabolica che ha seminato il terrore, si lancia alla ricerca del terribile complice che è ancora vivo e che rischia di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’ultima vittima e di altri importanti protagonisti. Il lieto fine è assicurato e Serra riesce a rappacificarsi con la sua bella Alice, anche se sul campo rimangono molti feriti, e il gioioso e vitale paesaggio della Pedemontana veneta sembra ripiombare nell’indifferenza da cui, in definitiva, non pare essersi svegliato neanche di fronte alle tremende ricerche eugenetiche di un novello Dr. Mengele.

Se l’intenzione del romanzo è risvegliare molte coscienze dai rischi della xenofobia, allora è del tutto proporzionale il nesso con lo shock che ancora può dare l’esistenza di folli disegni sul perfezionamento della razza in un contesto in cui un facile perbenismo nemmeno se li immagina. Come si è anticipato, però, alcuni snodi della trama sono veloci, e questo rischia di rendere assai poco verosimile un racconto che, viceversa, meriterebbe senz’altro di essere lodato, anche per la scelta dei luoghi. Pasini, di suo, è un validissimo scrittore. Gli attori che la sua penna dirige sulla scena sono tutti all’altezza. Ciascuno, dal ruolo protagonista ai ruoli comprimari, è dotato di una convincente caratterizzazione, ed è tale anche quella del commissario Serra. In proposito, al termine del libro, l’Autore dichiara: “Roberto ha già ricominciato a sussurrarmi all’orecchio. E prima o poi lo ascolterò”. Speriamo che accada presto e che ci sia dato, così, di vedere nuovamente all’opera il poliziotto e la sua pericolosa Danza (i lettori possono capire…) nel quadro di una tela meglio ispirata.

La “prima” del libro

Una recensione (di Carlo Vanin)

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Imma Tataranni è un’intelligente e volitiva Pm del Tribunale di Matera, nota a molti lettori sin da Come piante tra i sassi. Il rumore dei tacchi ne preannuncia l’arrivo nei corridoi degli uffici giudiziari ed interrompe il vociare distratto dei colleghi e dei collaboratori. È ammirata, invidiata, temuta e talvolta anche odiata, specialmente da quando le sue indagini hanno messo sotto i riflettori gli interessi delle grandi compagnie petrolifere, impegnate nelle estrazioni che avrebbero dovuto favorire lo sviluppo della Basilicata e che invece sono rimaste, per il territorio e per la società lucani, una sorta di dannoso corpo estraneo. Anche le insinuazioni di una ragazza riportano la Tataranni ad approfondire questo difficile campo d’indagine, specialmente quando proprio quella giovane viene ritrovata morta in un dirupo. Si tratta del suicidio cui è tragicamente giunta l’ennesima speranza frustrata del talento locale? Oppure c’è materia per smascherare un torbido intreccio di affari, sesso e politica?

Mariolina Venezia – che dopo i successi del Campiello 2007 (con la saga familiare Mille anni che sto qui) resta giustamente fedele alla lingua e alla cultura delle sue origini anche allorché si confronta con il genere poliziesco – costruisce un caso abbastanza semplice, forse prevedibile, ma per nulla mediocre. Imma Tataranni, innanzitutto, è una buona conferma. Il personaggio è ben riuscito, sempre tonico, colorito ed empatico al punto giusto. Ciò che può piacere, soprattutto, è il sovrapporsi, in questa singolare protagonista, di impegno istituzionale e vita privata: il meccanismo riesce perché non gioca artificiosamente sullo straordinario, ma sulla ordinaria difficoltà, per una donna, di conciliare pregiudizi professionali fin troppo atavici e la delicata condizione di mamma e di moglie. Unica trasgressione, ma solo potenziale, è quella dei sogni, talvolta anche ad occhi aperti, che la tenace Pm proietta sulla figura del brigadiere Calogiuri, con effetti che non possono che suscitare complicità e qualche sorriso sornione.

Risulta interessante, però, anche la soluzione dell’intrigo, che per larga parte pare affondare, o sprofondare, nel magma della malapolitica, della casta e dei suoi vizi, delle peggiori commistioni affaristiche e dei drammi familiari da rotocalco. In verità, al di là delle assonanze con molti e notissimi fatti di cronaca, ciò su cui l’Autrice vuole farci riflettere è l’esistenza di un mondo senza cornici, di un universo, cioè, di ambizioni e di rapporti senza limite, che non hanno alcun riferimento e che si nutrono della carne, del sangue e delle speranze della parte migliore della società. Anche nel giallo, dunque, possono veicolarsi stimoli preziosi: forse l’egoismo e la superficialità diffusi, di cui tanto ci stupiamo, non sono i caratteri di una sola generazione – che è sempre l’ultima arrivata, quella più giovane – ma si esprimono e vengono, anzi, coltivati ed esaltati in un’arena spietata in cui il ruolo di predatore è sempre riservato ad altri e più esperti attori, ben più consapevoli ed irresponsabili.

Un’intervista all’Autrice

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In questo insolito thriller nordico la sfida cui allude l’enigma del titolo si sdoppia: scoprire le ragioni della morte di Gaston Lund, un famoso professore danese ritrovato morto in uno sperduto isolotto di un fiordo islandese; decifrare il rompicapo che alla fine dell’Ottocento un giovane studioso ha costruito prendendo spunto dal Codex Flateyensis, un corposo libro in pergamena composto tra il 1387 e il 1394, complessa raccolta di saghe che prende il nome dall’isola (Flatey) in cui si snoda la trama del romanzo.

Kjartan è un neo-avvocato che il prefetto del Breiðafjörður ha spedito a Flatey per alcuni rilevamenti di carattere fondiario. Ma ciò che deve risolvere non è una questione burocratica, bensì lo strano caso del cadavere del noto esperto straniero, ritrovato tra gli scogli di Ketilsey da una locale famiglia di pescatori. È un caso difficile: non è inaspettato solo per lui; lo è anche per la piccolissima comunità dell’isola, popolata, tuttavia, da figure carismatiche ed enigmatiche, come quella del sacrestano, Þormóður il Corvo. Sia pur spalleggiato da Grímur, ufficiale del distretto, e da Högni, maestro di scuola, Kjartan entra ben presto in difficoltà, e quando si scopre l’identità del defunto le cose peggiorano ed entrano in scena nuovi e ambigui personaggi, che “generano” ulteriori e drammatici eventi, e che mettono nei guai lo stesso Kjartan, con il suo oscuro passato, e Johanna, il medico del villaggio ma, al contempo, la figlia di un celebre collega del povero Gaston Lund: entrambi, infatti, erano tra i massimi esperti del Codex Flateyensis… A complicare le cose, del resto, c’è anche il segreto dell’enigma “letterario” prodotto sulla base delle saghe islandesi: anche di questo Kjartan capisce poco, ma, come avviene per il lettore, le rivelazioni progressive (paragrafo per paragrafo) delle 39 domande in cui si snoda l’arcano gli consentiranno, se non di risolvere gli altri misteri, di fare i conti con le dure esperienze della sua giovinezza, ritrovare se stesso e intravedere la possibilità di un futuro più solido e felice.

È un libro che, nonostante le apparenze, si dimostra particolarmente raffinato: è una sensazione che si prova spesso di fronte alla letteratura nordica contemporanea, ed anche in quella di genere; perché anche nei thriller scandinavi sono tante le cose originali, quindi un po’ lontane dai gusti più collaudati, continentali o anglosassoni che siano… e ciò è sempre e soltanto positivo. Questa volta il quid pluris del testo non si apprezza soltanto nell’abilità con cui l’Autore intreccia la duplice ricerca, quella investigativa e quella filologica. Il punto è che Ingólfsson torna alla durezza, alla bellezza e all’essenzialità del più tipico paesaggio islandese per ricordare – in primo luogo, certo, alla sua gente – che la relazione tra i grandi miti di una storia nazionale e il tempo presente è questione di equilibrio e di metabolizzazione, diremmo di maturazione. È un processo che non porta alla cancellazione o, viceversa, alla mitizzazione delle radici, ma ad esaltarne i valori forti e a nutrire gli animi di una comunità che deve affrontare lo smarrimento e le opportunità della società contemporanea, e che può farlo soltanto restando unita. Il pericolo maggiore, infatti, è l’autismo culturale, che genera fatalismo ed indifferenza: la semplice e naturale soluzione dell’enigma investigativo (per gli appassionati del giallo, forse, deludente) trova, così, una lineare spiegazione.

Uno sguardo nel Codex Flateyensis

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Quando si comincia un libro, specialmente se è particolarmente lungo, occorre essere tenaci e non mollare l’osso alle primissime difficoltà. Le soddisfazioni, infatti, possono essere nascoste proprio dietro l’angolo della pagina successiva. O possono rivelarsi solo alla fine, serbando per le ultime righe lo shock adrenalinico di un’inattesa rivelazione o, viceversa, l’istante appagante del compiersi tanto atteso di un’intera e complessa narrazione. In ogni caso, bisogna resistere, anche quando lo stile è frammentato ed allusivo, anche quando tutto (frasi e dialoghi e struttura…) sembra intriso dal più casuale assemblaggio di pensieri, associazioni mentali, flashback e spezzoni di vera e propria azione. D’altra parte, spesso, si tratta solo di impressioni, e può darsi che la sensazione negativa non sia neppure attribuibile ai demeriti dell’Autore, ma a quelli del traduttore, per il quale non è detto che sia poi così semplice riportare in modo “ficcante” il gergo, i doppi sensi e la rapidità di un linguaggio che pretende di essere tratto direttamente dalla scena.

Se si ha a che fare con Peter Temple, o meglio, con una sua versione italiana, una premessa di questo tipo è più che doverosa. Essa si adatta, quindi, anche al caso di Verità, che, al di là dell’iniziale disorientamento, è un poliziesco ben riuscito. Come sempre accade, infatti, questo genere letterario raggiunge un buon livello soltanto dove supera, almeno per un po’, il piano della suspence e del mistero, per toccare temi più profondi e per consegnarci figure capaci di suscitare empatia. Stephen Villani, il capo della Squadra Omicidi, la suscita senza troppe difficoltà. È un duro, reso ruvido da una vita, familiare e coniugale, sempre in salita, e  per giunta condannato a misurarsi quotidianamente con grandi e piccoli episodi di brutalità, e con un ambiente di lavoro che pare alimentarsi soltanto di arrivismo e cinica indifferenza. Ma Villani – qui viene il bello – vive anche della nostalgia di rapporti affettivi fondamentali, mai integralmente vissuti, eppure di continuo ripensati, ricercati e riscoperti. Sono queste aspirazioni, mai sconfitte, a rappresentare la verità di Villani, quelle che lo aiutano ad affrontare le indicibili e terribili verità del mondo che, come un incendio, lo circondano, lo minacciano, lo vogliono corrompere e corrodere, e ne mettono, così, alla prova il carattere e la fortezza.

Verità, ad ogni modo, offre anche ciò che di meglio possono dare, contemporaneamente, un thriller ed un giallo: c’è l’intreccio tra crimine, affarismo e politica; c’è la classica dinamica tra poliziotti “buoni” e poliziotti “cattivi” (o peggio, inetti); c’è la risorsa di un’intelligenza acerba e diversa (quella che si coglie, per fare nomi, nel giovane “sbirro” aborigeno); c’è il giusto ritmo, che, quando serve, subisce le giuste accelerazioni o le altrettanto inappuntabili frenate; c’è un commissario pieno di intuito, che vuole vedere e saggiare le cose di persona, e che peraltro si trova a mescolare, come prevede il buon copione, vita professionale e vita privata; c’è il finale che un po’ “te l’aspetti” e un po’, però, lascia pensare a nuovi intrighi e a prossime avventure; c’è, sullo sfondo, palpitante, l’ambiguità ancora prevalente di un continente in bilico tra la fatale superiorità della natura e le contaminazioni altrettanto fatali della colonizzazione più sfrenata. Si può dire, senza timore di esporsi troppo, che in questo scampolo torrido di agosto, Peter Temple vale certamente qualche minuto di siesta pomeridiana.

P.S.: se c’è un besteller che offre più di qualche spunto per una serie televisiva di sicuro appeal, questo è l’ultimo romanzo di Peter Temple; un po’ mi duole ammetterlo (i libri sono libri, la Tv è un’altra cosa), ma è la pura… Verità! P.S. bis: al termine della lettura, per riflettere ancora e per riemergere dal clima tagliente e rovente del libro, non c’è niente di meglio che Diamonds On The Inside di Ben Harper… I knew a girl / Her name was truth / She was a horrible liar

Una recensione da The Observer

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Ci sono momenti nei quali il migliore antidoto per la stanchezza – fisica, psichica, intellettuale… – è un buon libro giallo o un buon thriller. Il problema, però, è sempre lo stesso: quello della scelta. Quale giallo? Quale thriller? Perché i lettori, tutti, lo sanno benissimo: la scelta sbagliata non “vince” la stanchezza, rischia soltanto di portarla a livelli insopportabili; anzi, alla stanchezza si può soltanto aggiungere una delusione cocente, mista a depressione galoppante. Ad ogni modo, il più delle volte bisogna sapersi accontentare, cogliendo le energie positive che anche un’opera complessivamente modesta può nascondere tra le sue pagine. Questo è il caso, in effetti, de Il maestro di scacchi, nuova avventura del giovane e svagato Max Perri, avvocato per destino familiare più che per passione.

Ad essere onesti, i fattori di potenziale e immediato “disincanto” sono svariati e dovuti ad elementi narrativi che replicano espedienti un po’ scontati: è da poco passato il 150° anniversario dell’Unità, e molti dei misteri che aggrovigliano l’intreccio poggiano le loro radici, guarda caso, proprio in pieno Risorgimento; passato e presente si articolano in rapide, ma numerose, sequenze, e la struttura del romanzo ne riesce un po’ troppo frammentata, al punto che spesso si rischia la confusione; la definizione dei caratteri di quasi tutti i personaggi è molto marcata, e in alcuni casi sembra di trovarsi di fronte a caricature stereotipate di modelli già sperimentati, come quello della giovanissima Chiara, un po’ dark, un po’ asociale, un po’ brillante e, naturalmente, un talento scacchistico e, al contempo, una ragazza “carina” e intelligente. Ma anche il prof. Terrani e tutta la “stirpe” della nobilissima e papalina famiglia Oderisi sembrano emergere da un cocktail già bevuto, un po’ Augias (I segreti di Roma) e un po’ Pérez-Reverte (Il club Dumas). Alla fine, poi, ma non proprio “alla fine” (purtroppo…), lo snodo dell’intrigo si intuisce facilmente e l’illusione di imminenti e tonificanti colpi di scena ne risulta smontata altrettanto semplicemente.

Tuttavia, ci sono ingredienti che compensano abbondantemente queste carenze e che rendono ancora una volta godibile il frame in cui si muove la penna dell’avv. Salvatorelli: che enfatizza con il giusto colore alcuni aspetti, comuni ma reali, dell’attività forense e del relativo ambiente; che crea, nella figura di Max, un “collega” che non si prende troppo sul serio, riesce istintivamente simpatico e interagisce alla perfezione con la sua squadra, Rita, Giulia-pancia (!) e HAL (alias Roberto: ecco, forse troppo zelante per essere un praticante di uno studio legale…); che ci racconta, sotto sotto, delle sue genuine passioni (per la musica, per il collezionismo, per una certa epoca storica, per un certo qual modo di guardare alla professione e alla vita quotidiana); che semina abilmente indizi per incuriosire il lettore affezionato a ritrovare gli stessi interpreti sulla possibile scena di un’eventuale prossima indagine.

Caina attende e Il collezionista ostinato erano forse migliori; ma non possiamo pretendere che Max Perri sia sempre sulla cresta dell’onda. Diciamo che, per ora, gli diamo appuntamento in qualche mercatino di Porta Portese e lo lasciamo gustarsi, di nascosto, un qualche quadretto di ottima cioccolata fondente. Un tipo come lui merita complicità e indulgenza.

Il sito dell’Autore

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Stefano De Conti è un poliziotto risoluto e a suo modo affascinante, che bada al sodo e che non si lascia certo intimidire. Ma c’è un passato drammatico alle sue spalle, un evento tragico da cui cerca di fuggire: la diffidenza dei colleghi e le aperte ostilità del capo non sono certo un problema, né può esserlo l’indagine delicata che gli viene subito assegnata, all’atto del suo insediamento presso la Questura di Venezia. Si è trasferito in laguna, infatti, seguito da Bruno, anziano e fedele maggiordomo di famiglia, una figura sollecita e quasi paterna, l’unica persona che gli è rimasta dopo i lutti, profondissimi, che vuole lasciarsi alle spalle e che ne hanno determinato la partenza dalla sua città, Torino.

In questa cornice, si apre l’indagine introspettiva, che non è, però, quella che De Conti riesce a portare brillantemente a termine dopo diversi appostamenti e dopo essersi guadagnato, “a spallate”, il rispetto, e il timore, del nuovo ambiente di lavoro. Si tratta della ricostruzione della propria vita e della propria professione, in una città nuova e particolare; ma si tratta, soprattutto, di fuggire da una minaccia terribile e ancora incombente, che rischia di essere addirittura irrimediabile e di portare il protagonista alla più completa disperazione.

Andrea Tralli compone un romanzo che, in verità, non ha un inizio e una fine determinati. Tuttavia non è detto che ciò costituisca un difetto. In modo implicitamente astuto, Omicidio in Sestiere Castello (il titolo si basa sul fatto che l’omicidio su cui De Conti indaga è avvenuto in quella parte di Venezia) è una specie di “prologo”, che promette senz’altro ulteriori puntate, nel presente, nel futuro e forse anche nel passato. Perché la lettura di questo insolito giallo-thriller non risolve ogni questione: vorremmo sapere, infatti, che cosa è realmente successo a Torino, quali sono le sequenze degli eventi che hanno portato alla morte di Marta, moglie del protagonista, e qual è la caratterizzazione dei “nemici” da cui De Conti sta cercando di scappare; ma vorremmo anche sapere se il tormentato poliziotto troverà in Giorgia o in Carla, le due figure femminili che incontra in questo libro, una reale possibilità di riconquistare se stesso. La prima sfida narrativa di Tralli è, quindi, riuscita; suscita curiosità ed aspettativa, con la complicità di una Venezia sempre suggestiva. C’è solo da augurarsi che le attese siano ben riposte.

Un assaggio del libro…

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