Il terremoto di aprile 2009 colpisce anche Camporammaglia, paesino dell’Abruzzo non lontano da L’Aquila. L’evento, in verità, è decisamente meno traumatico rispetto al grado con cui ha impattato sul capoluogo o su altre località. Ma è comunque un punto di svolta: è il momento in cui giunge a maturazione una trasformazione più grande, per il narratore come per la piccola comunità in cui è cresciuto. Non a caso il racconto dei mesi di emergenza e delle avventure semiserie in cui loro malgrado sono coinvolti gli abitanti di Camporammaglia è interrotto da un lungo intermezzo. Perché, per capire di che cosa veramente si tratta, è indispensabile conoscere la fisionomia originaria del luogo e dei suoi protagonisti, in parte ancora legati ad un ritmo di vita semplice e autoreferenziale, in parte pronti a uscire definitivamente dal recinto che nemmeno il boom economico o i meravigliosi anni Ottanta erano riusciti a sconvolgere. Il terremoto, dunque, non fa che accelerare questa dinamica, impegnando anche il narratore, alter ego dell’Autore, nella ricerca di un equilibrio, che sarebbe tanto auspicabile e felice quanto irrealizzabile.
La scrittura di quest’opera prima, fresca vincitrice del Campiello, ricorda Guareschi; non per la semplicità – il periodare di Valentini è ben più sofisticato di quanto sembra – ma per l’ironia. E anche per la capacità di rappresentare in modo così efficace un altro mondo piccolo che se ne va; anzi, che se ne è già andato ormai, con processo variabile, in larga parte di tutta la montagna periferica del nostro Paese, sugli Appennini come sulle Alpi. È questo il vero sisma che scuote il romanzo e alimenta l’autocoscienza del suo protagonista e di chi legge. La storia, infatti, ci costringe a fare i conti con il cuore semplice del Paese, e con i suoi vissuti collettivi, che, per quanto incompatibili con le mode del benessere cittadino, rischiano di essere perduti troppo facilmente, con implacabile naturalezza. Nei confronti di questo universo Valentini prova una sorta di insopprimibile nostalgia ultragenerazionale, un sentimento che viene trasmesso anche dallo stile utilizzato. Nel libro, infatti, tutto ciò che può apparire come sintomo quasi pittoresco di arretratezza viene rievocato con un tono bonariamente malinconico, amplificato dalla citazione ricorrente di espressioni e frasi dialettali; di un linguaggio, cioè, nel quale continuare riconoscersi e confortarsi. Dopodiché l’Autore non indulge in insopportabili spiegoni, non prova a tematizzare la questione in modo pretesamente oggettivo e, specialmente, non attribuisce responsabilità; si mette semplicemente a nudo, alla cerca di un po’ di complicità, e questa è la qualità migliore del libro.
Recensioni (di Gianni D’Alessandro; di Donatella Di Pietrantonio; di Claudio Giunta)
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