Coltivo da anni quella che considero una buona abitudine. Se viaggio verso un luogo, tanto più se mi devo impegnare in una qualche attività di riflessione, confronto o discussione critica, cerco di sintonizzarmi con alcuni demoni di quel luogo. Specialmente se figurano tra i protagonisti del dibattito. Così è stato qualche giorno fa, nell’itinerario per un bel convegno che si è tenuto a Cagliari: l’occasione perfetta per leggere un breve, ma intenso, racconto di Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo. È un piccolo capolavoro. Si tratta di una storia di caccia, scritta tra il 1936 e il 1938, come Un anno sull’Altipiano, e pubblicata, però, solo nel 1967. Durante una battuta al cinghiale, gli anziani del gruppo, stimolati dai ripetuti, inspiegabili, errori dei tiratori più abili, rievocano attorno al fuoco una misteriosa vicenda sepolta nel passato. E quasi celebrano, in questo modo, un vero e proprio rito apotropaico, di rispettoso ricongiungimento agli spiriti profondi dei loro avi e della natura più segreta e avvolgente. Tutto funziona in questa prova letteraria, che tiene in equilibrio temi e toni alla Rigoni Stern – citato anche da Lussu nel suo commento introduttivo – con un’atmosfera weird degna di Lovecraft. Il confezionamento complessivo dell’edizione ha meriti ancor maggiori, che vanno oltre l’utilissima digressione antropologica offerta dall’Autore nelle pagine che precedono il racconto. Il volume, nella riedizione di Ilisso, raccoglie, infatti, altri cinque testi: sulla cultura paterna e familiare, sulle origini del Partito Sardo d’Azione, sul futuro dell’isola, sul brigantaggio e su di un episodio puntuale di vita politica e parlamentare. Sono pezzi interessanti, ma, nella sua essenziale incisività, quello di apertura – La mia prima formazione democratica – è formidabile. Perché ricorda le lezioni ricevute dal padre, “un provinciale semplice, senza nessuna cultura”. Eppure capace di comunicare coraggio e integrità, spirito critico e realismo, riconoscimento e rispetto, umiltà e dignità. A dimostrazione che il rapporto con le radici, proprio quando sa farsi veicolo di una trasmissione dialettica e metabolizzata, è capace di custodire le virtù che meglio alimentano ogni stabile progresso.
Un Handke, ogni tanto, fa bene alla salute. Di solito i suoi sono libri brevi e facilmente leggibili, apparentemente superficiali, eppure originali, mai scontati. Per ciò solo si distinguono. Lo spunto per rileggerne uno è la recentissima attribuzione, proprio a Handke, del Nobel per la Letteratura. Ma al di là dell’effetto di rinnovato e generale interesse, e delle polemiche che la premiazione ha suscitato (quella premiazione ne suscita sempre e comunque…), viene sempre naturale tornare ad assaggiare le pagine di un Autore tanto particolare e altrettanto piacevole. L’autunno, inoltre, è la stagione che più gli si addice, che più si confà al tono dolcemente crepuscolare del suo pensiero vagabondo, come per un Montaigne post-moderno. L’oggetto delle riflessioni, in questo caso, è il Luogo Tranquillo, quello che in modo classico e diplomatico si può definire “ritirata”: il bagno, la toilette. Si parte dal Luogo Tranquillo di cui si legge in un buon romanzo di Cronin; si passa attraverso il ricordo di quello della vecchia e odiata casa del nonno, in campagna; si approda alla prima e fondamentale agnizione sull’importanza esistenziale del Luogo, avvertita e coltivata nella frequentazione del cesso del collegio; si apprende anche della fredda e lunga notte estiva trascorsa nel WC di una stazione austriaca di provincia, ma anche dei lavaggi serali e semi-clandestini nei servizi igienici dell’Università. Si capisce che per lo scrittore il Luogo Tranquillo è una risorsa diventata via via più indispensabile, il punto archimedico per sollevare la coscienza di sé, un punto esclusivo di osservazione protetta sul cosmo. È anche un’esperienza, che può essere inaspettata (come quella vissuta a bordo di un aereo russo) o addirittura provvidenziale (e sperimentata nel tempio di Nara, in Giappone, nella quieta penombra che ha consentito all’Autore di provare un’esperienza simile al satori buddista). A questo punto il rischio – prevedibile, dato l’argomento – che il saggio venga preso distrattamente, con troppa ironia o in modo perfino dissacrante, costringe Handke a uscire allo scoperto, a dire di quando lo ha scritto, della livida campagna francese e del lungo e piovoso inverno in cui l’ha elaborato, e della gioia di quell’isolamento. Scrivere del Luogo Tranquillo, dunque, è come scrivere della propria ispirazione e delle condizioni che le sono veramente ideali; di “quei passaggi, immediati, dal mutismo, dalla condizione in cui si è colti da mutismo, al ritorno del linguaggio e delle parole – quei passaggi sperimentati di continuo e, nel corso della vita, con intensità sempre maggiore, nel momento in cui si chiude e si sbarra quella determinata porta, e si resta da soli con il luogo e la sua geometria, lontano da tutti gli altri”. È evidente che tutto questo non vale solo per lo scrittore o per l’artista in genere.
Recensioni (di Raul Calzoni; di Sergio Peter; di Letizia Paolozzi)
Nell’Italia longobarda del VI secolo le vite di Gisulfo e Placidia sono molto diverse: nobile guerriero di stirpe germanica, l’uno; rampolla aristocratica di origini bizantine, l’altra. I loro destini mai potrebbero incontrarsi, se non nel corso di qualche barbaro saccheggio. Ma per caso si vedono, si innamorano all’istante – il linguaggio degli occhi… – e, nonostante la ritrosia delle loro genti, si sposano. I due hanno punti di vista ostinatamente distanti, e le cose non cambiano neppure quando Gisulfo decide di diventare cristiano. La fede e la cultura di Placidia gli paiono forme di incomprensibile mollezza, armature troppo deboli per un età troppo violenta. Tornare ai costumi del suo popolo, allora, gli sembra la soluzione migliore, da perseguire quasi con polemica e offensiva ferocia. Poi, all’improvviso, Placidia si ammala gravemente e muore, e le certezze del duca longobardo crollano ancora, disperatamente. La crisi, però, non viene invano: per Gisulfo è tempo di scoprire un più autentico, e profondo, punto di incontro e di comunione, con se stesso e con la sua amata e scomparsa consorte.
Il Cipolla autore di questo breve – e delicato – racconto è il Cipolla famoso, il noto e compianto storico dell’economia, la cui penna ha partorito veri e propri gioielli, da Allegro ma non troppo a Vele e cannoni. Il maestro del dettaglio intelligente – non trovo espressione migliore per definire il Cipolla – si rivela tale anche quando assume in modo più scoperto le vesti del semplice narratore. Raccontare storie gli è stato sempre congeniale; tanto più se sono l’occasione di rivelare e illustrare i colori e le forme dello sfondo che le ospita e che le determina. Il linguaggio degli occhi non fa eccezione. Ha la cadenza di una classica storia d’amore, con tutti i suoi luoghi più comuni, ricostruiti con minuzia. Al contempo è un pretesto per un tuffo, senz’altro divertito ma non banale, nella pianura padana delle invasioni barbariche, di scontri di civiltà ormai dimenticati e di una cristianità che, passo dopo passo, si sta trasformando e inculturando. Che ci volessero Gisulfo e Placidia per spiegare così bene la tensione totalizzante del cristianesimo medievale può sorprendere. Ma la bravura di Cipolla è tutta qui. E non mi resta che ringraziare chi mi ha prestato questo piccolo, quasi introvabile, gioiello.