Per fortuna che d’estate si trova quasi sempre un Faulkner da leggere. Questa volta è l’ultimo romanzo, dato alle stampe nel 1962, l’anno della morte del grande scrittore. Lo ripropone La Nave di Teseo in una edizione leggibilissima (una rarità: caratteri ampi, spaziature altrettanto ariose, una pagina che scorre e si fa bere con gusto). Di questo romanzo si possono sapere facilmente molte cose: che tra tutti quelli del Premio Nobel di Oxford (Mississippi), è stato a lungo considerato come uno dei meno riusciti; che ha fornito la materia per un film del 1969, con Steve McQueen, a quanto pare anch’esso poco apprezzato; e che ripropone i consueti topics dell’universo faulkneriano (l’epos della contea di Yoknapatawpha, il rapporto tra “bianchi e neri”), in una trama avventurosa e in parte tragicomica, sulle orme dell’Huckleberry Finn di Twain. In effetti la prima impressione può essere proprio questa. Il protagonista è Lucius Priest, che racconta al nipote ciò che gli è accaduto quando aveva undici anni, nel 1905. Cioè quando, assieme a Boon Hogganbeck e a Ned (un meticcio di origine chickasaw e un lavorante di colore), sottrae al nonno (il Padrone) la sua nuova automobile, finendo prima a Memphis, in una casa di piacere, e poi a Parsham, nella fattoria del vecchio Zio Possum, all’insaputa di tutta la famiglia. E restando coinvolto in furti, sortite notturne, corse clandestine di cavalli, scommesse, improbabili storie d’amore: in altre parole, vivendo un’avventurosa e perturbante occasione per diventare adulto. L’apparenza, dunque, è quella di un classicissimo romanzo di formazione, calato nel mondo e nello stile lussureggianti e inconfondibili di un maestro della narrazione.
Fosse solo questo, il libro si distinguerebbe già dal canone cui potremmo ricondurlo. Perché è un plot che Faulkner restituisce in modo magistrale. La voce del ragazzo, i suoi pensieri, il suo percorso psicologico, l’ingenuo trasporto, il divertimento e il disorientamento… Tutto è reso nel modo migliore. C’è piena immedesimazione da parte dell’Autore, il lettore lo sente rapidamente e si immedesima a sua volta. Per chi volesse approfondire, poi, c’è un sofisticato sottotesto, che – come rivela anche la nota del traduttore, in chiusura del volume, rimandando ad un recente studio – coincide con il tema iniziatico delle Metamorfosi di Apuleio. Lucius è come il Lucio di quell’antica storia, ed anche qui è una figura femminile (Miss Corrie come la dea Iside) a farsi mediatrice del rito di passaggio (che è tale anche per Boon Hogganbeck, che di Corrie è innamorato). È senz’altro una prospettiva interessante, che forse spiega anche il mood sotteso alla scelta del titolo: the reivers, i saccheggiatori, i picari che se ne approfittano, ma cui per definizione è concesso superare il confine; non meri ladruncoli, dunque, come invece potrebbe apparire superficialmente, se ci soffermasse solo sulla sgangherata fisionomia dell’improbabile banda che lo scrittore mette sulla scena. Ma più che per simili raffinatezze, il racconto faulkneriano è impagabile per altri fattori, di immediata, istintiva percezione: la caratterizzazione perfetta dei personaggi (la saggezza sfrontata e lo slang di Ned non si dimenticano facilmente, come il temperamento di Miss Reba, la stoica tenutaria); l’umanità assoluta e nobile di alcune immagini (Zio Possum, l’anziano ex schiavo che al cospetto degli altri si staglia come giudice e patrizio); il tratto argutamente pedagogico di certe divagazioni (i passi sull’intelligenza degli animali, tra pag. 152 e pag. 155, sono iconici quanto quelli di un Fedro o di un La Fontaine); il dualismo implicito, quasi cavalleresco, tra eroi ed antieroi (Lucius vs. Otis; Boon vs. Butch). Insomma, con Faulkner si respirano letteratura e vita allo stato puro. È una bella boccata d’ossigeno.