Ennio Guarneri vive a Milano, ama il body building ed è un ex poliziotto. Era entrato nel corpo da giovanissimo e aveva anche avuto modo di diventare presto ispettore. Poi il suo personale senso di giustizia – l’idea, cioè, che la giustizia non segua necessariamente i percorsi della legge e che, quindi, debba essere veicolata per altre vie – lo ha indotto a cooperare con alcuni colleghi per praticare saltuari e sostanziali “tagliandi” a figure spregevoli, ma capaci di farla sempre franca. Un giorno è stato colto sul fatto e costretto alle dimissioni. Nel bel mezzo del limbo in cui la nuova vita di disoccupato sembra farlo galleggiare decide di prendere lezioni private dalla sua vecchia maestra, per ripetere le elementari. Una mattina, casualmente, mentre si trova in riva al Ticino, sventa un’esecuzione e uccide il killer, facendo fuggire la vittima. La storia comincia proprio da qui. Perché è da quel momento, in effetti, che Ennio finisce in una spirale pericolosissima, che decide di raccontare giorno per giorno in un diario privato. L’uomo che ha ucciso era il fratello del capo di una spietata organizzazione nigeriana, il cui scopo è di fare giustizia dei “mercanti di uomini” e di quanti si siano macchiati di gravi crimini nei confronti dei migranti. Uno strano personaggio, un investigatore privato – finito, forse, allo stesso modo nelle grinfie dell’organizzazione – fa sapere a Ennio che c’è una sola via per sperare di salvarsi dalla rappresaglia del capo: mettersi al suo servizio come sicario. Di fronte a questa sorta di inaccettabile e tragica “proposta contrattuale” Ennio entra in crisi, tanto più che, proprio in quel momento, si innamora perdutamente e la sua vita sembra riacquistare un senso. Che fare? 

Gli sviluppi successivi non si possono rivelare, anche se occorre anticipare che la via d’uscita non sarà semplice e che, in ogni caso, il protagonista, se potrà salvarsi, lo farà grazie a un aiuto che aveva programmaticamente escluso. Guarneri, infatti, non ne uscirà da solo, e forse, alla fine, troverà un nuovo potenziale amico. Ma liberarsi dal vizio della solitudine non è così facile, specie per chi sembra esservi condannato da sempre. Del resto anche l’epilogo è tutt’altro che pienamente positivo, visto che Guarneri dovrà comunque affrontare due perdite molto importanti. In questo libro, che si potrebbe ascrivere al genere noir, Montanari riesce a intrecciare una trama quasi, e scopertamente, banale (che ben si addice allo stereotipo del tipico thriller metropolitano) con una traiettoria esistenziale particolarmente solida e paradigmatica (e che all’apparenza potrebbe dirsi del tutto sproporzionata rispetto alle esigenze di quella stessa trama). Non è dato sapere se questo genere di costruzione corrisponda a un espediente calcolato. Eppure il risultato convince: tanto distrae e annoia l’avventura per così dire principale, quanto attrae e fa riflettere l’evoluzione laterale della dimensione personale del protagonista, in un gioco incrociato di salite e discese narrative. Con l’effetto che, alla fine, è quella dimensione ad essere veramente al centro del romanzo. Come si finisce per intuire al termine della lettura, il cuore della storia e già del tutto riassunto nell’immagine panoramica di apertura, nello sguardo impaurito di un cormorano ferito, che dinanzi alle inspiegabili e temibili insidie del mondo, separato dai suoi compagni e rimasto fatalmente da solo, può soltanto soccombere.

Recensioni (di R. De Marco; di G.P. Serino)

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Nel 1875 – l’anno cruciale in cui consuma il suo definitivo addio alla letteratura – Arthur Rimbaud soggiorna a Milano per qualche settimana. Lo sappiamo da un biglietto da visita, nel quale il poeta avrebbe aggiunto al proprio nome un domicilio, un indirizzo di una Piazza Duomo oggi completamente cambiata. Di questo soggiorno sappiamo anche un’altra cosa: a Milano Rimbaud è ospite di una vedova, della quale, però, è rimasta del tutto ignota l’identità. Restano dunque inevasi molti interrogativi. Perché Rimbaud si è fermato a Milano? Qual era la sua destinazione finale? Chi era la signora che lo ha ospitato? Che cosa ha fatto il poeta in quelle settimane? Gli ingredienti per il mistero ci sono tutti, ma provare a scioglierlo è un’impresa impossibile, perché gli indizi da cui muovere sono realmente pochi. L’Autore, in verità, sa bene che più che la meta vale il viaggio, la ricerca costante e appassionata che lo anima. Questo libro, infatti, è la raccolta dei dati, delle suggestioni e delle osservazioni di contorno che Franzosini ha assemblato nel suo puntiglioso vagabondaggio, e che permettono, meglio di qualsiasi altro saggio, non solo di introdursi all’universo rimbaldiano, ai suoi miti e alle sue molteplici letture, ma anche di ricevere qualche breve spaccato della cultura e della società della seconda metà dell’Ottocento.

Nel testo ci si imbatte in tante pagine curiose: quelle sulla difesa della memoria del grande poeta (specie da parte dei suoi familiari…); quelle sul carattere del giovane Arthur (a dir poco bizzoso); quelle sui salotti meneghini e sugli ambienti letterari del tempo (che quasi sicuramente non hanno avuto alcun contatto con il poeta maledetto)… Non mancano, poi, le coordinate più classiche della “leggenda Rimbaud”: il ribellismo, le relazioni pericolose con Verlaine, le poche ma saldissime amicizie, le fughe ripetute, le avventure e i viaggi continui. C’è anche il romanzo, ovviamente, ed è quello che, tassello dopo tassello, Franzosini costruisce in modo solo tangenziale e allusivo, lasciandoci fantasticare che a Milano Rimbaud abbia veramente incontrato una figura femminile decisiva, di cui vi sarebbe traccia anche in alcuni passaggi delle sue opere più importanti. Il silenzio delle prove non fa altro che esaltare il magnetismo del personaggio, imprigionato in un buco nero che ha attratto a sé l’intero e fascinoso caleidoscopio della vita del poeta. La bellezza di questo gioiellino narrativo sta tutta qui, in questo centro di gravità, come nella seduttività indiretta e discreta di un racconto che è costruito da tante giustapposizioni, quasi una Wunderkammer di storie e di resoconti, tanto diversi e spaesanti quanto ricchi e succosi. Per gustarlo appieno, per poterne apprezzare il carattere quasi tridimensionale, occorrerebbe leggerlo nelle stanze di un antiquario, occhieggiando vecchie stampe e annusando odori di muffa e di vernice. E immaginando di ascoltare il calore rassicurante di una chiacchiera colta ed elegante, a tratti ostentatamente involuta e viziosa. Da questo punto di vista, Franzosini – un raffinato “indagatore del detrito” – ha creato un genere, nel quale eccelle da tempo. Ricorda un po’ Arbasino, ed accorgersene è un disturbante e meraviglioso dettaglio.

Recensione (di Alida Airaghi; Roberto Cicala; Gabriele Di Fonzo; Pasquale Di Palmo; Luigi Mascheroni; Paolo Melissi)

Una conversazione con l’Autore

Tutto su Rimbaud

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In una Milano fredda e sferzata dal vento, Carlo Monterossi, noto autore televisivo di talk show tanto trash quanto di successo, viene coinvolto in una brutta storia. Un venditore di auto di lusso e un’accompagnatrice di alto bordo sono stati uccisi, freddati dai proiettili di una stessa pistola. La seconda è stata anche torturata. Il vice-sovrintendente Ghezzi, per caso, si è quasi imbattuto nell’assassino, ma gli è andata male. Ora Carlo è preso da una rabbia invincibile: aveva conosciuto la donna – si faceva chiamare Anna – e non riesce a perdonarsi di non essere riuscito a intravedere il pericolo mortale che l’ha travolta. Cominciano le indagini, dunque, su tutti i fronti. Si muove la polizia, sia ufficialmente, con la squadra del sovrintendente Carella, sia ufficiosamente, con un Ghezzi quanto mai determinato. Si muove però anche Carlo, con l’amico Oscar, enigmatico factotum metropolitano. Il punto è che gli indizi sono pochissimi e che il killer è ancora a piede libero. Quel che è certo è che sta cercando un fantomatico “tesoro”, qualcosa che Anna custodiva, forse per lui. Le strade, così, sembrano condurre tutti gli investigatori verso la figura di un rapinatore tuttora latitante, vecchia fiamma della giovane uccisa. È lui il colpevole? Naturalmente le strade della polizia e quelle di Monterossi si incrociano subito e finiscono per convergere, almeno in parte. Almeno fino a quando il caso sembrerà risolto. Poi spetterà proprio a Carlo, tra suggestioni letterarie e frequentazioni (sic) cimiteriali, a scoprire gli ultimi segreti e agire di conseguenza.

Carlo Monterossi è una proiezione narrativa dell’Autore. I due fanno lo stesso mestiere, e la sensazione è che al secondo piacerebbe davvero vestire i panni del primo. Soprattutto, però, Monterossi è un personaggio ben riuscito, felicemente ammiccante: fa un lavoro che gli permette di vivere comodamente; è un uomo affascinante; ha un’agente che ci si immagina come un incrocio tra Giusy Ferré e Mara Maionchi; è coccolato dalle attenzioni culinarie della portinaia straniera che tutti vorrebbero avere; e si scopre saltuariamente detective non per passione o per affezione, ma per un insopprimibile istinto morale, che lo porta sempre, come per forza di gravità, a scegliere la via più complicata e ad andare fino in fondo. Robecchi, poi, scrive in modo efficace, possiede i ferri del mestiere e conosce i trucchi del genere. Le virtù del romanzo, dunque, sono tutte qui. Il punto è che, talvolta, queste virtù possono essere anche viziose. Perché quando i fattori di forza sono così evidenti, allora tutto rischia di sapere un po’ troppo di costruito. Specialmente quando di ingredienti giusti ce ne sono a bizzeffe. Sia chiaro che il libro è piacevolissimo e che questa terza avventura di Monterossi non è da meno delle precedenti. Quindi l’occasione è più che buona per constatare, ancora una volta, che nell’attuale e variegato mondo del noir italiano “nulla si crea e nulla si distrugge”, e che è difficile, pertanto, distinguere la ricorrenza puntuale, ma armoniosa, di veri e propri tòpoi dal peso specifico della riproducibilità tecnica, paradigma assoluto al quale l’opera d’arte finisce comunque per obbedire, da molto tempo ormai, anche in questo settore.

Recensioni (di Pietro Cheli; di Antonio D’Orrico; di Anna Girardi; di Sergio Pent)

Il sito dell’Autore

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Bruno Arcieri, colonnello dei servizi segreti, è ufficialmente in pensione. Dopo la sua ultima avventura, che lo ha visto rischiare il tutto per tutto, si è stabilito a Firenze e ha aperto una trattoria, facendosi aiutare dai giovani che aveva già conosciuto prima di chiudere i conti con il passato (v. Il ritorno del colonnello Arcieri). O, quanto meno, prima di averci provato. Perché se da un lato può immaginare davvero di cominciare una nuova vita, accanto alla bella Marie, dall’altro viene presto costretto a riattivarsi, ad assaggiare la concitazione di nuove prove. Angela, una delle sue giovani cuoche, si è messa nei guai, e nessuno ne capisce le ragioni; oltre a ciò, Nelli, anziana nobildonna e amica fedele, gli chiede di fare alcune indagini, per verificare se sia proprio vero che Antonio Arnai, padre di Nicoletta, è scomparso a Milano, nel terribile attentato di Piazza Fontana, avvenuto qualche giorno prima. I fronti, dunque, sono due, e Arcieri è presto coinvolto in un susseguirsi di spostamenti, inseguimenti e cambi di scena: per un verso deve fronteggiare a viso aperto le ansie delle nuove generazioni e i pericoli cui sono esposte, che, tuttavia, lo preoccupano e lo affascinano allo stesso tempo; per altro verso deve rituffarsi in un mondo ambiguo e pericoloso, che credeva superato. Anche l’età comincia a farsi sentire. Vecchie spie, lontani ricordi, un gruppo di musicisti capelloni, un anziano faccendiere, una matrona spietata, una valigia piena di misteriosi documenti, un conclusivo colpo di scena: a Gori bastano pochi ingredienti per rituffare il suo eroe nella mischia, per confezionare un apparente lieto fine e per lanciarlo subito verso una missione ancora tutta da scrivere.

Non è tempo di morire è un romanzo di transizione; e forse – non ci sarebbe nulla di male – è anche un libro un po’ “furbo”. L’Autore aveva bisogno di capire se il fortunato personaggio sarebbe stato in grado di reggere ancora la tensione, di “tornare”, cioè, un’altra volta. E Bruno Arcieri, certo, ha risposto con un colpo di reni, testando il suo fisico e la sua caparbietà, e riscoprendo il profondo senso dell’onore che gli impone di andare fino in fondo, al di là di ogni stanchezza o nostalgia. Ma la storia – quella che ogni volta tutti i fans di Gori si aspettano, da Nero di maggio in poi – ha ancora da venire; ci viene prospettata, infatti, solo nel finale, come antipasto del prossimo volume. C’è da dire, però, che l’astuzia dell’Autore – o la strategia dell’editore… – termina qui. L’impressione, cioè, è che la transizione non sia stata forzata, ma sia, piuttosto, la conseguenza del più tipico, e conclamato, processo di simbiosi tra lo scrittore e la sua creatura. È come se i due si fossero presi ancora del tempo per guardarsi negli occhi e sciogliere alcuni interrogativi fondamentali (o fondanti). Ora che tutto è stato fatto e provato, e che Arcieri è morto e risorto, ed è pure invecchiato; ora che Gori ha già presentato Arcieri a Bordelli, il commissario creato da Marco Vichi, che tra l’altro compare anche nelle ultime pagine di questo romanzo (quasi l’implicita conferma di un passaggio di testimone), ci può essere spazio per continuare lo stesso ciclo? La risposta sembra affermativa, anche se a tratti, e soprattutto nello showdown che oppone l’anziano carabiniere alla vecchia Ada, ci è parso che Gori abbia voluto sperimentare il passaggio dall’Arcieri James Bond all’Arcieri detective. Ma i panni di Bruno, decisamente, sono altri, e così anche la fantasia dell’Autore si è ribellata, rimettendolo in pista a dispetto di qualsiasi credibilità anagrafica. Se la scelta sia stata giusta, lo si scoprirà presto, nella prossima e graditissima puntata.

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Come ogni anno, Recami arriva puntuale nel momento del riposo e dello svago. Questa volta l’Amedeo Consonni – un po’ pensionato, un po’ appassionato di cronaca nera; ma son cose che ormai si sanno – viene coinvolto in un caso stranissimo: c’è un delitto di mezzo, e qualcuno ha cercato di incastrarlo, riuscendo addirittura a fotografarlo con l’arma del delitto insanguinata tra le mani. E così è subito fuga, con travestimenti annessi; ed è anche indagine serrata a Milano e dintorni, tra appartamenti studenteschi, centri sociali, B&B, alberghetti… Nel frattempo, tutto il suo condominio – l’ormai famosa “casa di ringhiera” – è scosso: dalla scomparsa dell’Amedeo, certo, ma anche dalle strane manovre di due nuovi proprietari, due architetti radical chic che fanno di tutto per non nascondere le loro mire “espansionistiche” su tutti gli immobili dello stabile. Come sempre, la Mattioli, la compagna del Consonni, non ci sta, anche se questa volta proprio non riesce a capire che cosa sia accaduto al suo Amedeo. Non lo capisce nessuno, in verità: non lo comprende la figlia Caterina, non lo sa il vispo nipotino Enrico, non lo immagina neppure quella pettegola della Mattei-Ferri. Sa qualcosa il vecchio Luis, ma deve tacere; e in fondo quello che sa glielo ha detto proprio il Consonni, che, come si chiarirà nel concitato finale, non aveva capito niente neppure lui.

Il ciclo della “casa di ringhiera” è sempre divertente. Importa poco pensare che una penna d’eccezione si misuri ripetutamente in quello che ha tutti i crismi, ormai, di un successo di cassetta: anche per questo genere di cose ci vogliono continuità e grazia; e sono, entrambe, doti che solo un ottimo scrittore può governare. Questa volta Recami si prende un po’ in giro, ingannando i suoi personaggi e canzonando anche il genere giallo e gli stereotipi che lo animano, che in definitiva sono quelli, tanti, che si nascondono dormienti nel qualunquismo dell’appassionato medio, e specialmente dell’amante dell’intrigo. Durante il racconto, si pensa subito all’immarcescibile tenuta della “commedia degli equivoci”, come schema che non tradisce mai, anche quando viene utilizzato per rovesciare in un nulla di fatto lo stratagemma scenico della riunione finale a la Hercule Poirot. Ma la mente corre anche all’auspicio che di questi episodi così ben (e facilmente) scritti – e pubblicati tutti da Sellerio – si realizzi una bella riduzione cinematografica, magari con Catherine Frot e André Dussollier nei panni, rispettivamente, della Mattioli e del Consonni. La coppia semiseria di Due per un delitto è garanzia di ironia e “movimento” anche sul grande schermo; a patto che Luis De Angelis sia interpretato da un improbabile Nino Frassica (o viceversa da un azzeccatissimo Niels Arestrup) e Caterina Consonni da una altrettanto impropria (ma deliziosamente irritante) Alba Rohrwacher. La paella di mezza estate, allora, sarebbe veramente servita e la grassa risata assicurata.

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Una vacanza, breve o lunga che sia, val bene un Recami, e così, in tempo d’estate, ne appare provvidenzialmente uno nuovo. La serie è quella leggera e briosa, milanesissima, della “casa di ringhiera”, con l’Amedeo Consonni ad indagare sul “caso” del titolo e l’Angela Mattioli alle prese con i conti sospesi del precedente episodio (Il segreto di Angela). Naturalmente non mancano i curiosi e vivaci personaggi del condominio, che variamente interagiscono per dare corpo ad una divertente commedia degli equivoci e per cooperare, più o meno coscientemente, alla risoluzione di un intreccio come sempre avvincente. Questa volta il Consonni agisce su commissione: è la famosa e bella Kakoiannis-Sforza, regina del jet set, a dargli un incarico, quello di ritrovare la figlia Marilou, precoce e altrettanto sfrontata protagonista del bel mondo, scomparsa improvvisamente da qualche giorno. E così l’ex tappezziere si aggira tra i quartieri della metropoli lombarda, ragiona sui modi e sugli eccessi di ex calciatori playboy e imprenditrici spregiudicate, e comincia a fiutare i primi e pochi indizi, in una giravolta di piccoli colpi di scena e relativi progressi, che si alternano, però, alle storie e alle disavventure semiserie dei diversi vicini di casa, Angela compresa. Quando le apparenze sembrano militare per una soluzione a tinte fosche, tra perversioni della peggior specie e ricatti inaccettabili, il Consonni ribalta tutto e, illuminato da una passata truffa sulla Merda d’Artista di Piero Manzoni, credendosi quasi ingannato dalla sua astuta e competitiva committente, rischia quasi di realizzarne le oscure trame. Interviene, però, forse per caso, o forse no, l’intuito di Angela, che si rappacifica col Nostro, salvandolo dalla complessa macchinazione in cui si era improvvisamente cacciato. Nel prologo del romanzo – lo sappiano da subito tutti gli aspiranti lettori – è già rappresentata anche la sua fine, in una studiata ed efficace simmetria che precorre in movenze da rotocalco il comune e tragico destino delle due figure femminili che sono alla base di tutta l’intricata vicenda.

Recami questa volta si autodefinisce, parodisticamente ma in modo efficace. Accade in un passaggio nel quale il direttore di un’importante casa editrice descrive le peculiarità del dattiloscritto che fatalmente è capitato nelle sue mani e che altro non è se non il memoriale che la Mattioli aveva composto nella precedente puntata della serie: “È apparentemente inconsistente perché è profondamente inconsistente, ma la sua consistenza è data dal fatto che imita l’inconsistente così bene che è uguale all’inconsistente, ma per questo è più consistente del consistente che imita il consistente”. I volumi della “casa di ringhiera” sono proprio così: stando al gioco, sono perfetti nella loro volontà di imperfezione; nella loro volontà, cioè, di adeguarsi simultaneamente a forme espressive e a generi raramente commisti, riuscendone, però, a capitalizzare, in un unico momento, tutti i rispettivi vantaggi e tutti i relativi effetti, senza contraddizioni o stonature. Questi libri, infatti, sono intriganti come i gialli all’italiana, ma hanno scene, ritmi e toni divertiti alla Monicelli o alla Dino Risi; ci sono spezzoni da rivista scandalistica, ma ci sono anche fulminee e commoventi citazioni (come, in questo caso, quella dedicata a Bianciardi: v. a p. 58); c’è simpatia e compartecipazione per le sorti dei personaggi principali, ma c’è anche una profonda ironia, specie nei confronti delle figure che incarnano alcuni tipici “campioni” della vie quotidienne nazionale (il profilo della signorina Mattei-Ferri, pettegola e falsa-invalida, è esemplare). L’elemento, comunque, più riuscito del Recami-approccio è un altro: le pagine trasudano un gusto e una fiducia estrema nella letteratura tutta e nella scrittura, che in quest’ultimo episodio, tra l’altro, si rivelano come parti attive, visto che giungono fortunosamente, ma ufficialmente, in soccorso degli umani sbandati; come se trame e parole potessero davvero avere ingresso nelle cose della nostra vita. Recami, dunque, ci intrattiene con grandi sorrisi e, facendolo con un successo assicurato, ci offre anche un motivo in più per continuare a leggere, la convinzione che l’esperienza di carta è molto meno immaginaria di quello che sembra.

Quando un piccolo cenno in un libro risveglia un interesse… Uno “speciale” e una mostra (ormai chiusa…) su Piero Manzoni

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Milano d’autunno è sempre carica di suggestioni, e anche di sorprese. Durante un blitz convegnistico alla Statale, nel bellissimo chiostro della Ca’ Granda un collega mi parla di Carlo Castellaneta e del suo Notti e nebbie. Poco dopo, come risultato di una rapida visita al Libraccio più vicino, un altro amico mi regala il volume che raccoglie in economica i tre romanzi di Colaprico e Valpreda. Castellaneta ci lascia tutti sul posto il giorno successivo (!), dunque l’ordinazione è un omaggio obbligato, ma ci vuole tempo. Passa così una settimana, e intanto la prima influenza della stagione ci mette del suo. Sicché afferro questo libro giallo (di forma e di sostanza) e mi abbandono alle consolazioni dell’improvvisa chance di lettura supplementare.

Avevo già apprezzato le abilità stilistiche del giornalista di Repubblica, ma l’accoppiata con il noto anarchico – per capirsi, quello che era stato processato, e poi assolto, per la strage di piazza Fontana – è interessante. E lo è, precisamente, in questa edizione Feltrinelli, che raccoglie in unico volume i tre pezzi scritti quando Valpreda era ancora in vita, pubblicati autonomamente per Tropea tra il 2001 e il 2002. Il maresciallo Binda, infatti, indaga anche in altri romanzi (in larga parte “farina del sacco”, di per sé munifico, del solo Colaprico: L’estate del mundial e La quinta stagione), ma sono i primi – Quattro gocce d’acqua piovana, La nevicata dell’85, La primavera dei maimorti – a battezzarlo e a farlo evolvere, dandogli la fisionomia inconfondibile del bonario e sveglio “anarcocarabiniere” lombardo, cui non difetta il passo del detective metropolitano.  

Al suo debutto, Binda è un ex maresciallo che ricorda uno dei casi più difficili della sua carriera, l’omicidio del Prof. Gariboldi, rimasto per lungo tempo insoluto ma infine sbrogliato proprio sulla base di una nuova intuizione del carabiniere in pensione, “piovuta” direttamente dal cielo. Questo Binda è un personaggio ancora un po’ malinconico, proteso verso una Milano che fu, moralmente solido e tutto “casa e strada”. È un investigatore acuto, che si muove alla Maigret, ma che anche i suoi Autori immaginano parzialmente ignaro di una verità che si nasconde in un epilogo sorprendente. Ne La nevicata dell’85, tuttavia, Binda, seppur a riposo, si taglia i baffi, conosce una nuova giovinezza e riscopre la passione, supera così il dolore per la scomparsa della moglie e si aggira nel cimitero del quartiere di Baggio, per capire quale possa essere la ragione che ha determinato la morte apparentemente accidentale di alcuni anziani signori. Binda, ora, ha le movenze del Duca Lamberti di Scerbanenco, e forse anche di Marlowe: come il principe dell’hardboiled americano si destreggia tra pericolose e indecifrabili figure femminili. Il finale di questa seconda indagine, però, è orchestrato secondo un copione classico, che ricorda un po’ Nero Wolfe e un po’ Hercule Poirot. La mutazione decisiva è in quello che Colaprico definisce come il libro migliore, ossia nel terzo racconto: che è focalizzato attorno alla figura del Binda giovane brigadiere, addestratosi assieme ai corpi speciali e spedito in incognito a San Vittore, in carcere, per comprendere il mistero di una catena di morti che lo costringerà a ripercorrere le strade di un traffico abietto e, con esso, i momenti più duri e ambigui della fine del secondo conflitto mondiale. L’ambientazione è quella delle contestazioni studentesche della fine degli anni Sessanta, e Binda, anche se continua a pensare in dialetto, potrebbe tranquillamente assumere le fattezze di un risoluto Franco Nero.

Ciò può senz’altro bastare per invogliare anche i più scettici. Nonostante i tanti riferimenti alla tradizionale letteratura poliziesca, espliciti o impliciti, Binda sintetizza perfettamente i canoni ricorrenti del noir all’italiana. Ma resta ancora inevaso il più spontaneo degli interrogativi: e Valpreda? Occorre dire che la presenza di questo singolarissimo testimone, qui nei panni dello scrittore, si avvertono in tanti dettagli: nelle descrizioni di certi luoghi meneghini, nel richiamo a sedi e riferimenti ideali del movimento anarchico italiano, nella persona dell’ex rapinatore Loris, nella ricostruzione della routine carceraria e dei suoi molti e angosciosi disagi, in qualche rapida, ma chiara, allusione ad uno dei periodi più delicati e oscuri della Repubblica… Un valore per nulla tangenziale, poi, ha la Nota dell’autore superstite, che Colaprico dedica, prima di ogni romanzo, al suo curioso compagno di scrittura e all’amicizia che ha finito per avvicinarli sempre di più. Ad ogni modo, grazie a Le indagini del commissario Binda si ricompone con tratto vivace e consapevole uno spicchio importante della storia sociale dello Stivale.

Una bella recensione a La primavera dei maimorti (di Matteo Collura)

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Con un titolo preso da un celeberrimo album dei Pink Floyd, e precisamente dall’ipnotica Brain Damage, compare sulla scena la prima indagine del commissario Ofelio Guerini, che però non ha nulla a che spartire con la musica degli anni Settanta, se non la collocazione temporale della storia in cui debutta. Ci troviamo, infatti, tra il 1972 e il 1973, in una Milano che si sta trasformando rapidamente e che è attraversata dall’agonismo politico delle lotte studentesche e degli scontri di strada tra movimenti rossi e gruppi neri. Eppure, il titolo di questo romanzo, in apparenza così strano e quasi posticcio, alla fine pare addirittura azzeccato, perché racconta di uno shock mentale e fisico, lo stesso che il suo protagonista deve affrontare.

Guerini ha ormai una certa età e, pur avendo combattuto per la Resistenza, non riconosce nella violenza che lo circonda un particolare significato storico. È ancora vicino agli ideali del suo vecchio partito, ma è forse è cambiato, come pare esserlo anche il partito, e sembra ormai evoluto in una dimensione piccolo-borghese, destinata a convivere con persistenti e silenziose inquietudini. Tuttavia, la morte di un anziano ed oscuro militante comunista, custode di un campo di baseball, attira la sua attenzione, e la ricerca della verità – un affare, per lui, sempre artigianale e domestico – lo mette ben presto a contatto, complice il caso, con figure terribili e spietate, di fronte alle quali rischia di perdere ogni certezza ed anche la sua stessa vita. Ecco, quindi, il dark side of the moon, che non è soltanto quella che si palesa nell’esistenza vuota e crudele del giovane neofascista Stefano Valle e del suo fedele “scherano” Cesare Amaranto, ma è anche quella che si nasconde nella rabbia irrefrenabile ed incontrollabile dell’anziano poliziotto. Si può continuare a “resistere” senza violenza? È proprio vero che tutto è cambiato? Ogni determinazione, anche quella più salda, è destinata a sperimentare confini drammaticamente labili.

Per coloro che abbiano apprezzato Giuseppe Genna – in particolare Nel nome di Ishmael o Catrame o Non toccare la pelle del drago o, ancora, Le testeIl lato oscuro della luna potrà dire poco, poiché con le storiacce e con le trame forti dell’ispettore Lopez questo libro ha in comune soltanto l’ambientazione milanese e il rincorrersi, peraltro riuscito, di strade, piazze, vicoli e palazzi, omaggio ad una metropoli che, in questo modo, prende facilmente le sembianze di un teatro perfetto. Neanche ai personaggi di Gianni Biondillo può accostarsi Guerini: da un lato, certo, la sua malinconia è anche quella dell’ispettore Ferraro; dall’altro, c’è qualcosa di ulteriormente irrisolto, che alla prima impressione di un’evidente stecca finisce per far prevalere la sensazione di una disarmonia ricercata con intelligenza, ma non ancora pienamente realizzata. Forse, nonostante la buonissima intuizione del cortocircuito psicologico in cui incorre Guerini, Goldstein Bolocan non è riuscito a scegliere: avrebbe potuto dare alla sua storia e al suo eroe una connotazione più decisa, e il materiale non mancava (dalle suggestioni sportive agli intrecci politici-partitici; dal tema culturale ed istituzionale a quello più schiettamente intimistico). In conclusione, il grasso e impacciato commissario è un po’ come il suo Autore: il mestiere non gli difetta, ma deve ancora fare i conti con il lato oscuro di una tensione narrativa che sta per sbocciare e che, allo stato, si fa nervosamente attendere.

Uno spezzone del libro da… La Gazzetta dello Sport!

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Succede sempre più spesso che la lettura di incoraggianti recensioni sia la base di promesse altissime che difficilmente vengono mantenute. Eppure, il nuovo libro del giovanissimo Giorgio Fontana, pur rappresentando, purtroppo, una delle tante conferme di questa constatazione, rimane comunque un’ottima e confortante “prova d’artista”.

Il disorientamento e il disappunto derivano dalla sola considerazione della storia che questo libro si propone di narrare. In una battuta: si tratta di un tema tanto significativo quanto “troppo facile”.

Doni, p.m. presso la Procura Generale di Milano, è una figura esperta, che ha sempre lavorato con diligenza, guidato da una stella polare fissa ed immutabile: fare le cose per bene, anche tra tanti colleghi mediocri, anche nel ricordo di un amico e magistrato prematuramente e drammaticamente scomparso. Ora, però, Doni deve affrontare il caso Ghezal e sostenere in appello l’accusa nei confronti di un immigrato apparentemente coinvolto in un tragico caso di cronaca nera. Ma una giovane giornalista freelance, un po’ ingenua e un po’ spiantata, non ci sta e cerca di avvicinarlo e di convincerlo a non fidarsi totalmente delle risultanze processuali. In Doni il dubbio si fa strada, allargandosi alle certezze, molto fragili, della sua vita privata, del suo rapporto con la moglie e con la figlia, del suo microcosmo fatto di abitudini e di sicurezze fin troppo fragili, borghesi e stereotipate. I conti con la vita sono ancora tutti aperti e la città viene in soccorso. Guidato dall’insistenza della giornalista, Doni indaga e scopre un’altra Milano, medita su se stesso e sulle ragioni del suo impegno quotidiano, anche se rischia di mettere a repentaglio la sua carriera e l’orto conchiuso di una tranquillità familiare solo formale…

Come si vede, si tratta di una situazione classica, quella dell’uomo di legge che si interroga sul rapporto tra la sua opera di interpretazione della legge e di applicazione di una “tecnica” e la “vita” che lo circonda, che è complessa, che non riesce a ridursi in fattispecie astratte e nella quale, nonostante ciò, l’umanità esige sempre molte risposte. Ma tutto questo è, come si diceva, un po’ troppo banale. Così come è banale l’idea che la crisi personale sia un’occasione per provare a ridare un senso ai propri affetti.

Il romanzo, invece, è vincente nello stile e nella scrittura, nelle descrizioni di Milano, nell’asciuttezza e nella freschezza di parole che sono sempre adeguate, calzanti, espressive ma misurate, nella definizione psicologica dei personaggi; ma anche in alcune intuizioni felici, come quella sulle “armi leggere”, verso cui la giovane giornalista invita anche il navigato p.m., come a significare che esiste un livello di coscienza civile, e per ciò solo eminentemente “giuridica”, che nasce certo dal fare ciascuno il proprio mestiere, ma dal farlo, innanzitutto, con animo sempre aperto e sensibile, senza timori e senza ruoli predefiniti. Con un attitudine che è accessibile, quindi, ad ogni cittadino.

In questo specifico punto, precisamente, Giorgio Fontana colpisce l’obiettivo, perché connette la dimensione pubblica a quella privata, in un andirivieni propriamente “salutare”, per noi tutti e, naturalmente, per il suo stesso personaggio, nel quale, credo, si debba riporre ancora un po’ di fiducia, dandogli tempo per crescere e dimostrare tutte le sue virtù.

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