Succede sempre più spesso che la lettura di incoraggianti recensioni sia la base di promesse altissime che difficilmente vengono mantenute. Eppure, il nuovo libro del giovanissimo Giorgio Fontana, pur rappresentando, purtroppo, una delle tante conferme di questa constatazione, rimane comunque un’ottima e confortante “prova d’artista”.

Il disorientamento e il disappunto derivano dalla sola considerazione della storia che questo libro si propone di narrare. In una battuta: si tratta di un tema tanto significativo quanto “troppo facile”.

Doni, p.m. presso la Procura Generale di Milano, è una figura esperta, che ha sempre lavorato con diligenza, guidato da una stella polare fissa ed immutabile: fare le cose per bene, anche tra tanti colleghi mediocri, anche nel ricordo di un amico e magistrato prematuramente e drammaticamente scomparso. Ora, però, Doni deve affrontare il caso Ghezal e sostenere in appello l’accusa nei confronti di un immigrato apparentemente coinvolto in un tragico caso di cronaca nera. Ma una giovane giornalista freelance, un po’ ingenua e un po’ spiantata, non ci sta e cerca di avvicinarlo e di convincerlo a non fidarsi totalmente delle risultanze processuali. In Doni il dubbio si fa strada, allargandosi alle certezze, molto fragili, della sua vita privata, del suo rapporto con la moglie e con la figlia, del suo microcosmo fatto di abitudini e di sicurezze fin troppo fragili, borghesi e stereotipate. I conti con la vita sono ancora tutti aperti e la città viene in soccorso. Guidato dall’insistenza della giornalista, Doni indaga e scopre un’altra Milano, medita su se stesso e sulle ragioni del suo impegno quotidiano, anche se rischia di mettere a repentaglio la sua carriera e l’orto conchiuso di una tranquillità familiare solo formale…

Come si vede, si tratta di una situazione classica, quella dell’uomo di legge che si interroga sul rapporto tra la sua opera di interpretazione della legge e di applicazione di una “tecnica” e la “vita” che lo circonda, che è complessa, che non riesce a ridursi in fattispecie astratte e nella quale, nonostante ciò, l’umanità esige sempre molte risposte. Ma tutto questo è, come si diceva, un po’ troppo banale. Così come è banale l’idea che la crisi personale sia un’occasione per provare a ridare un senso ai propri affetti.

Il romanzo, invece, è vincente nello stile e nella scrittura, nelle descrizioni di Milano, nell’asciuttezza e nella freschezza di parole che sono sempre adeguate, calzanti, espressive ma misurate, nella definizione psicologica dei personaggi; ma anche in alcune intuizioni felici, come quella sulle “armi leggere”, verso cui la giovane giornalista invita anche il navigato p.m., come a significare che esiste un livello di coscienza civile, e per ciò solo eminentemente “giuridica”, che nasce certo dal fare ciascuno il proprio mestiere, ma dal farlo, innanzitutto, con animo sempre aperto e sensibile, senza timori e senza ruoli predefiniti. Con un attitudine che è accessibile, quindi, ad ogni cittadino.

In questo specifico punto, precisamente, Giorgio Fontana colpisce l’obiettivo, perché connette la dimensione pubblica a quella privata, in un andirivieni propriamente “salutare”, per noi tutti e, naturalmente, per il suo stesso personaggio, nel quale, credo, si debba riporre ancora un po’ di fiducia, dandogli tempo per crescere e dimostrare tutte le sue virtù.

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