La tesi di questo saggio è anticipata sin dal principio: “in una società fondata sul rispetto dell’altro, le persone dovrebbero essere capaci di praticare un qualche grado di ipocrisia, di comprendere che la tensione verso l’autenticità di principi e di fedi non è sempre la migliore amica di chi ha principi e di chi crede”. Si capisce, quindi, che ciò che potrebbe usualmente apparire come un vizio può assumere, nella sfera pubblica, i contorni di una vera e propria virtù, che l’Autrice evoca in termini di civility, di urbanità: una postura funzionale a promuovere consapevolmente processi di riconoscimento reciproco. Certo la parola ipocrisia, nell’uso comune, porta con sé un carico negativo: richiama calcolo personale, studiata dissimulazione, se non menzogna. Tuttavia secondo la concezione delineata in questo libro – che del termine, come del concetto, rievoca puntualmente, nella sua prima parte, le origini antiche e le successive, rilevanti torsioni indotte con il cristianesimo – l’ipocrisia emerge quale linguaggio e competenza di una comunità orientata alla tolleranza e al rispetto dei diritti e delle libertà. Quella di cui Nadia Urbinati scrive, specie nella seconda parte del volume, è una traiettoria interpretativa che nasce, storicamente, con la secolarizzazione e con la separazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e cittadino. Non è un caso, quindi, che l’occasione sia buona per alcune belle pagine sullo sviluppo della diplomazia come sull’invenzione della persona statale, intesi entrambi come dispositivi – sorti nella medesima epoca – atti a simboleggiare i luoghi in cui l’ipocrisia in esame, rispettivamente, deve e non deve esprimersi. Allo stesso modo – sempre nella seconda parte del testo – si spiega in maniera assai efficace che la cornice istituzionale che è più congeniale a questa “virtuosa” ipocrisia è la democrazia rappresentativa. Dove la classe politica è esposta al giudizio degli elettori e del “pubblico”, pur dovendo praticare l’ineludibile arte del compromesso, e cercando, così, e istituzionalizzando, specifiche e ragionevoli zone di penombra. 

Il filo rosso che di questo contributo più convince è la tematizzazione per cui l’ipocrisia è strumentale a un contesto, come l’odierno, in cui quello delle relazioni sociali è un gioco libero e la stessa identità personale, lungi dall’essere un uni-verso, è un nucleo in faticosa e continua riformulazione. E così dev’essere. Perché, senza understatement, nel libero conflitto delle idee, fossero anche le più autentiche, nessuna socializzazione sarebbe realmente possibile. A patto che, poi, l’ipocrisia non occupi tutto lo spazio disponibile e rimanga proporzionata a una dimensione occasionale, governata dai singoli e dalle prassi comportamentali cui danno luogo; senza trasformarsi in conformismo radicale. Di qui la conclusione, per cui questo tipo di skill – per quanto si tratti di anglismo assai abusato, è di ciò che si discute – investe anche l’ambito del politicamente corretto: non nel suo “uso parossistico”, che finisce, al contrario, per diventare polarizzante e disaggregante; bensì nei limiti di ciò che può dirsi il “nuovo galateo”, utile a facilitare e coltivare pratiche di convivenza. Al termine della lettura le impressioni sono due. Da un lato, è facile constatare che Nadia Urbinati è riuscita a confermare che lo studio della storia, della filosofia, della politica (e, sia pur in parte, anche del diritto) non è soltanto affare degli specialisti, ma può sortire insegnamenti che cambiano la vita delle persone e ne orientano l’azione quotidiana. Dall’altro, viene da chiedersi quali siano i veicoli per la diffusione e l’assimilazione di una virtù che è tanto cruciale. C’è da scommettere che in tanti avrebbero già la risposta: se ne deve occupare l’istruzione! Il fatto è che, fortunatamente, questo libro, non solo non se ne occupa, ma, nel mettere in scena tutta la polivalenza del suo soggetto, dimostra ipso facto che, quando si discute di pratiche sociali, i responsabili sono molteplici e, soprattutto, si tratta semplicemente di cominciare, ciascuno per suo conto.

Un caffè con l’Autrice

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