C’era il mare… Ghe gera el mar… Mar-ghe-gera… Marghera! Neanche il narratore crede a questa pittoresca progressione etimologica. Però non c’è dubbio che, a darle credito, si comprende subito il nesso tra il romanzo e il suo titolo. Infatti, pur svolgendosi anche a Treviso, l’ennesima indagine dell’ispettore Stucky – per intendersi, quello del prosecco e di tante altre avventure – ruota soprattutto attorno a un certo luogo: ai noti cantieri navali della laguna veneta e ai resti di un Petrolchimico altrettanto, e tristemente, famoso. Ma in questo giallo il primo cadavere, quello di un noto giornalista locale, viene ritrovato nel capoluogo della Marca. È senz’altro un caso di avvelenamento, anche se per Stucky – che deve affrontare le temporanee mattane delle sue estroverse vicine di casa – ci sono tante cose che non quadrano. Nel frattempo, a Mestre, viene ucciso un ex sindacalista, pure questa volta una figura conosciuta. Se ne occupa Luana Bertelli, una collega che Stucky conosce bene, e che non crede alle apparenze: la morte dell’uomo non può essere stata l’accidente di un tentativo di furto, né è verosimile che il colpevole sia stato uno straniero. I due ispettori brancolano tra facili pregiudizi e piccole intuizioni, imbattendosi in personaggi di varia e ambigua estrazione, così diversi, e così insospettabili, da rendere improbabile qualsiasi collegamento. Poi sulla scena irrompe un terzo, strano, decesso, quello di un avvocato, che aveva rapporti con entrambe le vittime. Le indagini, dunque, finiscono per convergere e, grazie ad uno spunto della Bertelli, il baricentro della storia si sposta all’improvviso tra Marghera e Venezia, verso il magnetismo oscuro di uno spregiudicato e spietato animatore del rancore sociale.

In questo libro sembra un po’ affaticato, l’ispettore Stucky. Tant’è vero che, alla fine, il passo decisivo lo fa la Bertelli, vero fulcro del racconto. Non è che al nostro eroe manchino la consueta e scanzonata disinvoltura e lo sguardo un po’ obliquo, che gli consente sempre di intravedere la pista giusta. Anche i simpatici punti fermi del suo universo, poi, ci sono tutti: le sorelle di vicolo Dotti, lo zio Cyrus, il trio degli agenti Landrulli, Sperelli e Spreafico. Tuttavia l’iniziativa risolutiva sembra difettargli. C’è da chiedersi se questo sia un segno di stanca per il personaggio e il suo ciclo narrativo o se, invece, sia semplicemente la conseguenza, sul piano della trama, della scelta di un bersaglio sfuggente, fondamentalmente illogico, cresciuto come un virus incomprensibile sulle macerie materiali e morali della crisi. Che per Ervas – così, almeno, si può arguire –  non è soltanto quella dell’ultimo decennio. Il campo di battaglia, infatti, è simbolicamente posizionato in un territorio martoriato da una storia, lunga e dannata, di cortocircuiti imprenditoriali e ambientali; un territorio che, ciononostante, continua deliberatamente a non fare memoria, abbandonandosi alla ricerca e alla caccia diffuse, e quasi disperate, del capro espiatorio più vicino. È comprensibile, dunque, che Stucky – il più riflessivo, meditabondo e bonario Stucky di oggi… – sia meno pronto del solito, perché il nemico non è uno, ed è perciò disorientante. Come è altrettanto comprensibile, viceversa, che sia la tenacia di una donna irrequieta, che potrebbe anche rischiare di lasciarsi andare di fronte all’avversario, a diventare l’esempio dell’energia necessaria: per sconfiggere il risentimento tiranno che inchioda i molti alle loro fragilità e a un inutile disegno di vendetta. Sembrerebbe stanco, Ervas. Piace constatare che è più consapevole e motivato che mai.

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Albecom è una ditta che si occupa di programmazione informatica e ha sede in prossimità di Venezia, a Marghera, nel parco scientifico tecnologico “Vega”. È stata fondata da Alberto Casagrande, oggi trentenne, che ne ha fatto un’azienda leader nel settore della costruzione di siti per la vendita online: il fatturato è in crescita e i giovani nerd che ci lavorano sono dinamici e infallibili. Poi c’è Luciano, amico dei tempi del liceo e complice originario di questa avventura: è timido, ipersensibile, ma è anche il geniale risolutore di ogni problema tecnico. GDL, invece, è lo smaliziato commerciale, vincente e sempre in viaggio. La vita dei nostri protagonisti, così apparentemente assestata, sembra trascorrere in naturale e irriducibile sinergia con l’anodina cornice post-industriale della terraferma veneziana. Tuttavia sta per succedere qualcosa. L’imprenditoria del web è molto liquida, si sa, e GDL ha progetti molto ambiziosi. Anche Alberto sta pensando in grande, a prestigiose commesse e a una nuova sede da allestire. Nel frattempo Luciano si invaghisce ingenuamente di Matilde, cameriera del bar Incrocio, sedotta e abbandonata da un altro dipendente di Albecom, fuggito al servizio di un’altra società. Tra fiere internazionali, tradimenti estemporanei e affari spericolati, mentre GDL porterà avanti risolutamente il suo disegno, la spiata accidiosa di un architetto di Trebaseleghe spingerà Alberto a vederci chiaro e a dare un senso più concreto e maturo a tutti i suoi sforzi. Quegli sforzi che Luciano deciderà di non fare più, per vivere anch’egli in modo più sereno.

Il romanzo che ha portato Targhetta nel grembo di una Major dell’editoria nazionale può sembrare riuscito soltanto a metà. Il canovaccio, infatti, è debole, perché la caratterizzazione dei protagonisti è così insistita che i loro destini sono segnati sin dal principio. Non ci sono grandi sorprese. Si assiste a un graduale risucchio in una normalità composta e reale, domestica e prevedibile, e forse anche auspicabile. A dimostrazione, probabilmente, che si può lavorare e cominciare a vivere, in modo del tutto scontato, anche a Nordest, ed anche nelle pieghe di quel paesaggio pre-lagunare in cui l’inorganico e l’abbandono hanno preso il sopravvento. Targhetta è fortissimo proprio nell’efficacia delle descrizioni di contesto. È qui che si nasconde il cuore del libro, come se, con quelle descrizioni, l’Autore volesse raggiungere l’obiettivo di far rivivere ai suoi lettori la stessa trasformazione emotiva dei suoi personaggi – diventare ciò che si è – ma non per il tramite di un processo di immedesimazione. Il medium è l’immersione in una suggestione malinconica, che impregna tutta l’atmosfera del racconto e che ben rappresenta lo stato che tipicamente avvolge chi, prestandovi attenzione, abbia l’occasione di sperimentare la surreale potenza sfibrante del backstage produttivo dell’odierna Serenissima. È lo stesso scenario – tutti luoghi reali, realissimi… – in cui si muovono con successo, da qualche anno, anche altri scrittori, come Francesco Maino e Romolo Bugaro. Targhetta, tuttavia, non lo fa con la disperata e passionale pervicacia del primo, né con l’affilata, fredda e drammatica denuncia del secondo. Attinge alla poesia e alle grandi possibilità archeologiche che le parole e le immagini giuste possono offrire a chiunque si proponga di esplorare davvero il proprio animo. Così facendo, ci prova che il Veneto smemorato e disintegrato della dismissione non è soltanto il teatro di uno sfacelo, e che il suo paesaggio, sintonico e proverbiale (guanto rovesciato di quello zanzottiano, ma pur sempre guanto…), può continuare a salvarci.

Recensioni (di Enzo Baranelli; di Eleonora Barbieri; di Raoul Bruni; di Sara D’Ascenzo; di Oriana Mascali; di Lara Marrama; di Nicolò Porcelluzzi)

I precedenti di Targhetta: Fiaschi e Perciò veniamo bene nelle fotografie

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