È un’opera postuma di Vitaliano Trevisan, scomparso all’inizio di quest’anno. Ed è sicuramente un Trevisan a tutti gli effetti, con tutto il suo consueto carico di ispirata, disperata e disorientante radicalità, e con il denso repertorio di suggestioni e rimostranze interiori e sociali che è tipico di questo Autore. Bene ha fatto, dunque, l’editore a pubblicare Black Tulips, possa o meno considerarsi formalmente compiuto. Sostanzialmente, lo è a pieno titolo. Come sempre, in Trevisan, la trama è formata dal racconto di concrete esperienze personali, tappe vere e proprie di un articolatissimo percorso esistenziale e dei suoi periodici crolli. Questa volta lo scrittore vicentino rievoca il suo viaggio nella prostituzione. Da frequentatore abituale, per così dire. Anche se poi si è trattato pure di una spedizione vera e proprio, in Nigeria, perché – come gli diceva Ade, una delle prostitute nigeriane da lui conosciute e poi espulsa dal nostro paese – u must c with your own eyes. Pertanto Trevisan – che si carica risolutamente sulle spalle anche lo stigma che la prostituzione porta con sé – è partito per Lagos, per immergersi e vedere, scortato da Ade e da Amen e Mudia, amici e accompagnatori della ragazza, ma anche potenziali soci d’affari in un’improbabile commercio di pezzi di ricambio per auto usate. Black Tulips è il taccuino che Trevisan non ha tenuto allora, e che, tuttavia, si ricostituisce ora tra frammenti, avvertenze e note a piè di pagina, in cui si rinvia anche a lavori inediti o comunque non pubblicati. Ne risulta una sorta di diario extra vagante e a tratti stordito, che, attorno ai ricordi dei diversi incontri notturni in quel di Vicenza e alla colonna portante del viaggio (quasi conradiano), sviluppa una pioggia di osservazioni: di carattere psicologico, storico, sociologico, etico. Alla Nigeria, Trevisan oyibo, l’uomo bianco che andando a prostitute ha anche imparato un po’ di pidgin english, si consegna: si fa guidare per mano tra venditori ambulanti e poliziotti spietati, si lascia avviluppare dal caldo, dalle lunghe attese e dallo sfiancante go-slow del traffico di Benin City e Lagos, rischia di suscitare una rissa paradossale di fronte a una chiesa costruita da imprese italiane, sfida platealmente un fondamentalista islamico, sfiora un terribile e inquinatissimo insediamento di palafitte, osserva cadaveri abbandonati per giorni lungo le strade. Naturalmente il racconto è ricco di informazioni: sulle ragioni, sulle origini e sui modi della prostituzione nigeriana; sulla storia della Nigeria, sul suo assetto cleptocratico e sulla vocazione costantemente estrattiva della sua classe dirigente e dei governi occidentali; sui pregiudizi e sugli ipocriti moralismi che alimentano le più comuni idee sulla prostituzione tour court. Ciò che più convince, però, e in parte quasi stupisce, è che, al di là delle varie critiche, rampogne o invettive – che ci restituiscono ancora una volta il timbro inconfondibile di questa scrittura, dall’inclinazione costantemente abrasiva – Trevisan rievoca momenti personalissimi di autentica e disarmata autenticità. È una condizione che potrebbe dirsi anche felice. Cosi, ad esempio, si riscopre egli stesso quando commenta le foto sorridenti di uno sgangherato beach party africano; oppure quando il rapporto sessuale con una prostituta si trasforma in un gesto reciproco di compassione e di inaspettato e insospettabile abbandono. Sicché Trevisan, nel suo viaggio, anziché perdersi in un heart of darkness, si è guadagnato attimi di forte umanità e consapevole naturalezza. È quello che ha sempre cercato. E non c’è dubbio che questo è il modo migliore di ricordarlo.

Recensioni (di D. Brullo; di L. Vicenzi)

Vitaliano Trevisan: due ricordi (qui e qui)

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Non si può certo dire che questo diario, opera di uno scrittore francese, sia un testo del tutto originale. I precedenti sono tanti ed autorevoli, e Walden di Thoreau spicca decisamente su tutti. Anche se ci sono pure Robinson Crusoe, Dersu Uzala, Walt Withman, Grey Owl… Ma non mancano Michele Strogoff, Varlam Salamov, Jünger, Nietzsche, Schopenhauer, Casanova; ed un alto numero di altri classici (pp. 30-32), come parte dell’equipaggiamento ideale di cui il perfetto eremita deve assolutamente dotarsi.

Nel bel mezzo dell’inverno siberiano, Tesson si isola in una capanna posta sulla riva dell’enorme lago Bajkal e vi passa un periodo lungo sei mesi (da febbraio a luglio), sperimentando il grande freddo, prima, e le altrettanto imponenti trasformazioni del disgelo, poi. Le sue giornate sono popolate da pensieri di diversa dimensione, da escursioni in alta quota o sessioni di pesca nel ghiaccio, dalle visite discrete di una cincia o dalle irruzioni tumultuose ma affettuose di pescatori, guardiacaccia od altra variopinta e indimenticabile umanità siberiana. Il risultato è una serie di memorie che oscillano tra la sceneggiatura documentaristica sulle suggestioni antropologiche e sociali che la taiga (e la Russia) di oggi può offrire all’osservatore continentale e la renaissance di un motivo, e di un sogno, letterario e filosofico, ormai innervato nel corpo multipolare di una certa e trasversale cultura (tutta moderna e tutta occidentale) di liberazione e di rivoluzione: “Per provare un senso di libertà interiore bisogna disporre di spazio e di solitudine. A ciò si aggiunga l’essere padroni del proprio tempo, il silenzio totale, una vita dura e lo spettacolo della bellezza naturale. La risultante di queste conquiste conduce direttamente alla capanna” (p. 88).

Se si raffrontano i motivi che emergono in questo libro con quelli, parzialmente sovrapponibili, di altre e recenti letture (quali Pecoranera, La tigre o Sulla Transiberiana; ma v. anche l’ultimissima fatica di Mauro Buffa, sulla linea ferroviaria transmongolica), sono queste a riuscire in qualche modo vincitrici: nonostante Tesson abbia sicuramente vissuto un’esperienza reale, il suo racconto è sempre rarefatto e ricercato, come capita spesso a molti reportage d’Oltralpe. Tuttavia, se si assume un punto di vista assoluto, Nelle foreste siberiane è il testo migliore che si possa compulsare davanti ai primi fuochi del caminetto invernale, provando un concentrato di emozioni tanto note e decantate quanto (troppo) facilmente omologabili tra le mode di determinate stagioni intellettuali (e non soltanto metereologiche). Come si suol dire, però, una domanda sorge spontanea: è proprio un caso che, di questi tempi di crisi, il fiuto per la steppa tenda a trovare nuove ragioni di affermazione?

Una recensione (di Fulvio Ervas)

6 mois de cabane au Baikal (il documentario girato dall’Autore)

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