Terzo della “trilogia dello spazio”, che ha come protagonista il dottor Ransom, filologo di Cambridge, That Hideous Strenght sviluppa una trama che questa volta si svolge tutta sulla terra, in Inghilterra, nella piccola (e immaginaria) città universitaria di Edgestowe e nei suoi immediati dintorni. Le forze celesti, tuttavia, non stanno a guardare; e ciò perché il pericolo è grande. Infatti, con la complicità di alcuni professori “progressisti”, un fantomatico N.I.C.E. (National Institute for Co-ordinated Experiments) si sta per impadronire dell’antico bosco di Bragdon, proprietà del Bracton College. L’oscuro disegno, in principio, è quasi imperscrutabile e il giovane e ambizioso Mark Studdock, nuovo sociologo del Bracton, si lascia facilmente irretire nel quartier generale del N.I.C.E., nella vicina Belbury, dove si mette a disposizione di un eccentrico e misterioso gruppo di comando, capitanato dal vice-direttore Wither. Nel frattempo, però, Jane, la moglie di Studdock – che Wither vorrebbe a Belbury per poterne sfruttare le innate capacità predittive – trova ricovero a St. Anne, in una strana dimora, nella quale convergono, come a “corte”, tutti gli alleati di Ransom, ivi compreso un grande e docile orso chiamato Mr. Bultitude. Il filologo, reduce dai suoi viaggi interplanetari, è perfettamente cosciente della gravità della battaglia che si va preparando e dell’importanza della posta in gioco: il piano del N.I.C.E. è chiaro, c’è un’orribile e temibile forza che lo muove e che si propone di minacciare definitivamente quello che resta di un antico ordine naturale, muovendo da Edgestowe, instaurandovi un regime di polizia e trasformando tecnologicamente gli uomini in meri strumenti di una nuova religione scientista. Fortunatamente, l’alleato che il perfido Wither cerca nel bosco di Bragdon si risveglia prima di essere scoperto e si presenta, quasi provvidenzialmente, al cospetto di Ransom: dopo secoli di sonno, Merlino è tornato e, grazie alla sua intermediazione, la potenza di Maleldil si manifesterà con tutta la sua forza e non lascerà alcuno scampo ai suoi sventurati avversari.

Pubblicato nel 1945, e subito recensito da Orwell, questo romanzo offre un gradevolissimo spaccato della missione letteraria di Lewis: modernità, disincanto e fede nella scienza hanno convertito l’uomo e la sua visione del mondo, dandogli l’illusione di averlo consegnato a se stesso e per ciò solo liberato; ma la perdita di una prospettiva cosmologica può essere fatale e preludere al dominio irresponsabile di pulsioni tanto incontrollabili quanto apparentemente razionali. Occorre, dunque, tornare al mito, che può essere, in questa cornice, anche un fedele alleato della religione, nella comune finalità di rammentare all’uomo quanto la sua vita possa essere realmente apprezzata se non nella piena accettazione di un limite foriero di gioia e semplicità. In That Hideous Strenght – il cui sottotitolo spiega ogni cosa: “una favola per adulti” – il messaggio è quasi più efficace che nelle Cronache di Narnia; e forse, qui, addirittura, Lewis si rivela, per un attimo, più diretto di Tolkien e di molti altri Inklings. In primo luogo, infatti, ci sono passaggi, dal tenore scopertamente pedagogico, in cui la visione di Lewis si fa particolarmente esplicita, e non solo per gli insegnamenti di cui i personaggi si fanno testimoni, ma anche per il modo assai felice con cui questi se ne fanno portavoce dal punto di vista antropologico. In secondo luogo, è l’ironia a farla da padrone, in un susseguirsi di scene, talvolta esilaranti, nelle quali la pochezza – certamente spirituale, ma non solo… – dei cattivi e delle loro schiere viene messa totalmente alla berlina: come se l’Autore avesse voluto rappresentare, ridicolizzandola, l’estrema debolezza dei poteri cui l’umanità rischia di mettersi al servizio; poteri che sono, viceversa, tremendi solo per i danni che possono causare all’umanità stessa e alla terra che li ospita. Si può restare sorpresi dal tratto talvolta misogino e conservatore dell’universo lewisiano. E non è una mera impressione. Ciononostante il racconto dello scrittore britannico, gustoso e divertente come pochi, trasmette ancora intuizioni che fanno riflettere e che, anche a più di mezzo secolo di distanza, nascondono pillole di saggezza.

Recensioni (di Roberto Persico; di Gianfranco Franchi; di Andrea Monda)

Il romanzo in lingua originale

Un sito (italiano) tutto dedicato a Lewis

La CSLewis Foundation

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Chi non conosce la storia di Guglielmo Tell? Per gli smemorati, è la famosa vicenda di quel cacciatore svizzero che è costretto ad impegnarsi nella folle sfida di colpire con la sua balestra la mela posta sul capo del figlio: che fare? Ritirarsi, e cedere così al sopruso del potente che lo ha provocato in tal modo; o difendere l’onore, proprio e della propria gente, aggrappandosi alle sue innate capacità di tiratore? Questa storia, connotata dai lineamenti incerti che si addicono alla leggenda, è anche al centro del mito fondativo della Svizzera e della conquista della sua autonomia e della sua neutralità: il potente che sfida Tell, infatti, non è altro che un rappresentante dell’autorità imperiale degli Asburgo, e la vittoria del valligiano, che si rifiuta di omaggiarne pubblicamente le insegne e che per questo è spinto alla celebre prova, fissa un confine che per quell’autorità non sarà mai più valicabile. Si tratta, quindi, di una cosa seria, che per ogni svizzero assume tuttora un significato particolare.

Tuttavia, ecco irrompere il simpatico libretto di Max Frisch, che presenta il suo Guglielmo Tell e si misura nel genere originalissimo, se non unico, del racconto glossato, di una sequenza semiseria di tanti brevi capitoli che, alternati ad un cospicuo e gustoso apparato di note, riescono in un effetto tra il comico e lo straniante. È comico, questo Tell, perché è buffo, pigro e per nulla imperioso il suo antagonista, che peraltro è il personaggio principale della trama disegnata da Frisch e che viene ritratto, per così dire, sin dai primordi della sua avventura: ha un nome sempre incerto; non desidera altro che andarsene via al più presto; cerca di interloquire ed integragire con gli autoctoni, ricevendone spesso l’indifferenza e l’ostilità; si sente a disagio ed è preso in giro anche dai bambini, che lo scambiano per uno spiritello malvagio; se si propone qualcosa, poi, lo fa soltanto per ripristinare un po’ di legalità, di buon gusto e di correttezza. Allo stesso tempo, il Tell di Frisch è straniante: perché nelle note si apprende che, stando alle poche fonti realmente attendibili, le possibili variazioni del tema leggendario sono molte e che, forse, alla base delle rivendicazioni locali, non ci sono solo atti di nobile resistenza, ma anche aspirazioni puramente egoistiche o, semplicemente, la pervicace consuetudine ad una vita appartata e ad orizzonti spaziali e mentali completamente rigidi ed autoreferenziali. Inoltre, proprio sul più bello – proprio nel momento in cui si cerca di capire che cosa avrebbe scatenato l’incidente diplomatico ed accelerato il corso degli eventi – lo smaliziato romanziere arriva quasi al punto di combinare la comicità e lo straniamento, avvalorando l’idea che a dominare la scena sia stato soltanto un equivoco e che il povero balivo si sia trovato, suo malgrado, a doverne pagare l’indebita conseguenza.

Frisch riesce nell’impresa di “smontare” una gloria nazionale senza, con ciò, travolgerne del tutto l’importanza storica e senza, soprattutto, sminuirne l’originalità. Si può dire, anzi, che il puntuale apparato critico, se da un lato enfatizza gli ironici strali che il grande scrittore rivolge nei confronti di ogni retorica, dall’altro facilita la contestualizzazione più seria e il confronto più critico, nella prospettiva di chi tiene al passato, ma (preferibilmente) a quello più autentico e sincero. È un’opera “per la scuola”, in effetti: perché l’operazione di memoria che Frisch compie ha un chiaro intento culturale e pedagogico, alla ricerca di un’identità che non sia il frutto di stereotipate e comode rappresentazioni. Ma Guglielmo Tell per la scuola è anche un manifesto letterario, l’ottimo esemplare dei canoni teorizzati in Quadrato nero, per i quali la realtà più vera può solo essere inventata e l’immaginazione presenta chiavi di lettura che la ragione, da sola, non permette di azionare completamente. In questo testo, alla fine, l’Autore dell’indimenticabile Homo Faber sembra davvero molto vicino a Dürrenmatt e ci offre, così, un’altra buona occasione per conoscere meglio e per comprendere appieno quella profonda capacità decostruttiva che lo ha reso famoso e che non sorge esclusivamente da un esercizio estremamente analitico, ma sa trionfare specialmente quando esplode, nelle pieghe di un sorriso, da una considerazione del tutto onesta delle naturali debolezze degli uomini.

Il Max Frisch Archive

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