Molto probabilmente non esiste un Paese nel quale si parli di scuola e di riforma della scuola nel modo con il quale lo si fa usualmente in Italia. La scuola italiana è costantemente al centro dell’attenzione: per il suo posizionamento, di solito non “egregio”, nelle più diverse classifiche internazionali; per lo status così vario e incerto, o meglio, prevalentemente “precario” e de-qualificato, del personale docente; per gli improbabili e maldestri vaticinii di sempre nuove e mirabili metamorfosi che ogni Ministro attribuisce sempre alle imminenti misure che si propone di adottare o di veicolare in Parlamento; per un complesso di straniante inferiorità, nei confronti di altre fette della succosa “polpa” nazionale, ma anche in paragone a modelli pretesamente più efficienti, eppure in loco mai sperimentati; per i periodici episodi di cronaca che nelle rappresentazioni di molta stampa finiscono per additare le nostre aule a laboratorio di retroguardia, di staticità, di inaccettabili bullismi di vario genere.
Per lo più, quindi, si tratta di una storia infinita, dai toni ormai scontati e logoranti. E capita anche di leggere spesso (come è possibile fare anche in questo articolo, di qualche giorno fa) che la missione di una scuola così in difficoltà sarebbe tanto più frustrata da una desolante e irrimediabile mancanza di reattività dei suoi stessi alunni: che leggono poco e male; che non si interessano; che sono “aggrediti” da sollecitazioni – distrazioni – molteplici e continue; che, semplicemente, non sono neanche capaci di accedere al grande patrimonio della nostra tradizione letteraria, non tanto per poterlo capire appieno, quanto per poterlo, almeno e semplicemente, leggere e conoscere.
Allora è spontaneo, nei più, ricordare che, viceversa, le cosiddette “eccellenze” sarebbero prevalentemente all’estero e che occorrerebbe semplicemente prendere esempio da quelle per raggiungere traguardi altrimenti inaccessibili, ma anche per tentare, solamente, di salvare il salvabile. Si discute, così, dell’adeguamento del sistema italiano a standard globali ormai irrefutabili. Si ripete che occorre guardare in avanti. Si vede in ogni richiamo ai depositi culturali della Penisola il rinvio ad un fondamento che, se ancora valido, si può difendere soltanto con mezzi più moderni, e che non può certo fornire alibi per atteggiamenti di resistenza o di ri-proposizione di percorsi e di studi divenuti ormai obsoleti.
Ebbene, di fronte a tutto questo, viene da chiedersi se si debba fare l’esatto contrario, ossia, più correttamente, se, per raggiungere quei risultati, ci si debba guardare innanzitutto indietro, avendo in mente un’esperienza scolastica imperdibile, come fu quella, pre-unitaria e napoletana, del marchese Basilio Puoti (1782-1847: v. il ritratto a sinistra), alla cui fonte si sono abbeverati, tra i tanti, Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini. Certo, molti potranno obiettare molto: che era una scuola super-elitaria; che il materiale umano era diverso; che era una scuola privata per studenti assai motivati e ricchi, non la scuola di massa; che il suo curricolo è sostanzialmente improponibile, in quanto profondamente sbilanciato in severissimi studi umanistici; che in quel tempo non esistevano affollatissime classi multi-etniche con cui confrontarsi etc. Tutto questo è vero. Però è parimenti indubitabile che ciò che racconta De Sanctis è straordinariamente accattivante e, a ben vedere, non è affatto intraducibile; tanto che l’illustre letterato, che era già stato, e lo sarebbe stato ancora, anche Ministro della Pubblica Istruzione, poneva di fatto la scuola del Puoti proprio come esempio con cui competere rispetto alle altre esperienze di matrice europea, in primis quelle anglosassoni.
Il De Sanctis vi allude in più occasioni, e così anche sulle pagine di Nuova antologia (vol. 9, 1868, pp. 509 ss.), trovando un pretesto nella lettura di volumi che trattavano di tutt’altre questioni. L’attenzione per il Puoti, in questo pezzo, è ampia, e non è scevra da venature ironiche e critiche (oltre che da una meditata ribellione nei confronti del Maestro): ad essere ironica e critica, per la verità, è l’intera intonazione del saggio (intitolato L’ultimo de’ puristi), poiché la sottolineatura di un certo dogmatismo e di un certo passatismo – quelli di chi intende seguire le orme del Puoti fissandone l’insegnamento in un qualcosa di infallibile – servono all’autore per valutare la ponderosa opera di cui vorrebbe discutere e di cui, in fondo, si prende gioco apertamente. La cosa rilevante, però, è che De Sanctis, parlando del Puoti, lancia un messaggio importantissimo: ricorda che le nuove generazioni, per poter sviluppare le loro forze, hanno “bisogno di trovare innanzi a sè un passato da combattere, un avvenire da conquistare”; e allora “il passato si chiamava il seminario, l’istruzione provinciale; il progresso si chiamava il purismo, la scuola di Basilio Puoti”.
Questa è la prospettiva giusta, quella che consente di capire come un modello di scuola storicamente superato e inattuabile possa diventare un fattore propulsivo anche nel contesto attuale. Perché quella scuola, infatti, era di per sé inattuale, come dev’essere sempre ogni scuola; essa era già radicalmente in avanti. Perché gli alunni, in effetti, vi erano chiamati alla discussione e al confronto; perché vi si imparava che “il peccato non era il nascer patrizio o il divenir prete; il peccato era l’ignoranza”; perché le lezioni non erano “o spiegazioni o teorie”, ma “esercitazioni”; perché gli alunni “veterani” si prendevano cura dei meno esperti e diventavano esempi da imitare; perché, in definitiva, “i principali attori erano i giovani”, e “i poltroni poco ci duravano”; perché la creazione di una specie di “disciplina naturale” dei discenti passava per il confronto rigorosissimo con riferimenti che, in quanto antichi, erano dichiaratamente in polemica con il presente e ne suscitavano, così, una considerazione critica e matura; perché “alla coltura letteraria tenea dietro un vero progresso ne’ diversi rami dello scibile” (sicché era anche scuola moderna e avanzata, che si apriva ai grandi pensatori e alle grandi scoperte del tempo; in un’altra sede De Sanctis racconta della visita fatta alla scuola da Leopardi in persona, su invito del Puoti).
È possibile, dunque, che queste intenzioni, queste attitudini, questi metodi possano essere riprodotti anche oggi? La risposta non può che essere affermativa e, cosa che fa ancor più piacere, potenzialmente foriera di grandi soddisfazioni: poiché non è vero che coltivare i saperi umanistici non serve e non può essere accostato alla frequentazione, in questo modo maggiormente proficua, delle scienze dure; poiché i ragazzi possono essere al centro del processo formativo che li riguarda, e ciò senza che si rinunci ad essere correttamente esigenti; poiché si può essere puristi anche oggi, a patto che questo purismo non sia fine a se stesso e si promuova, viceversa, a metodo rivoluzionario ed alternativo rispetto a ciò che viene già offerto fuori dalla scuola; poiché, in conclusione, è un modello tutto italiano, da riscoprire e, davvero, da non perdere più.
Francesco De Sanctis e la scuola del Risorgimento (di Marco Grimaldi)