Questo volume, curato da Giorgio Agamben, non fornisce un’introduzione completa all’opera o al pensiero di Carl Schmitt. Che merita di essere frequentato, per la verità, nei lavori più classici e fondamentali, dalla Dottrina della Costituzione a Le categorie del politico, da Terra e mare a Il nomos della terra, dalla Teoria del partigiano a Cattolicesimo romano e forma politica, da Teologia politica I a Teologia politica II. Tuttavia, i saggi e le interviste raccolti nel testo edito da Neri Pozza offrono nitide istantanee di alcuni degli sguardi più acuti ed obliqui del grande giurista tedesco, fornendo, così, un complemento forse indispensabile per la rappresentazione della sua peculiare esperienza.

La lettura, infatti, ci fa presto avvertire che Schmitt si lascia comprendere al meglio soltanto nei suoi itinerari più insoliti e tormentati, nelle affermazioni più intuitive e talvolta urticanti, nel retroterra culturale e religioso della sua educazione familiare, nell’ostentata consapevolezza del ruolo di interprete storicamente organico di processi politici ed istituzionali tanto drammatici quanto decisivi per tutta la storia della tradizione giuridica occidentale. Per Schmitt, essere giurista – esserlo, cioè, scientificamente – significa innanzitutto viverlo, e dunque cogliere le forze e le tendenze proprie di una determinata realtà sociale per poterne tradurre gli stimoli in strumenti organizzativi e criteri interpretativi intrinsecamente coerenti, immedesimandosi totalmente in queste operazioni e mettendosi in gioco, come egli stesso riconosce, “sulla bilancia della storia” (p. 218). In questo, in fondo, Schmitt si sente del tutto solidale e compartecipe con gli unici due giuristi che ricorda come grandi maestri, Maurice Hauriou e Santi Romano. Ed è una prospettiva che in questi contributi emerge pienamente, sia in quelli che ritraggono Schmitt, esplicitamente, al cospetto del suo impegno come giurista del nazionalsocialismo (v. il Colloquio radiofonico del 1° febbraio 1933, il Colloquio con Dieter Groh e Klaus Figge o l’articolo Stato, movimento, popolo, nel quale si giustificano in modo spietato anche gli argomenti razziali), sia in quelli in cui il giuspubblicista travolto dalla disfatta del suo Paese si ripropone quale lettore privilegiato del nuovo ordine mondiale sorto dal declino dello jus publicum europaeum (così in La rivoluzione legale mondiale o ne L’ordinamento del mondo dopo la Seconda guerra mondiale o, ancora, ne il Colloquio sul partigiano).

Il punto davvero centrale, e qualificante, di questa prospettiva non lo si avverte, però nelle specifiche opzioni ricostruttive che di volta in volta Schmitt dimostra di aver sostenuto o di assecondare: si rischierebbe di incorrere, nuovamente, nell’impressione comune (da Löwith in poi) di trovarsi di fronte ad un ineguagliabile opportunista, ad un giurista “pifferaio” capace di ammaliare i suoi interlocutori grazie ad una abilità narrativa non comune. D’altra parte, Schmitt vuole sempre stupire, vuole porsi sempre al di là, se non al di sopra, di tutte le interpretazioni possibili: anzi, nell’intervista rilasciata a Fulco Lanchester pochi anni prima della morte (riprodotta nel brano che dà il titolo al volume: Un giurista davanti a se stesso) il tipico senso di superiorità schmittiano può anche irritare. Il fatto è che l’ostinazione e la radicalità di questo singolarissimo giurista si spiegano per la ragione che egli si è sempre sentito spinto a confrontarsi senza sosta con la ricerca di significati generali ed assoluti per le fasi concrete ed effettive dell’evoluzione storica dell’uomo occidentale e delle sue esperienze politico-istituzionali.

Da qui deriva la propensione per le concezioni olistiche e l’avversione per il modello costituzionale di Weimar e per le fragilità proprie di tutte le esperienze costituzionali pluraliste o di tutte le letture esclusivamente normativiste del diritto. Da qui deriva anche l’interesse inesausto per la teologia politica e per le prospettive escatologiche, testimoniato, anche nella presente antologia, dal breve ma acuto intervento su Tre possibilità di una immagine cristiana della storia: sicché, a ben vedere, il famoso decisionismo di Schmitt non è l’ipostatizzazione di un (facile) volontarismo, bensì la traduzione teorico-generale di un problema quasi esistenziale, di una ricerca dell’esserci giuridico di una determinata collettività in uno specifico momento storico. Il dato è evidente anche nel complesso Colloquio su Hugo Ball, poiché in esso si ha l’opportunità di interrogarsi su quale potesse essere lo stretto ed indecifrabile legame tra Schmitt e quel famoso ed originale dadaista. Da un lato, certo, un tale legame è un’ulteriore traccia del clima particolare che anche Schmitt ebbe modo di vivere nelle sue frequentazioni giovanili del quartiere bohémien di Schwabing, a Monaco (v., in proposito, il bel saggio di L. Garofalo su Schmitt e Kandinsky). Dall’altro, però, non si può che maturare l’idea che quello stesso legame derivasse anche dalla consapevolezza di un comune destino / approccio, vuoi personale, vuoi conoscitivo. Non è un caso che Schmitt si riconosca integralmente nella definizione che di lui stesso aveva dato proprio Ball: “Nella forma di coscienza della sua attitudine vive il proprio tempo” (p. 148).

Delle numerosissime, e suggestive, sollecitazioni che provengono dalle pagine di questo libro, molte possono essere considerate utili anche per i giuspubblicisti dell’era globale, in primis tutte le riflessioni che Schmitt dedica all’affermazione, post secondo conflitto mondiale, di un “pluralismo di grandi spazi” (p. 238 ss.): ossia di un’esperienza politico-giuridica in cui si sovrappongono dimensioni istituzionali e normative differenti, che non coincidono più con le proiezioni fisiche e territoriali degli Stati e che pongono al centro dell’attenzione il problema dell’individuazione dello “spazio dello sviluppo industriale” e del governo della sua “irresistibilità” (p. 246). In questa cornice di ragionamenti, ciò che sembra essenziale è il metodo, poiché per Schmitt il livello internazionale o globale non è per nulla estraneo al livello statale, le cui categorie ed i cui strumenti operativi ed organizzativi si sono sempre articolati anche con riguardo al modo con cui lo Stato stesso si pone nei confronti di ciò che è collocato oltre la propria esperienza. Se qualcuno, dunque, chiedesse che cosa è veramente vivo, a tutt’oggi, dell’opera di Schmitt, una buona risposta potrebbe essere questa: l’appello all’inestricabile unità di tutte le scienze pubblicistiche.

Una recensione (di Gianfranco Cordi)

Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978) (di Carlo Galli)

Un confronto tra Carl Schmitt e Santi Romano (di Stefano Pietropaoli)

Il nomos della terra (presentato da Carlo Galli)

Il diritto europeo nella globalizzazione: fra terra e mare (di Maria Rosaria Ferrarese; v. a p. 11 ss.)

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“Da sempre gli uomini detestano la condizione umana. Si adattano male a quello che sono, si preferirebbero dèi, statue, magari alberi. Poiché odiano il vuoto vertiginoso da cui sono costituiti, si spacciano per più solidi, più densi, meno effimeri, si inventano delle radici. Oggi come ieri si definiscono attraverso un luogo di nascita, una famiglia, un clan, una nazione, una religione. Si incollano, si fondono, si legano a ciò che non è loro e che rimane, si attribuiscono consistenza, cercano di colarsi nel bronzo. Siccome rifiutano di accettare un’identità problematica, la sostituiscono con identità che vorrebbero senza problemi. Dimenticando di essere un uomo, ognuno si concepisce americano, cinese, francese, basco, cattolico, musulmano, omosessuale, ricco, povero… Come se l’uomo fosse ricoperto per intero da una maschera, come se un abito dissimulasse la condizione umana… Beethoven però non si fa abbindolare”.

Con questo estratto (p. 47), l’Autore “autopresenta” nel modo migliore e più incisivo il suo gradevolissimo lavoro.

Eric-Emmanuel Schmitt, del resto, ci ha già abituati a coniugare profondità e schiettezza. La parte dell’altro (il terribile romanzo sull’inevitabilità dell’“uomo” Hitler) e Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano (che, forse anche per la sua dolce immediatezza, ha trovato una nota e fortunata trasposizione cinematografica) sono letture pressoché obbligate.

Da segnalare, invece, è la decisione di dedicarsi anche alla musica, con un vero e proprio ciclo, “Il rumore che pensa”, che ha già preso avvio con un’altra e precedente riflessione su Mozart (La mia storia con Mozart), e che, quanto agli annunci dello stesso Schmitt, promette di toccare Bach, Schubert e, speriamo, altri grandi maestri della Classica.

Le ragioni di Beethoven sono presto dette; sono “esplicitate” tout court nella citazione sopra ripresa.

Quanto bisogno ci sia, anche oggi, del corredo di valori (umanismo, eroismo, ottimismo) che l’universo del celeberrimo compositore sa evocare, in modo così unico e forte, è constatazione troppo banale. Da questo punto di vista, non si può che concordare con la frase da cui è formato il titolo stesso del libro e che si deve ad una magistrale ed iconica figura di insegnante di piano (dal nome altrettanto indimenticabile, Vo Than Loc), che lo scrittore dice di ricavare dai ricordi della sua adolescenza. Ascoltare Beethoven, in sostanza, aiuta ad avere fiducia, ed anche il breve racconto che segue alla riflessione più propriamente saggistica (Kiki van Beethoven) è la “messa in scena” di piccoli, ma al contempo grandi, episodi di redenzione individuale e collettiva.

Le ragioni di un’opera à la Schmitt, invece, non sono così scontate.

Essa non piacerà ai puristi del genere; e non entusiasmerà neppure il lettore mediamente colto. Nonostante ciò, questo approccio, che si arricchisce anche di semplicissimi inviti all’ascolto, facilitato dal cd allegato (nb: se ne consiglia l’utilizzo durante le prime colazioni di ogni giorno…), è il miglior viatico per riappropriarsi di significati che solo la musica può comunicare e che ci sono veramente essenziali.

Si può anche dire di più: non solo la Classica merita ambasciatori degni del suo Nome; tutta la Musica lo merita; perché ogni Nota, in fondo, ci accorda una volta di più e ci aiuta a metterci, o a ri-metterci, sul binario giusto.

 

Il primo brano scelto da Schmitt: Ouverture del Coriolano in do minore, Op. 62

Esecuzione dei Wiener Philharmoniker, diretti da Christian Thielemann

Esecuzione dell’Orchestra Mitteleuropea “Lorenzo Da Ponte”, diretta da Roberto Zarpellon

Un approfondimento speciale, dalla BBC

The Beethoven Experience

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